di Mauro Baldrati
“La prima parte del film è atroce. Il giovane Giacomo è prigioniero, ostaggio in una casa-sarcofago costruita in un paese-cimitero. La casa è popolata da spettri, o forse da demoni. Il ragazzo, taciturno, stravolto, è sempre chino sui tomi della enorme biblioteca del padre Monaldo, insieme al fratello e all’amata sorella Paolina. Fuori dalla finestra una vita sembra esistere, una vita popolare fatta di carretti, di cavalli, di grida. Una vita estranea, nel silenzio funebre della casa. Si è fatto un gran parlare, nelle recensioni, di Monaldo come di un padre “severo” ma che ama suo figlio, lo protegge. Insomma, tanto per non farsi mancare un po’ di buonismo all’italiana, una sorta di recupero della figura paterna. In realtà Monaldo è ben rappresentato per quello che è: un lugubre reazionario bigotto, che protegge e stima suo figlio solo se accetterà di trasformarsi in uno dei tetri abati letterati nerovestiti, cultori di una letteratura morta scritta da autori decrepiti (da loro stessi uccisi e mummificati). Lo ama e lo amerà solo se deciderà di rispettare la chiesa, la tradizione, la visione conservatrice antiliberale. E la madre è persino peggio: una mummia nera, “neversmiling”, punitiva, anaffettiva, minacciosa.
In questo contesto il giovane Giacomo non è un ribelle. E neanche un rivoluzionario. Si avvita nel suo destino, nella sua solitudine. Probabilmente sviluppa, o affretta, la propria malattia. Se vuole uscire dal sarcofago, lo fa chiedendo. Lo fa supplicando. Implora il padre, e il trucido, bigottissimo zio di lasciarlo andare. Di concedergli la libertà. E avrà in cambio un rifiuto, mentre il coperchio del sarcofago sembra richiudersi, con una sinistra evocazione di E Johnny prese il fucile, di Dalton Trumbo.”
Quanto sopra è la sezione iniziale della mia recensione (apparsa qui su Carmilla il 1 novembre 2014,) del precedente film su Leopardi, Il giovane favoloso. E’ sempre un poco imbarazzante autocitarsi, ma il passo è perfetto anche per la prima parte del nuovo Leopardi il poeta dell’infinito, andato in onda in due parti su Rai 1 il 7 e l’8 gennaio, visibile su Rai Play. Infatti è inevitabile un confronto, quanto meno un riferimento all’opera precedente. Non proprio un confronto di qualità, perché il film di Martone interpretato da Elio Germano resta inarrivabile, ma per le due diverse versioni, le scelte dei personaggi e degli episodi riferiti alla vita sofferta del più grande poeta italiano. In questo senso il Leopardi di Sergio Rubini è più fiction, si concede più licenze narrative e approfondimenti – facilitato anche dalla durata doppia della pellicola. Intano riempie il salto temporale tra la vita da sepolto vivo nella mostruosa biblioteca di famiglia, e l’arrivo a Firenze dove vivrà la fase di apocalittica infelicità per l’amore non corrisposto per la contessa Fanny. Una infelicità che noi persone più o meno “normali” non possiamo immaginare, perché è fuori dalla nostra portata di terrestri: la caduta in un buco nero di antimateria in grado di disintegrare ogni razionalità materiale. Ma è anche una straordinaria forza motrice per la creazione, come un rigenerarsi della vita da una carogna putrefatta. Ecco che Giacomo Leopardi appartiene a quella schiera di artisti che sono stati costretti a vivere il loro strazio, il loro fallimento per donare al mondo opere immortali: Van Gogh, Baudelaire, Pavese, Proust, Kafka, solo per citare i maggiori.
Rubini, attraverso il giovane interprete Leonardo Maltese, cerca di seguire il suo personaggio nelle varie fasi della vita, operando alcuni “aggiustamenti”: elimina le deformità dal corpo del Leopardi reale, ne fa un ragazzo sì esile e malaticcio, ma che talvolta vediamo correre all’aperto coi capelli al vento, e lo trasforma in un vero ribelle. Ancora ragazzino opera una frattura strutturale con la famiglia, si strappa di dosso l’abito nero da pretino che gli è stato destinato e quando è pronto lascia finalmente la prigione di Recanati (ma finisce per tornarci, esausto, senza soldi, e qui come non pensare al Rimbaud che si rifugia a Charleville). Passa da Bologna, dove vivrà la fase 1 dello strazio amoroso impossibile con la contessa Malvezzi, un episodio scavalcato da entrambi i film, fino alla discesa agli inferi dell’innamoramento platonico per la contessa Fanny. Si può dire che questo sia il nucleo di tutto il film, il nocciolo duro del binomio infelicità/creazione. Leopardi vive un breve periodo felice a Firenze con la contessa e il nuovo – e forse unico – amico Ranieri, personaggio reale a sua volta stiracchiato per esigenze narrative, trasformato in un aitante playboy che passa da una dama all’altra. Leopardi è sereno, è allegro perché è inconsapevole: non sa che l’oggetto del suo amore, che lo riempie di attenzioni e lo venera come grande poeta e filosofo, è innamorata di Ranieri. La scoperta della verità gli esploderà in faccia e lo abbatterà come un alberello raso al suolo da un uragano. Avvelenato, divorato dal dolore e dalla frustrazione subirà una straordinaria variante, operata dall’astuto regista: forse per vivere con la fantasia il suo amore negato, si trasformerà in un nuovo Cyrano, scrivendo lettere poetiche a Fanny firmandosi Antonio Ranieri.
Questo episodio centrale del film, l’amore impossibile idealizzato che contribuisce a concimare il dolore mortifero che genera l’energia della creazione, è esemplare. Leopardi è votato totalmente alla sua disperazione amorosa, non vede che Fanny, non può concepire nessun’altra all’infuori di Fanny. Non sappiamo se la scelta del regista e degli sceneggiatori (tra i quali lo stesso Rubini) sia studiata a tavolino, ma il personaggio Leopardi, se solo lo volesse, potrebbe avere la sua dote di amore reale carnale. Infatti la figlia di un editore che, tra le trappole della censura austriaca, pubblicherà le sue opere, è innamorata di lui, sarebbe pronta a seguirlo. Ma lui non la vede, non è interessato; è risucchiato dal suo Infinito, un vortice dal quale non può, oppure non vuole liberarsi. Forse lui è Poesia, come Kafka che non può sposarsi perché è Letteratura?
Le svolte fiction, piccole e grandi, puntano anche a un’interfaccia politica. Leopardi è un materialista, per certi aspetti un eversivo. A Firenze entra in contatto con la comunità di patrioti liberali che ruotano intorno al Gabinetto Scientifico Letterario di Giovan Pietro Vieusseux che lo accolgono con tutti gli onori e cercano in ogni modo farne un testimonial per la causa. Rubini si diverte a prenderli in giro, a mostrarceli come dei trinariciuti un po’ tonti, specialmente Niccolò Tommaseo, un trombone saccente che detesta, perché lo invidia, Leopardi. Ma lui non ci sta, è un artista individualista che non crede, forse perché ne conosce la vera natura, alle beghe politiche umane. Appartiene a un’altra specie, forse dei santi, forse delle anime perdute. Con la sua voce flebile e sommessa (a tratti persino eccessivamente bassa, per cui bisogna alzare il volume della tv) stronca educatamente i loro entusiasmi patriottici.
Oppure la presenza misteriosa di un infiltrato che informa la polizia politica austriaca dei fatti e misfatti politici-letterari dei patrioti, provocando sequestri e addirittura arresti: la scoperta in una variante spy story della sua identità farà restare tutti basiti, personaggi e spettatori del film.
Verso il finale, in una Napoli annientata dal colera, arriva a destinazione il breve viaggio della cometa Leopardi. Negli ultimi istanti vorrà portare con sé, sul cuore, una delle lettere d’amore che Fanny gli ha scritto credendolo Antonio. Non è spoyler, è scritto da più parti. Un piccolo, forse unico, lampo patetico, che tuttavia si nota appena, come un granello di polvere nel Maestrale.