Di Francesco Servadio, buongiornosuedtirol.it
Il 24 gennaio è uscito il nuovo libro del professor Carlo Iannello, “Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà” (edito da Meltemi). Costituzionalista, docente di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” ed esperto di biodiritto, Iannello approfondisce e completa le tematiche che, pur avendo origini antiche, sono emerse prepotentemente a partire dall’epoca del Covid. L’autore del libro “L’interpretatio abrogans dell’art. 32 della Costituzione” (Editoriale Scientifica, 2022) si sofferma sugli effetti del ‘dirigismo nazionale’ e sulla crisi della politica, quest’ultima sempre più ostaggio del capitalismo transnazionale.
- Professore, nell’intervista a noi rilasciata due anni fa Lei sosteneva che si stesse andando verso un ‘dirigismo sovranazionale’: il Suo ultimo libro, ‘Lo Stato del potere’, sembra mettere il cappello su quell’affermazione. Lo conferma?
“Assolutamente. Le mie riflessioni rappresentano un tentativo di comprendere come si sia modificato il potere pubblico all’interno degli ordinamenti che la tradizione classifica liberal-democratici. Mostro come, nel corso degli ultimi decenni, questi ordinamenti si sono progressivamente allontanati sia dai loro principi di funzionamento (separazione dei poteri, garanzia dei diritti, rappresentanza politica) che da quelli del costituzionalismo novecentesco (il solidarismo, cioè la garanzia dei diritti sociali e le politiche di redistribuzione del reddito).
Progressivamente il mercato ha sostituito la politica finché non si è rotto qualcosa anche all’interno dello stesso mercato. La tendenza alla concentrazione dei capitali ha determinato un assetto oligopolistico che, in questi ultimi tempi, tende al monopolio. Non solo molte imprese multinazionali sono monopolistiche nei rispettivi settori (si pensi a Facebook, ad Amazon, alle diverse piattaforme digitali), ma la loro proprietà è sempre più concentrata nelle mani di pochi fondi di investimento, che stanno così dominando monopolisticamente l’intera economia.
Così, in tempi recenti, poche imprese dettano le politiche; agli Stati residua il compito di eseguirle. Parlo di neo-dirigismo perché le nuove politiche, nonostante siano al servizio di un mercato sempre più monopolistico, stanno utilizzando l’armamentario tipico delle politiche socialdemocratiche del secolo passato: le pianificazioni”.
- Lei scrive che il ‘neo-dirigismo’ farà tramontare “le più tradizionali libertà costituzionali, rimaste in piedi nella fase neoliberale, ovvero l’iniziativa economica privata e il diritto di proprietà”. Può illustrarci questa Sua visione?
“È proprio quello che si sta verificando. Durante gli ultimi quarant’anni, le politiche che hanno prima trasferito interi settori di economia pubblica al mercato e poi privatizzato il welfare e l’azione pubblica hanno prodotto effetti rilevanti sulle libertà politiche e sui diritti sociali. Le prime sono state svuotate di contenuto. Venuta meno la funzione dei partiti e quindi degli organi democratico-rappresentativi (Governo e Parlamento), il governo di ampi settori economici e sociali è stato sottratto alla politica. Nel corso dei decenni passati, le politiche neoliberali hanno cioè sostituito il governo (inteso in senso classico) con la governance, che non è una variante del governo politico, ma il suo opposto. Indica il trasferimento del potere effettivo di governo, come spiego nel libro, dallo Stato ai mercati. Per quanto riguarda i diritti sociali, essi sono stati compromessi dalla fine delle politiche redistributive del reddito, sottratte agli Stati, incapaci di indebitarsi se non entro vincoli ben precisi e solo facendo ricorso al mercato, cioè alle banche. Adesso la compromissione sta investendo anche le libertà economiche, rimaste, fino a poco tempo fa, al riparo.
In pratica, il neoliberalismo si sta comportando come Crono, il padre che divora i suoi figli. L’implementazione delle politiche neoliberali ha prodotto una tale crescita di alcuni soggetti economici, che adesso pretendono di sostituirsi agli Stati e governare direttamente economia e società, minacciando pure le residue libertà economiche (in particolare, quelle di attori modesti, cioè della piccola e media proprietà e della libertà di impresa individuale o comunque di dimensioni medio piccole)”.
- Il Suo saggio inizia con una riflessione sull’eclissi della politica e su quella che Lei definisce una nuova forma di impresa: l’’impresa-Stato’…
“È la conseguenza del fenomeno cui ho appena fatto riferimento. Inizialmente gli Stati hanno perso la capacità di governo, trasferita ai mercati. Le privatizzazioni hanno avuto un ruolo essenziale in questo processo, perché hanno tolto allo Stato il governo di ampi settori economici, compreso quello delle infrastrutture pubbliche essenziali, come la rete ferroviaria o quella di telecomunicazioni. Si pensi, al funzionamento del settore elettrico, in cui lo Stato ha perso il potere di indicare il prezzo dell’energia, che deve essere determinato simulando il mercato: quando però questi meccanismi di mercato formano un prezzo palesemente ingiusto, che dà margini enormi di profitto alle imprese energetiche, come sta accadendo dall’inizio del conflitto in Ucraina, lo Stato si ritrova con le mani legate. Non può intervenire direttamente fissando il prezzo, perché il mercato è privatizzato. Può solo aiutare le imprese e i cittadini particolarmente colpiti attraverso la corresponsione di bonus, che servono per pagare (con l’aiuto della fiscalità pubblica) bollette stratosferiche ai padroni del vapore, cioè all’impresa privata, che lucra profitti extra.
La privatizzazione del welfare ha poi spogliato lo Stato anche del governo delle dinamiche sociali, affidate ad una logica che ha emulato quella della concorrenza (si pensi ai processi di aziendalizzazione di scuola, sanità, università, ma anche alla stessa managerializzazione dell’azione pubblica). Lo stesso è accaduto con le politiche di deregolamentazione del lavoro. Sindacati e partiti ne sono stati stravolti e la politica ha perso gli attori fondamentali. La politica si è eclissata e gli organi democratico rappresentativi sono stati spogliati del potere decisionale.
Il ritiro dello Stato ha prodotto un vuoto, che è stato occupato da altri attori. Lo spazio politico dismesso dallo Stato è stato progressivamente occupato dall’impresa privata che è entrata anche in settori un tempo di pertinenza degli Stati. Ecco perché richiamo l’idea di impresa Stato. È l’impresa a farsi Stato. L’opposto di quanto accadeva durante il Novecento in cui era lo Stato che diventava imprenditore”.
- Quando Lei si sofferma sul ‘capitalismo transnazionale’ e sul ‘monopolio globale’, allude ai ‘padroni del mondo’: chi sarebbero, esattamente?
“I padroni del mondo” è il titolo di un ottimo libro di Alessandro Volpi che ha messo chiaramente in luce come le più recenti tendenze del capitalismo mettano in pericolo non solo la democrazia (questione molto studiata) ma addirittura il mercato, perché ne stanno alterando la struttura plurale. Volpi mette in luce come le più recenti tendenze stiano producendo un monopolio su scala globale. Non solo ci sono aziende multinazionali che sono praticamente monopoliste nei loro settori (da Meta a Nvidia, da Amazon a Google o a Space X). Ma non è finita qui. Perché un ruolo essenziale è interpretato dai tre maggiori fondi di investimento che posseggono quote considerevoli di capitale in quasi tutte queste aziende, oltre ad aver acquisito posizioni di controllo in ogni settore. Non solo si sono impossessati di ciò che ha dismesso il pubblico (dalle reti pubbliche dismesse alle società di servizio pubblico, dalle imprese che si occupano dei settori sanitari fino a quelli energetici), ma stanno progressivamente occupando l’intera economia. Non c’è settore essenziale in cui non siano presenti in posizioni di controllo: dall’editoria all’industria alimentare, dall’industria bellica a quella farmaceutica, dalle banche alle agenzie di rating, dalle scommesse sportive alle piattaforme per il turismo. Una sorta di monopolio universale. Queste imprese monopolistiche stanno così occupando il vuoto politico prodotto dalle politiche neoliberali”.
- Parliamo allora degli effetti delle politiche neo-liberiste imposte dall’Unione Europea.
“L’Unione Europea è stato il motore di questo processo. Non solo ha imposto vasti programmi di privatizzazioni e liberalizzazioni, ma ha tolto agli Stati la stessa possibilità di realizzare politiche redistributive con i vincoli all’indebitamento”.
- A proposito di eclissi della politica. Coloro i quali oggi si professano ‘liberali’, ieri non erano soltanto favorevolissimi alle misure liberticide (lockdown, Green Pass e obbligo vaccinale a tappeto, pena la sospensione dello stipendio e l’esclusione dalla vita sociale), ma spesso censuravano e denigravano chi esprimeva pareri difformi dalla narrazione dominante, richiamandosi al concetto di rispetto della dignità umana. Quelli sono gli stessi che oggi acclamano le ideologie green e woke: in assenza di un’ammissione di responsabilità relativa alle imposizioni, sarà difficile, soprattutto per alcuni partiti, recuperare la fiducia nel rapporto con i cittadini? Si può prevedere un aumento dell’astensionismo al voto?
“Molte delle posizioni contenute nel saggio si sono chiarite durante il trauma rappresentato dalle politiche messe in campo per arginare la diffusione del Sars-Cov-2. Durante quel periodo si è rotto qualcosa nella società, che non si è più ricomposto. A mia memoria, non era mai accaduto che si criminalizzassero le persone perché dubitavano di politiche, peraltro criticabili sotto una pluralità di aspetti, oltre che largamente inefficaci. Chi sollevava dubbi più che ragionevoli (come l’inopportunità di vaccinare i giovani sani o i bambini, che non rischiavano praticamente nulla, con un vaccino testato per un paio di mesi, a fronte di sperimentazioni che durano mediamente 10 anni) è stato stigmatizzato pubblicamente come negazionista, oppure no vax. Un modo per eliminare in radice ogni possibilità di dialogo. Negazionista è infatti chi nega la Shoà e con i nazisti non ci si può confrontare sul piano delle idee. Il medesimo schema si è poi ripetuto con la guerra in Ucraina. Chiunque osasse uscire dallo schema semplicistico raccontato dai media, cioè della riduzione di una vicenda complessa alla dicotomia propagandistica aggredito-aggressore, veniva identificato come collaborazionista del nemico. Lo stesso è accaduto con le politiche green. Sono tutte manifestazioni di un sistema che ha sempre più paura del confronto (più che del dissenso). È una conseguenza del wokismo, cioè del tentativo di imporre un pensiero unico in aperto contrasto con la realtà. Larga parte della popolazione si allontana così sempre di più dalla partecipazione politica. Anche se decide di non parlarne, perché avverte che il confronto e il pensiero critico è mal visto dal potere e da un contesto sociale che si schiera acriticamente e conformisticamente con l’ideologia dominante. Chi è contrario si comporta come la tragica figura dell’asino Beniamino della fattoria degli animali, il solo che aveva conservato la capacità di leggere e quindi di comprendere che i maiali stavano modificando i comandamenti, trasformandoli nel loro contrario. Chi comprende resta in silenzio, in una triste solitudine. La disaffezione al voto è una coerente conseguenza”.
- Il ‘mercato concorrenziale’ avrebbe messo in crisi, secondo Lei, il sistema educativo, in particolare quello scolastico e universitario (quest’ultimo si è oggi trasformato in un percorso a crediti formativi), nonché il mondo del lavoro, ormai destrutturato. Per non parlare, infine, della voragine che si è aperta nella sanità e nel sistema pensionistico. Sono possibili soluzioni?
“La modifica della condizione attuale può passare solo da una presa di coscienza collettiva che ponga con forza l’istanza di un cambiamento di rotta, soprattutto con riferimento alle politiche sociali. Nell’ultimo capitolo affronto questo tema, lasciando aperta una prospettiva di cambiamento, che si deve però necessariamente reggere su una presa di coscienza diffusa, quindi sulla ripresa di un autentico dibattito pubblico e della partecipazione collettiva”.
- Regionalismo, Titolo V e federalismo: il processo di disgregazione dei partiti è iniziato così e culmina nella proposta del ‘premierato’?
“Nel 1993 è stata introdotta l’elezione diretta dei sindaci. Nel 1999 una modifica della Costituzione ha previsto quella dei presidenti di regione, oggi chiamati governatori. Una forma di governo in cui svanisce la divisione dei poteri. Il capo dell’esecutivo eletto sceglie direttamente i membri del governo e controlla in modo pieno il consiglio, che non può sfiduciarlo senza sciogliersi, cioè suicidandosi. Questa forma di governo è stata accolta con grande favore dai media e dagli specialisti, che adesso criticano il premierato, che punta proprio a trasporre la forma di governo di sindaci e presidenti della regione a livello nazionale. Con una sola differenza rispetto a quella regionale. Nel premierato il limite dei due mandati è previsto direttamente dalla proposta di modifica costituzionale. Nel 1999 se lo dimenticarono sia gli autori della modifica costituzionale che gli apologeti, così oggi ci sono governatori che di mandati ne hanno fatti tre e che vogliono farne addirittura un quarto. Per impedirlo è stata chiamata in causa la Corte costituzionale, segno che il diritto positivo vigente in materia è costellato di lacune inammissibili”.
- Lei scrive: “La libertà diventa una mera scelta privatistica dell’individuo isolato di fronte ad un mondo governato come un’impresa”. Persino la cosiddetta libertà di morire avrebbe una connotazione economica. Come si concilierebbe il rispetto dei principi costituzionali con la ‘post-libertà’ e il ‘nichilismo giuridico’ da Lei paventati?
“Il punto è proprio questo. Non si concilia. L’edificio costituzionale ruota attorno alla persona umana. Tutte le libertà, i diritti (ma lo stesso discorso vale per i doveri) sanciti dalla Costituzione, servono per garantire la piena realizzazione dell’autonomia individuale. Le politiche neoliberali hanno corroso il terreno su cui può esercitarsi in modo responsabile e pienamente autodeterminato l’autonomia individuale. Se non ho una rete solidaristica che mi garantisce una vita dignitosa, la libertà si trasforma nel suo contrario, in una sorta di assoggettamento volontario. Se non ho una sanità pubblica efficiente, la stipula di una polizza sanitaria privata diventa una necessità (che naturalmente può essere soddisfatta solo da chi se la può permettere). Lo stesso vale per il diritto alla pensione. Se quella pubblica è insufficiente, sono obbligato a sottoscrivere una pensione privata, avendone la possibilità. Chi non ne ha le possibilità economiche viene leso nella propria dignità. Lo stesso vale per l’aborto o il fine vita. La donna che non ha i mezzi economici per provvedere al figlio, si trova in una condizione di costrizione perché mancano aiuti sociali, così come il malato che non può ricevere un’adeguata assistenza vede il fine vita come soluzione. La corrosione della rete di aiuti sociali sta trasformando questi diritti civili nel loro contrario, come aveva compreso Giorgio Agamben molti anni fa, cioè in una forma di tanatopolitica”.
- ‘Non governo’ o ‘governo dei mercati’: chi è l’’antisovrano’ che comanda l’Europa?
“Antisovrano è una fortunata espressione di Massimo Luciani del 1996. A quel tempo l’antisovrano era l’Europa dei mercati. Oggi sono i “padroni del mondo”, cioè i tre maggiori fondi di investimento, di cui parla Alessandro Volpi nel suo ultimo libro, cui abbiamo già accennato”.
- Al di là di quanto sostenuto da qualcuno, Lei ritiene che “non siamo, insomma, di fronte a nessun cambio di paradigma” e che sarebbe invece auspicabile il ritorno allo ‘Stato moderno (adattato al contesto globale attuale)’: come valuta, tuttavia, la recente uscita di scena del più grande gestore patrimoniale del mondo (BlackRock) dalla Net Zero Asset Managers?
“Perché queste politiche, nonostante il favore dei media mainstream e dei partiti, mostrano una forte difficoltà di attuazione, in quanto richiedono ai cittadini grandi sacrifici economici. Pensi al costo di un’auto elettrica o a quello della coibentazione di un edificio (da realizzare anche in zone in cui il clima è tradizionalmente mite). Per questo sono rifiutate da molti cittadini, anche da quelli che seguono conformisticamente il mainstream, perché si tratta di mettere mano al portafoglio per vantaggi collettivi che non si riescono a percepire. A mio parere si tratta di un vero e proprio fallimento, cavalcato da quei partiti ed esponenti politici che si oppongono al pensiero dominante, come Trump negli USA o le formazioni di destra in Europa, che stanno crescendo nel consenso popolare. Anche i fondi se ne stanno rendendo conto”.
- Il ricorso sistematico all’emergenza come forma di controllo (il ‘neoliberalismo autoritario’) esercitato durante la pandemia caratterizzerà la società del futuro?
“Questo è il grande problema dell’oggi, prima ancora che del futuro. Le nuove politiche, da quelle sanitarie a quelle green fino a quelle belliche, richiedono rilevanti sacrifici da parte dei cittadini, che stanno vedendo rapidamente peggiorare la loro condizione. Si pensi solo all’aumento dei prezzi dell’energia, causato dall’instabilità della situazione geopolitica ed enormemente amplificato dai meccanismi di mercato per la formazione del prezzo, imposto dalle direttive di liberalizzazione, che hanno eliminato ogni potere del governo in materia. Si pensi all’aumento delle spese militari, che fanno schizzare alle stelle le quotazioni delle azioni che producono armi e sottraggono soldi ai già ridotti interventi di tipo sociale. In un tale contesto, la spinta gentile non basta più. Si rende necessario il ricorso all’emergenza e agli obblighi. Al tempo del dirigismo privato, questa miscela (politiche di transizione digitale ed energetica ed emergenzialismo) si trasforma facilmente in pratiche che rimandano al totalitarismo a fin di bene, come sostenuto dal matematico Stefano Isola”.
- “Prima l’uomo e poi l’economia” scrive. Sì, ma come?
“L’idea che sorregge l’ultima parte del libro è che, per sperare in un cambiamento, sia assolutamente necessario superare la mercificazione dilagante, che corrode ogni possibilità di modifica dello stato di cose presenti: assolutizza la dimensione privata, portando il pubblico a comportarsi come l’impresa, frantuma la società in tanti individui fra di loro isolati, instaura una competizione generalizzata ad ogni livello, spinge le persone a trovare riparo nel conformismo, e a rinchiudersi nella sola dimensione privata che però, paradossalmente, attraverso l’uso dei social, finisce per diventare ‘pubblica’.
Il risultato è un mondo in cui il conflitto sociale appare neutralizzato. Ciò è tanto più paradossale quanto più ampie diventano le diseguaglianze e le ingiustizie sociali.
Come cerco di argomentare nel libro, tuttavia, nel nuovo contesto del dirigismo privato, proprio la gravosità dei sacrifici imposti ai cittadini dagli attori del mercato, per il tramite dello Stato, pare stia facendo riemergere il conflitto sociale.
Non solo aumenta la contrarietà alle politiche di transizione (digitale e verde), ma cresce la paura per scenari distopici di superamento dell’umano, cui pare ci stia conducendo la potenza illimitata della tecnica, attraverso la pervasività dell’intelligenza artificiale e l’ibridazione uomo-macchina.
Così come inizia a scricchiolare la delirante cultura woke, che si palesa come il tentativo di sovvertire la realtà con una narrazione ideologicamente orientata per preparare il terreno alle nuove politiche (un caso eclatante è stato quello dell’uomo incinto, a cui un famoso settimanale dedicò una copertina).
Sembra che la cultura woke stia attraversando un momento di crisi, ma è ancora dominante. Ne è prova che una banale affermazione di Trump (cioè che esistono solo due sessi) sia stata vista addirittura come una “dichiarazione ideologica” dai media mainstream.
Il dato confortante che emerge in questo quadro è la difficoltà di sovvertire la realtà con la narrazione. Un’operazione che può funzionare con le classi mediamente istruite, che trovano riparo nel conformismo, per le quali è costruita la propaganda, come sostenuto da Jaques Ellul, ma non con l’intera popolazione.
Riemersione del conflitto sociale e crisi del wokismo potrebbero rappresentare un terreno fertile affinché i partiti ricomincino a interpretare i bisogni delle persone in carne ed ossa, le finalità sociali e gli interessi collettivi, invertendo il dominio dell’economia e il processo di corrosione della democrazia e degli stessi principi liberal-democratici descritto nel libro. Questa la via per riaffermare la priorità dell’umano”.
Di Francesco Servadio, buongiornosuedtirol.it
26.01.2025