
La Patagonia argentina è un territorio vastissimo e principalmente arido dove l’acqua è una risorsa estremamente preziosa. La maggior parte delle comunità infatti vive lungo i corsi d’acqua. Ai tempi della conquista del deserto (negli anni ’90 del XIX secolo) i Mapuche vennero cacciati dalle loro terre dai colonizzatori che crearono vastissimi latifondi. Furono quindi costretti a migrare dall’altra parte della cordigliera Andina oppure in riserve create ad hoc dal governo argentino. Tutto questo avvenne con molta violenza; vennero perseguitate soprattutto le donne Machi. Queste ultime, considerate streghe, erano le portatrici dei saperi ancestrali e trasmettono ancora oggi di generazione in generazione i saperi attorno alla medicina naturale.
La Machi che ci sta accompagnando è una figura estremamente importante per la comunità Mapuche perché erano molti anni che non ne nasceva una nel territorio Argentino (Puelmapu). Essa ha il compito di risanare e recuperare il Neuen (le forze della natura) che in questi anni sono state sfruttate e soppresse dai Winka (coloro che gli hanno sottratto i territori) e tramite i processi di recupero delle terre ridare forza e valore alla cultura e storia Mapuche.
La difesa del territorio non è solo una scelta, ma una necessità per sopravvivere, dato che se la terra si ammala tutti si ammalano. Il tema della salute è centrale, non ci può essere benessere fisico senza il benessere psicologico e spirituale; per questo sono centrali i momenti di ringraziamento del fiume per creare una connessione con le forze che ne danno vita.
Per il popolo Mapuche infatti tutto è vita, il Nukemapu é la Madre terra e l’Itrofilmogen é tutto ciò che la compone: gli animali, le piante, i sassi, l’acqua fino agli atomi. Tutto è vivo e con tutto questo bisogna mettersi in comunicazione.
Attraverso la medicina naturale (Mapulawen), la forza ci viene trasmessa. Per questo, i saperi ancestrali sulle piante medicinali sono essenziali per guarire dal Cushucuntram, l’infermità spirituale. Lo Stato si è arrogato il diritto di definire chi e cosa sia una comunità e in quale territorio debba vivere, così come si arroga il diritto di diagnosticare le malattie senza considerare il contesto spirituale. Naturalmente, non chiedono lo smantellamento della medicina occidentale, ma il rispetto della propria, dopo aver subito anni di persecuzioni.
Dopo la scadenza delle concessioni delle aziende inglesi e il passaggio ad altre, tra cui Benetton, molte comunità sono tornate alle loro terre e tutt’ora è in corso un processo di recupero sia dei territori che della storia e della cultura Mapuche. Oggi il nemico più grande, come sempre, è il sistema capitalista ed estrattivista che con vari progetti minaccia questo vastissimo territorio e chi ci vive.
Già a inizio carovana, partita da San Carlos de Bariloche, abbiamo potuto osservare un’enorme quantità di boschi di Pinus ponderosa, una specie non autoctona importata dai Benetton, per “riforestare” la zona con un progetto chiamato Verde por Verde. Questo progetto dal nome molto ingannevole è una sorta di metodo per aggirare la carbon tax, ossia attuare delle compensazioni per la quantità di CO2 emessa con le proprie attività.
Il problema è che questa specie di Pinaceae, che cresce e si riproduce molto rapidamente, ha un impatto estremamente negativo sull’ecosistema della zona. Per svilupparsi, infatti, assorbe grandi quantità d’acqua e, soprattutto, acidifica il terreno, contribuendo così alla scomparsa della flora locale, fondamentale per le comunità nella pratica della medicina tradizionale. Inoltre, molti dei boschi che ricoprono l’area da Bariloche fino a El Maitén non vengono curati né mantenuti. L’abbondanza di aghi, pigne e rami crea un sottobosco estremamente infiammabile, motivo per cui, soprattutto nella stagione estiva, gli incendi si propagano a una velocità pericolosa ed è molto difficile spegnerli.
Questi incendi sono per il 90% di natura dolosa, e il governo ha individuato come capro espiatorio proprio le comunità Mapuche. Durante la nostra permanenza a El Bolsón, abbiamo assistito con i nostri occhi a uno dei terribili incendi scoppiati il 30 gennaio, che ha rischiato di raggiungere il centro della città. La ragazza dell’ostello dove alloggiavamo ci ha raccontato che questi incendi hanno una matrice politica: la colpa viene attribuita ai Mapuche, ma in realtà i veri responsabili sono gli scagnozzi di imprenditori interessati a investire nella zona, pronti a ricostruire e speculare su queste tragedie. In questo modo, eliminano la resistenza delle comunità indigene che abitano quei territori e se ne prendono cura quotidianamente. Proprio durante il quinto giorno della carovana, infatti, abbiamo ricevuto la notizia dell’arresto di tre attivisti a El Bolsón, accusati di aver appiccato gli incendi. L’accusa si basava unicamente sul fatto che erano stati ripresi incappucciati, senza alcuna prova concreta (considerando che stavano contribuendo allo spegnimento del fuoco, è ovvio che cercassero di proteggersi dal fumo). Qualche giorno dopo, una manifestazione organizzata da un collettivo transfemminista davanti al commissariato di El Bolsón, in solidarietà con gli arrestati, è stata caricata a cavallo da un gruppo legato a Joe Lewis, imprenditore inglese e proprietario del lago Escondido.
Un altro esempio di come la gentrificazione e il turismo stiano gravando su questi territori lo troviamo a El Maitén, dove erano iniziati i lavori per la costruzione di una pista da sci sul Cerro León. Qui alcuni membri della comunità si sono svegliati al rumore delle motoseghe proveniente dal monte e, accorsi a vedere, hanno trovato gli operai intenti ad abbattere il bosco senza alcuna autorizzazione da parte del municipio. In poco tempo, soprattutto grazie alla comunicazione della radio comunitaria Petu Mogeleiñ, il paese si è mobilitato per bloccare i lavori.
Per quanto riguarda l’acqua, il pericolo di contaminazione inizia già alla sua sorgente nei pressi del Lof Cayunao, dove sono stati importati dei cervi da alcune agenzie degli Emirati arabi per organizzare battute di caccia con gli elicotteri. La sorgente potabile è a rischio biologico a causa di questi animali che spesso son stati trovati morti nei pressi del Rio.
Un’altra grossa minaccia é l’attività mineraria, infatti sono centinaia i progetti di estrazione della Compagnia Mineraria del Sud, su cui sta iniziando a investire anche il marchio Benetton, come ci raccontano le comunità di Santa Rosa e Kurache minacciate dal colosso Veneto.
Non solo Benetton, ma anche altre imprese si stanno appropriando dei terreni vicino al Rio Chubut per la costruzione di allevamenti intensivi nella zona di Fofo Cahuel. Questa comunità è molto preoccupata per la salute del fiume perché già ora alcuni latifondisti ne inquinano le acque pompando l’acqua del fiume alle loro tenute ma con l’arrivo degli allevamenti intensivi aumenterebbe considerevolmente il rischio batteriologico legato agli escrementi oltre che chimico per l’utilizzo di farmaci e ormoni.
Man mano che proseguiamo, ritornano alcune tematiche centrali, come i 123 progetti presentati per l’estrazione di uranio, piombo, argento e rame nel territorio che si estende da Paso del Sapo fino a Rawson. L’estrazione di questi minerali richiede enormi quantità d’acqua, che viene inevitabilmente contaminata. Come soluzione, il governatore della provincia del Chubut ha stipulato un accordo con la multinazionale israeliana Mekorot per la gestione privata delle risorse idriche. Questo, naturalmente, preoccupa profondamente le comunità locali, ben consapevoli di come questa società abbia operato in Cisgiordania, privatizzando l’acqua e negandone l’accesso ai palestinesi.
Di fronte a tutto questo, la sensazione è quella di trovarsi davanti a un mostro gigantesco e potentissimo, un’“idra capitalista” – come spesso dicono gli zapatisti – capace di estrarre valore da ogni forma di vita, umana e non umana. Ci si sente impotenti e impauriti, con il desiderio di isolarsi e pensare solo alla propria sopravvivenza. Ma è proprio questo che il mostro vuole.
Ed è qui che entra in gioco la visione del mondo di questo popolo in ribellione: la speranza si costruisce creando alleanze, anche con il non umano; abbattendo confini, mentali e materiali; riconoscendo che la forza della natura esiste e non conosce barriere. Per poterla avere dalla nostra parte, dobbiamo rispettarla e connetterci con essa. Un cammino lungo, collettivo e spirituale, una connessione che di certo non si può instaurare con il WiFi!