Quale spazio oggi per il fascismo?

di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen; Fasciocapitalismo; Edizioni Malamente; Urbino 2024; 119 pp. 12€

Se il fascismo esista ancora oppure no è un leitmotiv dei dibattiti accademici e mediatici più ricorrenti. Una discussione annosa che ha finito per non aver capo né coda, preda degli sciacallaggi di commentatori bipartisan.
Eppure rimane un tema di importanza cruciale per almeno due motivi: da un lato c’è la crescita esponenziale di formazioni che più o meno apertamente si richiamano al discorso fascista, ormai non di rado giunte in posizione di governo; dall’altro abbiamo l’emersione, potente e periodica, di sentimenti antifascisti che si riattivano alle provocazioni più reazionarie.

Il fascismo è, in sostanza, qualcosa che al tramonto del liberalismo riesce a smuovere le acque stagnanti delle (post?)democrazie occidentali. Un moto perpetuo che però agita la superficie senza davvero andare a fondo, a incidere sul flusso degli eventi. È il segno più evidente di un ginepraio di guerre culturali che si sono fatte senso della politica in un frangente in cui la Politica (con la “P” maiuscola) è andata a farsi fottere.

Non è un caso se tra formazioni e personaggi che a primo acchito finiscono sotto l’etichetta di fascisti possiamo trovare delle costanti (xenofobia, misoginia, conservatorismo retrivo e retorica paranoide tra tutti) ma non riusciamo mai darne una definizione coerente e lineare. Anzi, stessi segmenti di discorso li troviamo non di rado in contrapposizione (che in realtà è competizione per il consenso elettorale) e allora emerge l’intramontabile e ormai altrettanto fumoso termine di rossobruno.
Ancor di più è un campo troppo vago quello dell’antifascismo come categoria politica in grado di produrre saldature sociali: è un tema in grado smuovere l’opinione pubblica e di far convergere istanze radicali e giochi di potere liberali, ma con il ricorrente risultato di dare repressione alle prime e ossigeno per restare a galla un giorno in più ai secondi.

Questo perché nel gioco della democrazia liberale l’antifascismo da pratica si è fatto valore morale rientrando negli strumenti discorsivi di una metà della classe dirigente e, in quanto tale, è diventato bersaglio delle crociate culturali della nuova destra impegnata nello smantellamento feroce di ogni tabù che le si ponga come argine. Nel paradossale discorso destrorso l’antifascismo non è una difesa delle libertà e di una parvenza d’egualitarismo, ma un’ipoteca sul diritto d’espressione, il diritto di dire qualsiasi bestialità, di renderla apprezzabile e farne programma politico.
E d’altro canto è proprio una certa spocchia elitaria dei liberali ad aver alimentato una disaffezione non solo dall’antifascismo, ma da un immaginario progressista tout court. Abbandonando ogni velleità di cambiamento per farsi araldi dello status quo, hanno inseguito elettoralmente i competitor di destra sul piano delle politiche con l’illusione di poter mantenere una qualche forma di egemonia culturale slegata da qualsiasi legame sociale. Questa conversione della sinistra in sacerdotessa del liberalismo, incapace di imporre alcuna direzione alternativa, è la prima responsabile della piega involutiva d’Occidente.

Rasmussen ha ragione nel dire che non è possibile interpretare il fascismo se non nella sua osmosi alla democrazia del tardocapitalismo, che l’idea di fascismo come sinonimo di ignoranza è demenziale oltre che classista, che è difficile negare i fili neri della storia quando si parla serenamente in TV di deportazioni e si rendono off-limits pezzi di città a determinate categorie sociali. Né si può negare la continuità tra una dimensione sotterranea dell’estrema destra più militante come laboratorio di pensiero e le agende della destra di governo, sempre più difficile da definire moderata.

Sbaglia però nel pensare che ad esso si possa o debba contrapporre un efficace antifascismo, replicando così lo schema delle guerre culturali da cui vorrebbe smarcarsi.
Se giustamente il fascismo non è una variabile ma un frammento congenito della forma politica del presente allora è l’equazione che bisogna invertire: è questa democrazia formale e vuota di senso, scudo dei peggiori squali, ad essere il problema reale.
L’unica dimensione realmente democratica che l’Occidente abbia mai avuto è stata quella del conflitto tra classi avverse rispettivamente organizzate per farsi valere sulla scena.
L’equilibrio di compromesso che fugava lo spettro delle guerre civili e che abbiamo chiamato stato sociale, fondato sulla costante dialettica del rapporto di forza (e a volerla dir tutta sull’ombra sovietica), poteva essere definito Democrazia; la classe media ipertrofica con il suo accesso al consumo ne è stato il risultato, il segno distintivo e infine l’illusione tradita.

Aime Cesaire, in un brevissimo passaggio del suo “Discorso sul colonialismo”, offre un’intuizione illuminante: l’Occidente non ha condannato il fascismo per il suo orrore intrinseco (anzi, a ben vedere ai suoi esordi esso riscuoteva un discreto successo nelle cancellerie europee) ma per il suo aver portato tra la Civiltà dei bianchi ciò che era riservato alle colonie.
Il mondo del capitale, iniziato con l’esproprio e l’assoggettamento delle popolazioni europee ha fatto il suo salto di qualità andando a violentare e conquistare il resto del globo, a aprire le meraviglie del mercato grazie a corpi neri incatenati, corpi gialli piagati, corpi bianchi indesiderati spediti a forza a migliaia di chilometri da casa per dissodare terreni e crepare nella preparazione di nuovi territori. Per finire ha riportato nel suo ventre le lezioni apprese in giro per il mondo, come strumenti di contenimento e ristrutturazione.
E lì son rimaste anche dopo la loro fine storica e formale, come tutti gli altri elementi di cui il capitalismo si è nutrito e che ha integrato nella sua marcia trionfale.

Tutto il razzismo e la violenza del fascismo storico si sono abbeverati a un secolare fiume di sangue, passando per la truce esperienza della Guerra delle trincee. Quello tra le due guerre è stato un tentativo politico fondato sul primato della Nazione e sulla mobilitazione di identità durissime quali quelle del reducismo. La restaurazione di un ordine mitico fu il contraltare della costruzione di nuove forme di statualità in competizione con l’assalto al cielo del socialismo bolscevico.
Tutto questo manca oggi al cosiddetto fasciocapitalismo, la cui unica promessa è la resurrezione posticcia dell’illusione borghese di un tranquillo e ordinato mondo capitalistico-patriarcale.
Non c’è alcuna mitologia, alcuna patria, non c’è nemmeno una massa da mobilitare: abbiamo leader politici che berciano come televenditori, che vendono paure invece che tappeti e si rivolgono a pubblici di follower il cui livore si consuma nella sezione commenti di una diretta e solo occasionalmente investe le piazze.

La stessa osmosi tra le formazioni estreme e quelle di governo si consuma sul piano di una guerra culturale: l’ideologia del decoro, il razzismo di stato, l’attacco all’aborto e alle politiche d’inclusione non sono che tentativi di pasticciare il volto della realtà a propria immagine, nascondendo l’incapacità politica, nonchè l’impossibilità strategica, di mettere in piedi un autentico progetto forte di Stato nazionalista.
Semplicemente, il sogno tardofascista non è possibile, perché (con forse la sola eccezione degli USA di Trump) non c’è uno Stato che sia in grado di esercitare una reale sovranità fuori da vincoli economici sovranazionali e macroattori privati, né c’è una massa disposta al sacrificio della disciplina patriottica; la classe media vuole consumare in santa pace e fanculo il resto.
Lo stesso contrasto dell’immigrazione, oggi alimentato da scene ignobili di deportazione e catene non fa che rivelarsi una squallida truffa: rendere sadicamente impossibile la vita agli ultimi della scala sociale rende indispensabile poi prepararsi a dover mandare i propri stessi elettori a lavorare i campi per paghe da fame.

Il programma del fascismo tardocapitalista si riduce in sostanza alla gestione, fortemente ideologizzata, di una sacca ridotta del potere statuale.
Ma non vi è traccia in esso della capacità (o della volontà) di determinare un diverso corso delle cose. Non vi è dubbio che sulla scena operino ormai apertamente forze di matrice fascista, e non vi è dubbio che ad esse debba essere contrapposta una pratica di difesa; ma non possiamo assolutizzarne la parabola e interpretare il presente come una forma aggiornata di qualcosa visto già all’opera in altre temperie.
L’integrazione di meccanismi generati dai laboratori fascisti all’interno del funzionamento del Capitalismo (che non è novità dell’ultimo minuto ma percorso pluridecennale) non fa di esso Fascismo. Piuttosto è maggiore la visibilità di questi suoi tratti data l’attuale fase di competizione furiosa per le risorse e il mantenimento dell’egemonia, nell’insorgere di inedite forme di potere legittimate dalla capacità tecnologico-finanziaria piuttosto che dalla volontà popolare, che ci presentano ora il volto nuovo di una realtà nuova e ci impongono la necessità di nomi e parole adatte.
Si, c’è del fascismo tra i dispositivi del tardocapitalismo, ma non sarà l’antifascismo a salvarci. E forse, non è nemmeno questa democrazia che merita di essere salvata.

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