Non solo ferire. Le parole che fanno bene

di Marco Sommariva

Ultimamente ho incassato un po’ di delusioni da diverse persone sulle quali contavo in modo particolare: tutta gente che frequento da almeno quarant’anni, si sappia. È stata la loro intelligenza a deludermi, le loro esternazioni a sorprendermi negativamente. E a parole che fanno male, ho pensato di porre rimedio con parole che fanno bene: è una vita che mi curo coi libri. Sono entrato in sala dove tengo esposti gli oltre cinquecento libri letti di cui ho preferito non liberarmi e, col magone, ho cercato lo spazio dedicato ai titoli di George Orwell: in qualche angolo del mio cervello c’era la certezza che un libro dello scrittore inglese potesse aiutarmi. Guardo La fattoria degli animali, ma il cervello non reagisce. Una boccata d’aria? Senza un soldo a Parigi e a Londra? Niente. Forse Omaggio alla Catalogna oppure 1984? Neppure. Nel ventre della balena? Zero assoluto. Possibile che quell’angolo del mio cervello abbia preso un tale abbaglio? Data l’età sì. E invece no che non l’ha preso! Eccolo lì il ricercato, stranamente fuori posto: La strada di Wigan Pier. Mi affretto a cercare in terza di copertina tutte le note che richiamano ogni mia sottolineatura di quando l’ho letto nell’aprile del 2005 – non è buona memoria: ho trovato la data in calce alle note –, e inizio a sfogliare il libro cercando le frasi sottolineate, l’urgente medicamento.

“La cosa più terribile in [certa] gente […] è il modo con cui ripetono all’infinito sempre le stesse cose.” In effetti, ai personaggi che mi hanno ferito ho troppo spesso scusato il loro frequente ripetersi, mi spiaceva farglielo notare, ma il sopportare questa loro terribile caratteristica non mi ha giovato: quando il problema su cui avrei voluto confrontarmi era di una portata spaventosa, mi è stata detta la stessa banalità che avevo già sentito per il figlio del fruttivendolo sotto casa, che non ha mai mostrato troppa voglia di lavorare.

Qualche pagina più avanti, con l’evidente intento d’infondermi coraggio, Orwell mi dice: “Per quanto abbia tentato, l’uomo non è ancora riuscito a spargere la sua sporcizia dappertutto. La terra è così vasta e ancora così vuota che perfino nel sudicio cuore della civiltà trovi campi dove l’erba è verde anzi che grigia; forse, a cercarli, si potrebbero perfino trovare fiumi e torrenti con dentro pesci vivi anzi che scatole di salmone.”

Questa faccenda di non aver mai fatto notare ai miei interlocutori che si ripetevano, che le loro frasi sfilate dalla faretra della banalità non servivano a nulla, che erano comode solo ai piccoloborghesi per infilzare qualsiasi discorso, ferirlo, se non ucciderlo, potrebbe aver spiegazione nelle mie radici operaie: lo erano i miei nonni, lo era mio padre, lo son stato io per almeno una dozzina d’anni: “Questa faccenda […] di dover fare ogni cosa secondo il comodo altrui è implicita nella vita della classe operaia. Mille influenze costringono di continuo l’operaio in una parte passiva. Egli non agisce, ma subisce l’azione altrui. Si sente schiavo di una misteriosa autorità ed è fermamente convinto che “quelli” non gli permetteranno mai di fare questo, quello, o quell’altro.”

Mi domando se anch’io faccio parte di “quella gente [che] ha cessato di scalciare sotto le frustate.” Fa bene Orwell a farmelo notare.

Che poi, ripensandoci bene, una delle persone che mi ha deluso è un dirigente abituato a sviscerare complessità enormi che spesso “l’uomo comune” ha difficoltà persino a immaginare, a sbrogliare matasse relazionali sviscerando ogni minimo dettaglio; sia chiaro, non per il gusto del vivere pacifico, ma perché ogni risorsa coinvolta in qualsivoglia bega possa rendere al massimo in quella famosissima ditta per cui lavora. Ma anche qui sbagliavo: “…lo sviluppo postbellico di generi voluttuari a buon mercato è stato una fortuna per i nostri governanti. È molto verosimile che pesce e patatine fritte, calze di seta, salmone in scatola, cioccolata a prezzi modici […] il cinematografo, la radio, il tè forte e i Football Pools abbiano fra tutti evitato la rivoluzione. Così che ci sentiamo dire ogni tanto che tutta la faccenda è un’astuta manovra della classe dirigente – una specie di “pane e circensi” – per tenere a bada i disoccupati. Ciò che ho visto della nostra classe dirigente non mi convince che abbia molta intelligenza. La cosa è avvenuta, ma attraverso un processo inconscio: l’interazione affatto naturale tra la necessità da parte dell’industriale di un mercato e il bisogno, da parte di gente semiaffamata, di palliativi a basso costo.”

Ciò che ho visto della nostra classe dirigente non mi convince che abbia molta intelligenza, e io l’avevo vista la poca elasticità di questa stirpe, ma avevo dimenticato, o meglio, ritenevo che qualcuno si potesse salvare da questo egocentrismo che riesce a convincerli d’essere in grado di chiudere a loro favore ogni querelle, disputa, perché alla fine di questo si trattava: io esprimevo un pensiero rispettando il suo, lui esprimeva il suo ritenendo il mio quello di un idiota. Era un pensiero per nulla profondo, il mio, lo ammetto; mi ero limitato a dire che invidiavo agli stranieri la loro capacità di aprire un’attività in Italia mentre io, che non ho il problema della lingua, non saprei neppure da che parte iniziare, tutto qui. Bene, dall’altra parte mi sentivo ripetere che sbagliavo. In cosa? Sbagliavo a invidiarli, STOP!, senza alcuna spiegazione del perché ero nell’errore. Detto che la mia era invidia “buona” e che al mio contraltare nulla importava dei sette peccati capitali che lo impregnano da una vita per minimo quattro settimi del totale, mi chiedevo – visto lo stato in cui ero: dignitosamente disperato – non mi fai neppure un piccolo sconto? Perché mi aspettavo uno sconto? Perché nelle case dove sono cresciuto s’è sempre respirato un’atmosfera profondamente umana: “In una casa della classe operaia – non penso per il momento a case di operai disoccupati, ma ad altre relativamente prospere – si respira un’atmosfera calda, onesta, profondamente umana, che non è molto facile trovare altrove.”

Case dove ho imparato molto, dove s’impara molto: “…so che si può imparare molto in una casa operaia, sol che vi si possa andare a vivere. Il punto essenziale è che i vostri ideali e pregiudizi borghesi sono messi alla prova dal contatto con altri ideali e pregiudizi che non sono necessariamente migliori, ma sono certo diversi.”

Case in cui non si va tanto per il sottile, dove si dice pane al pane e vino al vino, dove regna la schiettezza: “Un’altra caratteristica operaia, sconcertante in un primo momento, è la schiettezza nei riguardi di chiunque l’operaio ritenga suo pari. Se offrite a un operaio qualcosa che egli non vuole, vi dirà che non la vuole; una persona del ceto medio l’accetterà evitando così di offendervi.” Forse sarà stata la mia schiettezza a infastidire, chissà.

Di certo qualcuno era infastidito: io. E lo ero per via della pena capitale che avrebbe volentieri inflitto chi stava dall’altra parte del telefono, al ragazzo su cui si stava disquisendo, un giovane che, in fondo, aveva soltanto ripetuto più volte d’avere in testa un unico progetto di vita pressoché impossibile da realizzare, denunciando così tutto il proprio grande disagio e che questo – il Grande Disagio – andava analizzato, null’altro: “La maggioranza della gente approva la punizione capitale, ma quella stessa maggioranza non vorrebbe fare il lavoro del boia. E ancora… Non ho mai messo piede in una prigione senza sentire […] che il mio posto era dall’altra parte delle sbarre. […] il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca.” Ma quanti passaggi interessanti ci sono in questo libro?!

Le delusioni a cui sto facendo riferimento, le ho incassate sia parlando al telefono sia vis à vis e anche nei silenzi che dialogando faccia a faccia, spesso, dicono più di tante parole: “…sfortunatamente non mi ero allenato ad essere indifferente all’espressione della faccia umana.”

Nonostante tutto, a parte l’impatto iniziale di questi scontri imprevisti, ne sono uscito certamente più forte: “È solo quando s’incontra qualcuno di cultura ed educazione differenti dalle nostre che si comincia a scoprire quali siano realmente le nostre opinioni.”

Eppure, me lo ricordo bene quel dirigente quand’era ragazzo, verso la fine degli anni Settanta, quando girava con in testa la cresta colorata dei punk dell’epoca: “…si può osservare […] il triste fenomeno del borghese che è un ardente socialista a venticinque anni e un conservatore tutto sussiego a trentacinque.”

Se non vi ho ancora annoiato, termino con l’ultima grande delusione: una persona che raccoglie per anni le mie confidenze e un giorno scopro non aver tenuto per sé nulla, ogni mia personalissima parola l’aveva data in pasto ad altri. Motivo? “Perché così potrai riappacificarti con un po’ di persone.” Ma uno potrà ancora avere almeno la libertà di decidere da sé quando, come e con chi riappacificarsi? Purtroppo, pare non essere così, c’è sempre qualcuno che si erge genitore benché tu abbia ormai tutti i capelli grigi, e ti indichi la retta via. Questa persona credente cattolica, fottendosene ampiamente del segreto previsto dal sacramento della (mia) confessione, mi ha gettato al vento un mondo intero, perlomeno una dimensione di questo: “Come avviene per la religione cristiana, la peggior pubblicità al socialismo è rappresentata dai suoi fautori”, sempre il buon George.

Niente. Non mi resta altro da fare che ammettere tutta la mia imbecillità: a cosa serve leggere, rileggere, sottolineare Orwell se poi penso ad altro e abbasso la guardia? Appena l’ho abbassata, subito mi hanno fiocinato come un polpo, anzi, di più, mi hanno battuto come un polpo, legato, incaprettato e trascinato per lo scalpo. Consegnata ai posteri la mia ammissione d’imbecillità, mi viene in mente che una cosa ha accomunato tutte queste delusioni: gl’interlocutori m’interrompevano continuamente. Mi si voleva silenziare, in pratica. Insomma, era stato messo in opera un genocidio nei miei confronti: “…c’è una differenza sostanziale fra genocidio e tortura. Il genocidio cerca di mettere a tacere, mentre la tortura è l’antidoto contro il silenzio.” Questo non è più Orwell, è John Biguenet e il suo libro s’intitola Elogio del silenzio, un saggio da non perdere: “…un mondo in cui il destino, anzi Dio stesso si son fatti famosi anzitutto perché ci fronteggiano col silenzio.”

È in questo libro che ho realizzato una conclusione tanto scontata quanto sfuggente: chi t’interrompe manifesta la sua superiorità: “…mentre cercavo di perfezionarmi nel mestiere di professore, lessi un articolo sulla tendenza degli insegnanti, sia uomini che donne, a interrompere le studentesse – ma non gli studenti – mentre rispondono alle domande. […] Viviamo in un mondo in cui le donne vengono spesso messe a tacere, a volte anche in modo violento. Ma l’umiliante affronto di zittire le donne con nonchalance è un’esperienza talmente radicata nella nostra quotidianità che questo piccolo esempio di imposizione del silenzio su un altro essere umano – la brusca interruzione […] dell’insegnante – in realtà può aiutare, anche meglio di casi più eclatanti, a chiarire quale ruolo abbia il silenzio nel mantenimento dell’attuale distribuzione del potere nella società.”

Il tentativo di zittirmi va avanti ormai da una vita. Mi contestano i credenti perché non credo e mi contestano i non credenti perché non sto neppure dalla loro parte, e allora mi consolo con Non ho risposte semplici, un volume che raccoglie una ventina tra interviste e conversazioni con Stanley Kubrick, che delineano il suo genio: “Nella galassia ci sono cento miliardi di stelle e nell’universo visibile ci sono cento miliardi di galassie. Ogni stella è un sole, come il nostro, probabilmente con pianeti che lo circondano. […] Pensi al tipo di vita che potrebbe essersi evoluta su quei pianeti nel corso di millenni, e pensi anche a quali passi da gigante ha fatto la tecnologia dell’uomo sulla terra nei seimila anni in cui è documentata la sua civiltà, un periodo che è più piccolo di un granello di sabbia nella clessidra cosmica. […] Quelle intelligenze cosmiche […] potrebbero essere in comunicazione telepatica simultanea attraverso tutto l’universo; potrebbero aver ottenuto la padronanza completa sulla materia, e quindi potrebbero essere in grado di trasportarsi telecineticamente in modo istantaneo a miliardi di anni luce di distanza; nella loro forma definitiva, potrebbero essersi liberati completamente del guscio del corpo ed esistere in quanto coscienze incorporee e immortali in tutto l’universo. […] tutti gli attributi essenziali di quelle intelligenze extraterrestri sono gli attributi che noi conferiamo a Dio. E se quegli esseri di pura intelligenza dovessero mai intervenire negli affari dell’uomo, i loro poteri sarebbero talmente lontani dalla nostra possibilità di capirli che potremmo giustificarli solo in termini divini o magici.”

Mi contesta chi vota perché non voto e mi contesta chi non vota perché non scrivo ciò che lo aggrada: “Un aspetto doloroso della crescita intellettuale e artistica è che implica soprattutto il superamento degli altri: man mano, ci sono sempre meno persone con cui condividere le proprie idee, persone che capiscono, senza semplificare troppo, quello che uno sta cercando di comunicare.” Ancora Stanley Kubrick in Non ho risposte semplici.

Visto che non mi è nuovo questo potere che interrompe, silenzia, irrompe e violenta, da molto tempo mi auto silenzio verso coloro che tanto tengono alla mia bocca chiusa, così da restituire loro un po’ di dolore. E pare che Biguenet abbia nuovamente qualcosa da dire al riguardo: “L’impiego del silenzio […] spesso attraverso il semplice rifiuto di rivolgersi al soggetto, viene largamente utilizzato sia dai governi sia dai singoli individui. Per esempio, il rifiuto dei terroristi di proclamare la propria responsabilità dopo un bombardamento o dopo altre forme di omicidio di massa cerca di amplificare la paura causata dal violento attacco attraverso un silenzio implacabile. Così facendo, si prolunga la paura almeno finché il mistero sui responsabili rimane irrisolto.”

Non mi spiace affatto l’idea che alle tante delusioni causatemi da ‘sti signori corrisponda loro un po’ di paura, fosse solo che per rivolgermi la parola; certo è che dall’altra parte della barricata sono sempre più numerosi i nemici, ma non mi scoraggio perché se erano numerosi i consigli de La strada di Wigan Pier che avevo dimenticato, un passaggio di un altro romanzo di Orwell – 1984 – lo ricordo bene: “l’essere in minoranza, anche l’esser rimasto addirittura solo, non vuol dire affatto esser pazzo.” Ma anche, come diceva Camillo Berneri, “Non ci posso niente, in questo mio trovarmi d’accordo con quasi nessuno.” La solitudine è scomoda? La posizione scomoda è da sempre una garanzia di sapere come stanno veramente le cose. Sapere come stanno veramente le cose non fa star tranquilli? Bene. Come diceva Errico Malatesta, “Non ho bisogno di stare tranquillo.”

Permettetemi un consiglio: agitatevi. Anzi, istruitevi agitatevi organizzatevi.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento