Controcultura, musica ribelle e critica rivoluzionaria

di Sandro Moiso

Mario Maffi, La cultura underground, Giuseppe Laterza & Figli. Roma-Bari 1972, pp. 472

Questo libro è nato come libro di intervento politico. Non vuole cioè cadere in quell’obbiettività tanto cara al sistema che tutto uguaglia, tutto smorza e tutto svuota, concludendo con il solito gloria che tutti i salmi chiude. Il periodo della «cultura underground» e della sua trasformazione politica è un periodo di estrema importanza nella storia americana, e quindi mondiale: conoscerlo e comprenderlo significa entrare in prima persona nei nodi dei problemi; ed entrarvi in prima persona significa mettere se stessi a disposizione della soluzione. Nessun distacco, ma piena partecipazione critica e polemica: questo si richiede sia a chi studi questo argomento sia a chi lo divulghi sia, infine, a chi ne sia convolto in un modo o nell’altro. ( Mario Maffi, La cultura underground – 1972)

Nel 1972 uscì in Italia un libro di Mario Maffi che, insieme alla Guida alla musica Pop di Rolf-Ulrich Kaiser pubblicato appena un anno prima negli Oscar Mondadori, avrebbe soddisfatto la fame di informazione e di interpretazione “politica” di chi, come il sottoscritto, aveva colto nelle trasformazioni in atto nella musica “giovanile” proveniente da oltre Oceano, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, importanti elementi e sintomi del cambiamento in corso, non soltanto, anche se e forse soprattutto, dal punto di vista generazionale.

Però, mentre il libro di Kaiser, uscito in Germania nel 1969, si occupava quasi esclusivamente di musica rock e pop, quello di Maffi, La cultura underground, affrontava con un respiro assai più ampio e una capacità interpretativa ben definita politicamente tutti gli aspetti di una controcultura ribelle e antagonista, underground come si diceva allora, che dai movimenti sociali di rivolta e protesta americani aveva preso spunto.

Certo, sia il libro di Kaiser che quello di Maffi, in Italia erano stati preceduti nell’intento dall’uscita della rivista Re Nudo, la prima e la più longeva espressione, di natura libertaria e situazionista, della controcultura dagli anni successivi al Sessantotto. Fondata a Milano nel novembre 1970 da un gruppo di intellettuali, artisti e militanti, tra i quali Andrea Valcarenghi, Gianni De Martino, Dario Fo, Marco Fumagalli, Gianfranco Manfredi, Claudio Rocchi, Gianni Emilio Simonetti, Michele Straniero, Massimo Villa, e il cui numero zero fu pubblicato nel novembre del 1970 come supplemento al numero 19 di «Lotta Continua»

Quasi subito quella prima “redazione” del giornale si sarebbe divisa sul tema dei finanziamenti e della pubblicità. Così nel giugno di quell’anno parte del gruppo redazionale, capeggiato dai membri dell’”ala situazionista” mise in atto una sorta di scissione, che rimase, però, una provocazione temporanea, considerato che subito dopo «Re Nudo» tornò a essere guidato da Valcarenghi.

Nel numero di gennaio del 1972 la rivista lanciò la proposta di dare vita a un nuovo movimento ispirato ai “White Panthers” statunitensi di John Sinclair: un tentativo di unire i tradizionali temi contro-culturali all’impegno “classista” nei confronti di temi come l’aborto, il divorzio, le condizioni nelle carceri, il disagio delle periferie urbane. Ma questa iniziativa portò ancora una volta ad una scissione da parte di alcuni redattori romani, indirizzati a una visione più hippie della rivista, che avrebbe comunque proseguito la sua attività fino al 1980.

Dopo aver fatto, doverosamente, omaggio a quel primo tentativo in Italia di coniugare, piuttosto disordinatamente, cultura giovanile e politica “antagonista”, occorre tornare a rivolgere lo sguardo al testo di Maffi, che si distinse subito per chiarezza d’intenti e unitarietà di interpretazione di fenomeni apparentemente distanti e ben distinti tra di loro.

La prima edizione, replicata nel 1973, si divideva in due sezioni, che sarebbero state mantenute sia nella successiva edizione in due volumi sempre per la casa editrice Laterza nel 1980 che nella riedizione del 2009 per la casa editrice Odoya. La prima, intitolata Dalla cultura underground al Movement, costituiva quella eminentemente politico-culturale, mentre la seconda, La produzione artistica underground, era principalmente suddivisa tra nuovo cinema, musica rock e teatro. Con un suddivisione che, fin dalle prime pagine della Premessa, privilegiava nettamente l’interpretazione politica e classista di quelle nuove manifestazioni musicali, letterarie, cinematografiche e teatrali provenienti dagli States più che quella meramente estetica. Così scriveva infatti l’autore nelle prime pagine della prima edizione:

La pubblicazione di questo libro coincide con un momento tutto particolare del dissenso interno americano, momento che da più parti viene definito di riflusso. In linea di massima, si tratta di una diagnosi corretta, pur nella limitatezza delle etichette. Effettivamente, il Movement è in una fase di stasi, di riconsiderazione, anche di disorientamento; ma sarebbe profondamente ingenuo pensare che questa fase altro non sia che il lento e graduale ritorno all’ovile del giovane ribelle. La gratuità di un’analisi simile discende proprio da un fraintendimento di ciò che è stato il dissenso americano in tutte le sue forme, e soprattutto dall’ignoranza storica che impedisce di comprendere la natura, gli sviluppi, il significato e le prospettive potenziali di simili «movimenti».
In questa fase di riflusso, il Movement sta scontando in realtà le proprie debolezze teoriche, i propri errori ideologici, le proprie posizioni confuse: alla grande esplosione incontrollata, istintiva, anarcoide, strategicamente non chiara, segue necessariamente il periodo del disorientamento, dell’analisi, dell’auto-critica, se si vuole; il momento della ricerca d’una chiarezza ideologica, di una intransigenza politica (dapprima rifuggite e osteggiate, ora ritenute sempre più indispensabili), attraverso la riconsiderazione di tutte le azioni e di tutti gli errori.
[…] Il periodo di stasi del Movement è quindi non rinuncia e ritorno all’accettazione dei valori della società capitalistica, ma studio, verifica, sfrondamento di tutte quelle posizioni quasi idealistiche, quasi romantiche, volontaristiche, che hanno costituito il nucleo – e la debolezza – della protesta giovanile. Può darsi che ciò non sia ancora qualcosa di completamente consapevole, di razionalmente compreso, ma la tendenza generale – che dovrà anche superare lo sconforto, la delusione e il pessimismo subentrati – è questa: lo dimostra proprio il graduale affermarsi di nuovi gruppi su basi più chiaramente marxiste, legati in origine all’operaio nero, ma con il programma dichiarato di raggiungere quello bianco per una lotta comune sul luogo di lavoro1.

Se è vero che il ricco testo di Mario Maffi costituiva, e ancora costituisce, un autentico viaggio attraverso le esperienze della beat generation, i problemi dell’individuo e della droga, la politica e la guerra nel Vietnam, i gruppi pacifisti, gay e femministi, le organizzazioni delle minoranze etniche e del dissenso più radicale espresso dal Black Panther Party e dai Weather Underground, le sperimentazioni del cinema e del teatro, la produzione musicale da Bill Haley ed Elvis Presley ai Fugs e Frank Zappa, è anche vero che queste note di metodo iniziali sono ancora fondamentali per orientarsi nella valutazione dei movimenti sociali, non solo americani, sviluppatisi nel corso degli ultimi decenni.

Non tutti occidentali, non tutti caratterizzati da grandi innovazioni artistiche, culturali e musicali (anche se il rap dei ghetti delle metropoli europee costituisce una nuova forma di comunicazione che deve essere analizzata e compresa2 ), ma tutti espressione di contraddizioni che, comunque, devono essere seriamente prese in considerazione. Evitando, però, di confondere l’azione e la reazione spontanee con una tattica o, addirittura, una strategia da applicare fiduciosamente, anche in contesti molto diversi da quelli di origine.

Il libro di Maffi, alla sua uscita, rappresentava proprio la volontà di interpretare un movimento di ampia portata senza per forza accettarne tutti i comportamenti o le idee espresse dal suo interno. Un metodo che prendeva le distanze sia dalla acritica accettazione dei fenomeni legati agli hippies e al pacifismo di stampo peace and love and drugs, come avveniva per esempio nel caso di Re Nudo o almeno di una sua ampia componente, ma anche dalla condanna espressa nei confronti di quei fenomeni espressi dal Movement portata avanti, anche in questo caso acriticamente, dalla tradizione del partito togliattiano, dai marxisti-leninisti e anche da una parte, probabilmente maggioritaria della Sinistra Comunista cui faceva riferimento lo stesso autore, prendendo però, in maniera più che evidente, le distanze dall’ultimo articolo scritto da Amadeo Bordiga (18891970) su «il programma comunista» nel 1968, dove tutti i movimenti giovanili e studenteschi venivano implacabilmente liquidati, non riconoscendo in essi le differenze da quelli che avevano invece caratterizzato i movimenti nazionalisti e guerrafondai che avevano caratterizzato gli anni precedenti il Primo conflitto imperialista mondiale3.

La stesura di quel testo, per lo stesso autore, all’epoca non ancora trentenne, costituì probabilmente una sorta di rivolta generazionale, in famiglia per così dire, vista la sua vicinanza alle posizioni espresse dal Partito Comunista Internazionale, di cui «il programma comunista» era l’organo di stampa. E forse è dovuta anche a questo aspetto la passione che anima le pagine di un libro che, in una prosa polemica e incisiva, passa in rassegna gli aspetti sociali e culturali di un’intera epoca, sondandone le origini e le profonde motivazioni individuali e collettive.

Così, anche se oggi quell’originaria freschezza che accompagnò il secondo e ultimo Rinascimento americano è andata perduta4, il libro di Mario Maffi ha ancora molto da insegnare e ricordare non soltanto alle generazioni più giovani, ma anche a chi non è mai uscito dalle maglie di una interpretazione rigida di un marxismo trasformato in dogma oppure che, ancor più comunemente, non ha saputo far altro che abbandonare, con la scusa della delusione e della raggiunta “maturità”, la strada maestra della rivoluzione.

«Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.» (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca – 1845/1846)


  1. M. Maffi, La cultura underground, Giuseppe Laterza &Figli. Roma-Bari 1972, pp. V- VII.  

  2. Come ha provato a fare Louisa Yousfi con Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023.  

  3. Si veda: A. Bordiga, Nota elementare sugli studenti e il marxismo, «il programma comunista», n. 8, 1-15 maggio 1968.  

  4. Il “primo” Rinascimento americano è ricollegabile all’espressione coniata dal critico letterario Francis Otto Matthiessen nel 1941, che faceva riferimento al movimento del trascendentalismo e al più generale movimento letterario e culturale fiorito negli Stati Uniti intorno a esso tra la vigilia della seconda rivoluzione industriale e la Guerra di Secessione, i cui principali rappresentanti erano stati Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman, e Henry David Thoreau.  

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