Film che avrei voluto non finissero mai

di Roberta Cospito

Ci sono film che avrei voluto non finissero mai, almeno tre.

In un ordine non sentimentale perché non sarei in grado di esprimere una preferenza, ma in ordine cronologico, si tratta di Caro Diario (1993) di Nanni Moretti. e nello specifico il primo episodio intitolato In Vespa, poi È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino (2021) e infine Perfect days di Wim Wenders (2023).

Nanni Moretti, all’epoca uno splendido quarantenne, in sella alla sua amata Vespa 125 blu ci porta in giro per una Roma semideserta in una giornata d’estate e, attraversando i quartieri romani – dalla Garbatella a Spinaceto, concludendo a Ostia, nei pressi del luogo in cui fu ucciso Pier Paolo Pasolini –, ci offre una serie di riflessioni che hanno il tono delle confidenze di un vecchio amico.

Questo episodio è conosciuto anche per il sorprendente cameo dell’attrice Jennifer Beals – nota principalmente per il ruolo di Alexandra “Alex” Owens nel film Flashdance, di cui Moretti tesse le lodi – mentre passeggia lungo le mura di Via di Porta Ardeatina; ricordo con affetto il film anche per un’altra sorprendente quanto divertente apparizione, quella del regista Carlo Mazzacurati che viene rappresentato nei panni di un critico cinematografico in preda a feroci rimorsi per aver scritto recensioni incomprensibili per alcuni film destinati a un pubblico “elitario” e altre lusinghiere per film che, in realtà, risulteranno lungometraggi di basso livello.

L’atmosfera che crea il regista col suo girovagare in sella alla Vespa, dichiarando ai pochi romani che incontra di essere impegnato in sopralluoghi per un suo futuro film, è di una quieta serenità e ci (di)mostra che avere tempo a disposizione serve anche per portare a spasso non solo il corpo, ma pure la mente potendo, così, meglio ragionare sui più disparati argomenti: quello che eravamo e quello che siamo diventati; i luoghi comuni nascosti nel linguaggio quotidiano; le scelte di vita fatte anche perché dettate dalla moda; l’inevitabile conclusione di trovarsi in accordo sempre e comunque, per pensiero e opere, con una minoranza di persone; la confortante bellezza della musica e della danza; la deriva del pensiero politico di alcuni esponenti della sinistra.

Paolo Sorrentino, all’epoca uno splendido cinquantenne, invece, mi ha incantato con le immagini della Napoli della sua gioventù, in cui un ragazzo – Fabietto, un probabile suo alter ego – cerca di confrontarsi con il vuoto lasciato dalla morte dei genitori e con la triste circostanza di non essere riuscito a vederne i corpi, cosa che rende ancora più difficile e doloroso il dire addio a chi ti ha messo al mondo.

Anche in questo film c’è, seppure solo nei minuti iniziali, una Vespa blu su cui – senza casco e oltre la portata di legge –, in un breve giro per Napoli, Fabietto si sposta con entrambi i genitori, ignari del poco tempo che avranno ancora a disposizione per stare insieme; l’immagine è di assoluta spensieratezza e gioia.

L’imperativo “non ti disunire” – l’essere coerenti con se stessi, immagino – che il regista Antonio Capuano (interpretato da Ciro Capano) urla più volte al protagonista, il dovere di raccontare qualcosa quando si mette in scena un film ma in generale quando ci si rivolge a qualcuno richiedendone l’attenzione, l’idea che ci si può ribellare a una realtà scadente creando qualcosa di bello e alternativo e il conservare memoria dei propri progetti anche se non andati in porto, mi sembrano interessanti spunti di riflessione cui porta la visione di questo film.

Ritengo molto suggestivo il titolo È stata la mano di Dio il cui riferimento calcistico colloca il racconto in un preciso momento della storia di Napoli e della vita di Fabietto; nel calcio indica la rete segnata di mano da Diego Armando Maradona nei quarti di finale del Mondiale del 1986, investendo il giocatore di un’aura di divinità che verrà accresciuta dal fatto che la presenza del “Pibe de oro” nella squadra partenopea, salverà la vita al “giovane Sorrentino” che deciderà di rimanere a casa a guardare la partita invece che condividere la sorte dei genitori che moriranno in un grave incidente domestico, nella loro casa di montagna. Questo film è una lettera d’amore del regista non solo ai suoi genitori, ma anche a Napoli e a Maradona.

E poi Perfect Days in cui Wim Wenders, uno splendido ottantenne, racconta la storia di Hirayama, un uomo tranquillo che, nella Tokio contemporanea, si guadagna da vivere pulendo i bagni pubblici e trascorre il suo tempo libero scattando fotografie agli alberi (con una macchina analogica), ascoltando musicassette e leggendo libri.

Questo film, con una colonna sonora indimenticabile – oltre al motivo di Lou Reed che dà il titolo al film, s’ascoltano brani di Patti Smith, The Animals e tanti altri –, mi ha ricordato come anche il lavoro più umile può essere svolto con grande dignità; come possa dare pace l’accettarsi per come si è; come sia gratificante il muoversi nella nostra quotidianità con gentilezza, amore e rispetto; come sia possibile prendere le distanze dal nostro passato senza provare rancore nei confronti di chi ci ha ferito o come sia più facile concentrarsi sugli altri quando si sono eliminate dalla propria vita le cose (e le persone) superflue. Insomma, Wim Wenders pare dirmi che un altro mondo (in questo mondo) è possibile o per lo meno un altro modo di vivere, e che godere appieno di quello che ci può regalare ogni singola giornata è alla nostra portata.

Non so identificare con certezza il motivo per cui avrei voluto che questi film non finissero mai, ma la sensazione è proprio stata questa, il desiderio che continuassero ancora: forse perché sono film lenti e sinceri che sono riusciti a farmi riflettere sul senso della vita e su quanto vissuto sinora.

O per aver raccontato per immagini città con una particolare loro storia e “grande bellezza”: Roma, Napoli e Tokio.

O forse perché sono storie di personaggi che, nonostante la loro semplicità, riescono a raccontare grandi storie. Ritengo ognuno di noi abbia questa possibilità: vivere semplicemente così d’avere grandi storie da raccontare.

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