Memoria e memoriali

di Agostino Petrillo

Una bella poesia di Dylan Thomas, scritta dopo il funerale di una parente a lui cara, recita: “dopo le esequie/lodi mulesche/ ragli/ io sto con la morta/ l’ingobbita Anna”. Così mi sono sentito dopo l’inaugurazione del memoriale alle vittime del ponte Morandi. Un sentimento di insoddisfazione, di distanza, di non appartenenza. Alla celebrazione della “tragedia” presenti le autorità, i parenti delle vittime, che hanno fortemente voluto il memoriale, e che, nonostante il calvario sopportato, attraverso la figura di Egle Possetti sono ancora riusciti a dire qualcosa di incisivo, a rievocare il dolore e lo smarrimento, poi per il resto per lo più parole di rito, retoriche consumate.

All’interno dell’edificio tornano ossessivamente le immagini del crollo, che, come scrivemmo con Emanuele Piccardo in un testo uscito a caldo degli avvenimenti per Manifestolibri (Genova: il crollo della modernità), non è solo quello del ponte, ma il crollo di una epoca della città, la fine di una modernità industriale mai del tutto digerita, e prolungata oltre ogni buon senso. Il boato evocativo che viene fatto echeggiare nel memoriale lo intendo però a modo mio: come un invito a scuotersi, a svegliarsi, a non considerare la vicenda chiusa. Per chi come me non ha mai creduto alla “tragedia” del ponte, e non ha mai voluto usare questo termine, preferendo quello di “crimine”, il memoriale rimane un monumento incompiuto, e non solo perché non sia stato portato ancora a termine il progetto, pure ben concepito dal collega del Politecnico Stefano Boeri, ma perché mancano i nomi dei responsabili. Che cosa è realmente avvenuto? Chi fu l’uccisore? Perché sono morti? Molto giustamente lo stesso architetto Boeri, persona di levatura e intelligenza, parla, in una intervista rilasciata al Secolo XIX subito dopo l’inaugurazione, di una Italia “amnesica”, incapace di memoria e di fare i conti col passato, e tira in ballo Piazza Fontana. Nel caso genovese forse il garbuglio è meno difficile da sciogliere da quanto non sia stato quello di quell’ormai remoto attentato fascista, ma sono ormai passati quasi sette anni, e ancora si attende un giudizio, si attende di sapere, di capire. Nella pesante uniformità con cui i media hanno presentato l’evento, rimane dunque un irrisolto, una presenza spettrale. Se pare giusto aprire al futuro la memoria, come ha sottolineato a nome dei parenti delle vittime la Possetti, lottando contro l’oblio, occorre però anche chiudere i conti con il passato. Non si fanno memoriali a un passato irrisolto.

I “luoghi della memoria” vanno intesi nel senso pieno, nel loro aspetto materiale e concreto, e non rappresentano solo un monumento ai morti, topograficamente situato, ma una sorta di archivio non scritto della memoria collettiva, anche quando, come in questo caso, sono costruiti in maniera intellettuale e un po’ astratta. Ma la memoria collettiva che si vorrebbe qui cristallizzata è una memoria monca, parziale, è un ibridazione tra storia e memoria raggelata, e non critica. Si può ben comprendere in questo caso come memoria e storia non siano affatto sinonimi, ma anzi spesso si trovino in opposizione, dato che la memoria è sempre legata alla vita, è tramandata dai viventi, mentre la storia è ricostruzione sempre problematica di quel che non è più. La memoria è sempre attuale, un legame che continuamente si ripropone; la storia è una rappresentazione del passato.  Il monumento si situa perciò all’ambiguo crocevia tra storia e memoria, e ogni monumento, come dice l’etimologia, è anche monimentum, monito. E qui il monito non potrebbe essere più chiaro: a questo hanno condotto trascuratezza, cattiva gestione, privatizzazione di ciò che è pubblico e dovrebbe rimanere pubblico, come sono le infrastrutture di un Paese. E insieme risuona un invito a non trascurare, a non considerare quanto avvenuto come già passato, confinandolo tra le cose che si ricordano. Gli storici, come diceva scherzosamente Philippe Nora in Les lieux de mémoire (Gallimard, 1984), sono sempre metà preti, metà soldati, ma questa specifica storia andrebbe raccontata per intero in maniera coraggiosa e militante, se se ne vuole veramente serbare il contenuto pedagogico e politico. Una memoria che divide e non unisce, tantomeno spendibile in chiave di riconciliazione con i colpevoli. Ben venga dunque il doppiamente incompiuto memoriale, non finito, e senza i nomi dei responsabili, ma io, come Dylan Thomas, io me ne sto in disparte con i morti, in attesa che sia resa loro giustizia, e abbiano così più degna sepoltura.

da GoodMorning Genova con il permesso dell’autore

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