di Franco Pezzini
(Per le parti precedenti, cfr. qui)
Rinascite e apocalissi (1916-17)
Il capitolo XIII inizia con Sephardi, Swammerdam e Pfeill che discutono di temi arcani a casa del primo. Eidotter è stato liberato ed è tornato al suo spaccio di alcolici, mentre Haberrisser dovrà affrontare il giorno seguente la dura prova della sepoltura di Eva. Swammerdam spiega però di non preoccuparsi che la strana serenità dell’ingegnere lo abbandoni: “Eidotter direbbe che i lumi in lui sono stati spostati”. Turbati dalla serenità di Swammerdam, gli amici ricordano le frasi che il calzolaio assassinato aveva detto prima di morire, prevedendo la propria fine con gran lucidità: il mistico spiega che proprio il ricordo di tale verace estasi spirituale gli permette di rileggere quella notte in modo sereno. Del resto la vita dopo la morte spettante alle due vittime è una condizione, non un luogo, così come la vita sulla terra. Sephardi è chiamato nell’altra stanza da una telefonata, e il mistico continua a bassa voce, per il solo Pfeill: a suo dire in paradiso ci sarebbero solo le immagini di persone e cose amate, non quelle reali – ma sa che Sephardi aveva amato Eva e dunque non vuole strappargli l’illusione di un incontro con lei nell’aldilà. Il dottore rientra, e manifesta al mistico il suo stupore che riesca a “dominare il dolore attraverso la pura conoscenza”, mentre lui con argomentazioni filosofiche non ci riesce: Swammerdam ribatte che Sephardi parte dal pensiero, di cui in segreto diffidiamo, non dalla “Parola Interiore” – che pur avendogli parlato di rado ha illuminato la sua intera esistenza. In qualche volta gli ha offerto profezie: anzitutto, per suo
intervento una giovane coppia avrebbe avuto accesso a una via spirituale rimasta sepolta per millenni e destinata a rivelarsi a molti nel tempo a venire. È la via che dà alla vita il suo reale valore, e un senso all’esistenza. Questa promessa è divenuta l’essenza della mia vita.
Della seconda profezia preferisce non parlare, lo prenderebbero per matto, ma potrebbe riguardare Eva, mentre la terza non interesserebbe loro. Su queste tre nutre tale certezza da non essere in grado di dubitarne, pur non avendo mai goduto di visioni. Sente comunque la presenza di Qualcuno accanto a sé, “immenso e onnipotente”, non spera di vederlo ma spera in Lui. E aggiunge: “So che un futuro terribile, sconvolgente si sta avvicinando; prima arriverà una tempesta come non se ne sono mai viste”. Non gli importa se ne sarà coinvolto anche lui, ma è felice che quel tempo giunga. Gli amici rabbrividiscono. Non poteva sapere dove Eva fosse, ma solo che sarebbe venuta: e così sa che non è morta, “La mano di Lui la protegge”. Gli amici possono ribattere sconvolti che il feretro è già in chiesa e l’indomani verrà sepolta: ma se persino fosse sepolta mille volte, o se lui tenesse in mano il teschio di lei, sa che non è morta… Così, quando il mistico se ne va, Pfeill commenta che è matto.
Sfuggendo al poliziotto appostato in seguito agli ultimi fatti, Usibepu penetra in chiesa dal lucernario della sagrestia. In chiesa, Eva giace composta e coperta di rose bianche, attorniata da alti ceri. Usibepu si aggira colpito dalle statue, fino a fermarsi triste accanto alla defunta, stordito dalla sua bellezza, e le accarezza timidamente i capelli. Non capisce perché davanti a lui si fosse spaventata così tanto: le altre donne, nere o bianche, “che aveva desiderato erano sempre state orgogliose di appartenergli” e con nessuna aveva dovuto ricorrere alla magia Vidû – “Lei sola no!”. L’aveva cercata invano notte dopo notte, e prende a ricordare la lunga strada seguita fin lì dall’Africa, dove un commerciante inglese l’aveva attirato a Città del Capo promettendogli di farlo diventare re degli Zulù, poi la nave su cui era giunti ad Amsterdam, la troupe del circo dove era stato arruolato per sfruttarlo, “la città di pietra in cui il suo cuore si consumava di nostalgia; e nessuno che capisse la sua lingua”. Carezza un braccio di lei con espressione desolata, per amore di lei ha perso il suo dio: “Perché fosse sua aveva invocato il terribile Souquiant, l’idolo serpente dal volto umano, e così aveva messo in gioco e… perso il potere di camminare sulle pietre incandescenti”. Scacciato dal circo e senza un soldo, sul punto di essere rispedito in Africa, aveva vagato cercandola: e il dio serpente “gli era apparso un’unica volta in sogno, e con un ordine atroce: evocare Eva nella casa di un rivale. E soltanto ora riusciva a rivederla, in chiesa, morta”.
Non capisce peraltro il senso delle statue all’intorno, divinità bianche di cui ignora i nomi segreti per poterle invocare: ma devono anche loro saper fare risorgere i morti, altrimenti Zitter Arpád da chi ha ottenuto la capacità di conficcarsi i pugnali in gola? Non riesce a entrare in collegamento neppure con una Madonna nera, e si rannicchia ai piedi del catafalco intonando il canto funebre degli Zulù. Alla fine si alza e avvolge l’oggetto più prezioso che ha, una piccola collana fatta di vertebre di regine strangolate – un feticcio sacro portatore d’immortalità – attorno alle mani giunte della morta. Tanto, “Eva non poteva entrare nel cielo dei neri né lui nel paradiso dei bianchi!”. Ma poi avverte un rumore, un tremolare delle candele e si nasconde dietro la colonna.
Al posto del cero è ora apparso un trono di pietra, dove siede, di altezza sovrumana, un dio egizio con la corona piumata. Di fronte a lui un uomo con la testa di ibis, e ai lati della bara due figure con teste rispettivamente di sparviero e di sciacallo. “Lo zulù intuì che erano venuto a giudicare la morta”. Poi appare la dea della verità con un copricapo a forma di avvoltoio e prende il cuore della giovane ponendolo su una bilancia: le figure ai lati gestiscono la pesa, il cuore di Eva risulta pesare molto più della statuetta di bronzo sull’altro piatto, la figura con testa d’ibis scrive su una tavoletta di cera e il giudice dei morti stabilisce che “ha raggiunto la terra della verità e della discolpa”, per cui “Si desterà quale Dio vivente”. Poi le divinità scompaiono ed Eva scende dal feretro: i ceri si mutano in figure brune con fiamme alte sul capo, e richiudono la bara vuota.
L’inverno ha percorso l’Olanda, ma la primavera non giunge, come la terra non riuscisse a ridestarsi. In un clima sempre più angosciato, si blatera di fine del mondo. Hauberrisser si è trasferito in campagna in una casa isolata che forse era in origine una tomba megalitica, e che ha adocchiato al ritorno dal funerale di Eva. Il concetto di dolore dell’anima gli è divenuto incomprensibile e prova quasi orrore di sé.
Una sera, mentre medita sulla possibilità che l’umanità risorga dalle ceneri come una Fenice, pensa all’apparizione di Chidher Grün che ha detto di essere rimasto sulla terra per “dare”: lui, al contrario, si tiene gelosamente le proprie acquisizioni interiori, al punto che gli amici lo pensano lì intento a piangere. Esclude di tornare in città e mettersi a predicare, la gente non capirebbe: e decide di proseguire il manoscritto con gli insegnamenti e rimetterlo nella nicchia della propria precedente abitazione.
Lo indirizza dunque “Allo sconosciuto che verrà dopo di me!”. Mentre, dubitoso sullo sviluppo del testo, cerca la custodia fatta confezionare in argento per il medesimo, gli capita tra le mani il teschio di cartapesta comprato più di un anno prima alla “Bottega delle Meraviglie”: il mondo gli appare come un gran negozio pieno di cianfrusaglie. Persino di fronte al corpo di Eva gli era parso si trattasse di una statua di cera, una completa estranea. Ma il se stesso inginocchiato davanti al letto era solo un’ombra sorridente: gli stessi amici e le persone al funerale gli erano apparsi ombre, così come il carro, le corone, il cimitero… Da allora sa di aver superato la soglia della morte: resta sveglio vedendo il suo corpo dormire, ma se riprende a vedere coi suoi occhi tutto gli pare triste. Se poi torna a staccarsene, vive una situazione singolare:
Supponi di trovarti in un cinematografo – col cuore esultante per una gioia recentissima – e di vedere sullo schermo la tua immagine che passa di dolore in dolore e crolla al capezzale di una donna amata – e tu sai che non è morta bensì a casa ad aspettarti; supponi inoltre che quell’immagine, con la tua propria voce prodotta da un apparecchio sonoro, lanci grida disperate di dolore. Questo spettacolo ti coinvolgerebbe?
Certo, il paragone è debole; ti auguro di farne esperienza personalmente.
Sapresti allora, come lo so io, che esiste una possibilità di sfuggire alla morte.
Nuovo riferimento al cinema nell’opera di Meyrink, il passo la dice lunga sul gusto melodrammatico della produzione espressionista…
Se poi non può ancora vedere Eva, sa che non è morta e li separa un altro piccolo passo, una parete sottile. E ammonisce di guardarsi dagli insegnamenti degli spiritisti: “Per fortuna non sanno chi sono realmente quelli che accorrono ai loro richiami. Se lo sapessero ne proverebbero orrore”.
Per giungere dagli Invisibili, occorre diventare invisibile, e chi è partito cieco dalla terra non raggiunge l’aldilà ma vaga in una dimensione di sogno popolata da ombre. Immortale è solo chi si è risvegliato, “Sopra di lui non c’è nessun Dio”: per questo la loro via è detta pagana, e considera come una semplice condizione in cui trasformarsi quel Dio che i devoti adorano. Dunque le preghiere andrebbero rivolte al proprio Sé invisibile…
Scritto tutto quello, Hauberrisser si alza, ripone in fretta i fogli nella custodia, e nella luce dell’alba si avvia per portarli al vecchio alloggio – però poi decide di seppellirli lì intorno, sotto un melo in fiore. Solo allora corre verso la città, preso da una grave preoccupazione per i propri amici. L’aria è calda, calma e asciutta come prima di un temporale. Ma col far del giorno il cielo muta aspetto, le nubi si torcono come vermi giganteschi; “Incubi vorticanti con le punte verso l’alto, simili a immensi calici rovesciati, dondolavano appesi nel vuoto; volti di animali si avventavano l’uno contro l’altro”. Un lungo triangolo nero si leva veloce da sud e per alcuni minuti oscura la luce solare: sono cavallette giunte dall’Africa. La simbolica è quella dell’Apocalisse: le coppe al cap. 16, le cavallette al 9…
Durante il percorso non ha incontrato nessuno, ma alla curva gli appare l’enorme figura di un vecchio ebreo, dai contorni incerti e alla fine quasi trasparente; lo oltrepassa silenzioso e diventa un nugolo di formiche volanti, che può ricordare la forma di un uomo ma poi si dilegua all’orizzonte. È una manifestazione di Chidher Grün? Gli sembra strano.
Ma nel frattempo ha raggiunto il Wester Park e si dirige verso il Damrak in direzione di casa di Sephardi. Ma a causa della folla agitata deve imboccare la Jodenbuurt: e trova una sfilata rumorosa dell’Esercito della Salvezza, poi una quantità di fanatici flagellanti, sbavanti, convulsivi… Neanche i vicoli sono praticabili, e passando davanti alla “Bottega delle Meraviglie”, Hauberrisser trova che è stata rimossa l’insegna e alzata un’impalcatura per il trono del ciarlatano Zitter Arpád. Questi, in mantello d’ermellino e diadema aureolante, getta tra la folla in estasi monete di rame con la sua effigie e invita a gettare “le donnacce nel fuoco” e portare a lui “il loro oro peccaminoso”.
Infine Hauberrisser incontra Pfeill, e continuamente ostacolati dalla folla puntano verso casa di Swammerdam. Ora Pfeill non è più così estasiato dal cialtrone che si fingeva un conte polacco: “Un tipo orribile quello Zitter”, la polizia è impotente contro le sue malefatte, si spaccia per il profeta Elia e si fa adorare: ha portato cortigiane straniere al circo, e fatto aizzare tigri contro di loro, con “la follia del dittatore. Come Nerone…” (consideriamo che queste pagine vengono scritte parecchio prima dell’ascesa di Hitler). Ha sposato una donna e poi per depredarne le sostanze l’ha avvelenata, poi si è giocato i soldi di lei e in seguito ha fatto il medium con gran successo – si tratta in sostanza del solito Tiranno manipolatore d’anime che tante volte incontreremo nel cinema espressionista, e insieme di una Bestia da Apocalisse. Intanto il corteo di devoti eccitati rischia sempre di separare i due amici.
Sephardi però è partito, è “cambiato parecchio” trascorrendo molto tempo con Eidotter, e dice che finalmente ha una missione: in seguito a un’apparizione dell’uomo dal volto verde è andato a fondare uno stato sionista in Brasile, dove sono confluiti quasi tutti gli ebrei d’Olanda. (Va ricordato che alla fine del Golem Hillel partiva per la Palestina, verso Gad, ma il filantropo barone Hirsch vagheggiava a fine ottocento una grande emigrazione ebraica nelle Americhe, e il finanziamento di colonie agricole in Argentina, Brasile e Canada, saldando così il sogno della Terra Promessa con l’utopia rurale americana.) Come “unico popolo internazionale” gli ebrei “sono chiamati a creare una lingua che pian piano diventi il mezzo di comunicazione fra tutti i popoli della terra e in tal modo li avvicini”. Eidotter, quasi sempre in estasi, proclama profezie che si avverano regolarmente, di recente quella “di una terribile catastrofe sull’Europa che aprirà una nuova epoca”, felice di esserne travolto anche lui per poter “condurre nel Regno dell’Abbondanza i tanti che trapasseranno”. Un’idea non così assurda, in città si attende “il diluvio universale… L’umanità è impazzita… Le ferrovie sono interrotte da tempo”. Ma anche a Pfeill sono capitati fatti incredibili…
Quanto a Swammerdam, è in pena per loro, “crede che solo vicino a lui possiamo essere al sicuro”. Una delle tre profezie della sua Parola Interiore gli ha annunciato che lui sopravvivrà alla chiesa di San Nicola: probabilmente spera così di salvare anche loro dalla catastrofe. Ma a un tratto il clamore si fa assordante di voci che gridano al miracolo, “La nuova Gerusalemme è comparsa nel cielo!”, da un abbaino all’altro oltre i tetti, fino alla più remota periferia. Vengono separati e trascinati via dalla fiumana, mentre nell’aria continuano a vorticare “quelle strane figure di vapore azzuffandosi come giganteschi pesci alati”, ma tra le nubi a forma di montagne innevate ecco apparire “il miraggio di una città straniera del Sud”, e se ne vede persino la gente dal volto scuro. Il miraggio dura più di un’ora prima di impallidire: resta nel cielo per un po’ un sottile minareto che infine si dilegua.
Raggiungere casa di Swammerdam è impossibile, e Hauberrisser decide di tornare indietro, in un panorama silenzioso, secco e polveroso percorso da schiere di topi. Nell’aria senza vento che via via si oscura, i canali sono corsi da strisce infuocate, formano gorghi fangosi; ma a un tratto prendono a sorgere come spettri trombe d’aria, dirette verso la città. Madido di sudore, Hauberrisser rientra in casa, non tocca cibo e si getta sul letto.
E arriviamo all’Epilogo, con una notte che sembra non voler finire, il cielo nero anche all’alba, una striscia di luce sulfurea all’orizzonte, le torri lontane di Amsterdam fiocamente illuminate. Hauberrisser punta il binocolo in quella direzione. Lo scampanio ansioso da laggiù ammutolisce, un rombo attraversa l’aria e il pioppo più prossimo alla casa si piega scricchiolando fino a terra. il vento turbina a frustate, poi un’enorme nube di polvere inghiotte il paesaggio, le pale strappate dai mulini vorticano nell’aria: la tempesta geme sulla landa fino a formare un urlo ininterrotto, sempre più violenta. Travi, macerie, muri volano come proiettili davanti alla finestra: e Hauberrisser sta già credendo che l’uragano passi con l’oscurità – il cielo si è fatto grigio argento – quando dal pioppo abbattuto e ormai senza fronde prende a staccarsi persino la corteccia. E lontano, verso Amsterdam, prendono a spezzarsi e cadere prima le alte ciminiere a sud-ovest del porto, poi i campanili. Il vento trascina in volo persino lapidi e croci del cimitero; le travi del solaio gemono, ed è impossibile anche solo abbassare la maniglia della porta della stanza per evitare che la corrente riduca la casa in macerie. Si salva solo perché protetta dalla collina e le stanze sono divise da porte chiuse. Attorno la tempesta soffia via l’acqua dai canali e la sparge nell’aria. Se, come mi faceva notare un’amica, Usibepu è idealmente imparentato con Calibano, La tempesta è qui alla fine e non all’inizio dell’opera, con il ruolo di Prospero suddiviso tra Swammerdam e Hauberrisser. Per contro, una chiesa di San Nicola c’è anche nel Castello d’Otranto, pur non venendo distrutta dal crollo dell’edificio eponimo.
L’ingegnere fissa l’imposta coi chiodi, ma quando osa guardare in direzione di San Nicola dove devono trovarsi gli amici la vede ancora indenne su un’isola di macerie. Si chiede quante città d’Europa siano ancora in piedi, una “civiltà ormai fatiscente si è disfatta in macerie sparse ovunque”. E alla fine recupera abbastanza lucidità da poter capire, domandandosi se abbia dormito fino a quel momento. Inspiegabilmente il melo fiorito vicino a casa sua è ancora intatto: ai suoi piedi aveva sepolto il rotolo di fogli, si tratta forse di Chidher, “l’albero in eterno ‘verdeggiante’”. E un’aria di primavera aleggia sul mondo devastato… Sente la Fenice in sé pronta a spiegare le ali, ricorda quando ha baciato Eva ma ora non avverte più la morte ma un presentimento di vita futura indistruttibile. Ricorda la promessa di Chidher Grün di dare l’amore eterno anche a lui come a Eva…
Certo, molti sono periti nella catastrofe ma non riesce a provare dolore: risorgeranno a una forma diversa fino a raggiungere quella definitiva di “uomo risvegliato”. Anche la natura, come la Fenice, ringiovanisce ogni volta… e a un tratto, avvertendo un lieve respiro carezzargli il volto, si chiede se Eva non sia vicino a lui. “Quale cuore poteva battere così vicino al suo se non quello di lei?”. Mentre avverte nuovi sensi destarsi in sé, supplica sottovoce Eva per un segno, e con emozione immensa sente mormorarne la voce: “Che misero amore sarebbe mai questo se non potesse superare lo spazio e il tempo!” – ora lei attende il risveglio di lui… Tutto, attorno, gli sembra ingannevole e si chiede cosa accadrà al proprio risveglio spirituale.
Il tempo passa, i canali sono vuoti, l’aria è immobile. Ma con il binocolo, nota che in città infuriano ancora dei cicloni, e i due campanili di San Nicola vacillano, poi uno crolla e l’altro è proiettato in aria “vorticando come un razzo” per poi schiantarsi. Hauberrisser atterrito pensa ai propri amici, ma poi realizza che Chidher deve averli protetti. La campana della chiesa si frantuma in distanza, lo spostamento d’aria giunge fin lì (ovviamente la scena non va letta in termini naturalistici) e si ode nella stanza la voce di Chidher Grün. “Le mura di Gerico sono cadute […] Egli si è destato dal regno dei morti”. Poi silenzio, il pianto di un bambino e infine alle pareti disadorne della stanza – sorta di tomba per una morte simbolica – si sovrappongono come coesistendo in un’altra dimensione quelle di un tempio egizio con figure di divinità. I sensi si risvegliano potenziati:
A poco a poco capì di aver toccato quel traguardo che è lo scopo segreto di ogni esistenza umana: essere cittadino di due mondi.
Di nuovo il pianto di un bambino.
Eva non aveva detto di voler essere madre al suo ritorno? Trasalì per lo spavento.
La Dea Iside non teneva forse in braccio un bambino nudo e vivo?
Levò lo sguardo su di lei e la vide sorridere.
La Dea si mosse.
E mentre l’immagine del tempio si fa sempre più nitida, Hauberrisser riconosce Eva in Iside, è lei “madre del mondo” e gli appare nel suo sembiante terreno. Chiamando il nome dell’amata, nella stanza che torna a emergere la stringe a sé e le copre il viso di baci. Restano abbracciati davanti alla finestra guardando verso la città morta, e nella testa di Hauberrisser echeggia la voce di Chidher Grün, forse profetica della nascita di un figlio alla coppia ricongiunta: “Aiutate le generazioni future, come faccio io, a costruire un nuovo regno sulle rovine del vecchio, […] affinché giunga il momento in cui anch’io potrò sorridere”.
La camera e il tempio erano ormai ugualmente nitidi.
Come Giano bifronte, Hauberrisser poteva ora guardare contemporaneamente nel mondo dell’aldilà e in quello terreno, distinguendone ogni più piccolo dettaglio:
adesso era “di qua” e “di là”,
un uomo vivo.
Permettendo alla coscienza di raggiungere il punto d’illuminazione e cancellare i limiti, l’iniziato dovrebbe cioè operare il passaggio da dualità e separazione di opposte polarità a un’unità profonda, con il trionfo di “Nozze chimiche” tra Re e Regina. Questo finale, che riconduce idealmente al racconto coevo La visita di Johann Hermann Obereit nel Paese delle Succhiatempo e alla dignità di poter porre l’epitaffio “Vivo” sulla propria tomba, dice parecchio delle riflessioni che Meyrink sviluppa all’epoca.
Qualche appunto merita il tema del “verde”, di antica tradizione simbolica e alchemica in associazione con la figura misterica che conduce un gioco allegro nella pagine dell’opera. Il volto verde che qui vediamo figurare sul corpo di un uomo o invece di un serpente richiama anzitutto il Chidher (o Chadir, El-Chidr, Al Khadir, Al Khidr) della tradizione islamica, citato nel Corano (sura 18, 58-91).
Benché servitore di Dio, egli è protagonista di diversi misfatti, e quando Musa (Mosè) gliene chiede la ragione, Al Khidr gli risponde: “Tu non puoi insistere con me; quel che faccio, non è di testa mia. Dio mi ha dettato queste azioni biasimevoli per evitarne di peggiori”. Nell’enciclopedia dell’Islam (1913) vengono riportati altri dettagli quantomeno inquietanti: “È tuffandosi nella sorgente della vita che egli avrebbe acquisito il colore verde e di conseguenza il nome…”l
“Egli era seduto su di una pelliccia bianca e questa divenne verde”. La pelliccia è la Terra quando fa maturare i germi e diventa verde dopo esser stata disseccata. Secondo Umara è stato detto ad Al Khadir presso la sorgente di vita: “Tu sei Chadir e là dove i tuoi piedi la toccheranno la terra diverrà verde”. [Jean-Jacques Mathé, Il simbolismo ermetico, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]
Questo Chidher, chiamato anche Huzur nelle tradizioni esoteriche dell’Islam, è sempre stato assimilato all’Ermete Trismegisto egiziano. Nel romanzo di Meyrink, il parallelismo viene espressamente stabilito col profeta Elia e l’evangelista Giovanni, ed anche con l’immagine dell’“Ebreo errante”; ed il possessore della Faccia Verde viene così designato come “l’uomo archetipico”, o come il solo essere veramente vivente.
Come il profeta “verde” dell’Islam ha bevuto dell’acqua della vita e morirà solo al suono della tromba del Giudizio Universale, così il colore simbolico di San Giovanni è il verde e, secondo una tradizione, egli deve restar vivo sino al ritorno del Messia. Ma anche Elia può comparire in qualunque momento quale invitato alla sera del Seder e, come San Giovanni con la sua Apocalisse, viene ritenuto l’annunciatore di un grande Giudizio di Dio prima del regno del Messia.
Tuttavia, è particolarmente importante il fatto che Chidher sia sempre considerato come il compagno e lo ierofante di un atto di resurrezione mistica, mentre San Giovanni, autore del Vangelo esoterico [sic], svolge un ruolo corrispondente nelle tradizioni gnostiche; infine, la letteratura cabalistica della mistica ebraica fa differenza tra gli autori ai quali il profeta Elia sarebbe apparso e quelli i cui scritti si baserebbero sul solo intelletto umano.
Per ragioni di atmosfera poetica più che per il suo sapore esoterico, Meyrink ha aggiunto a questo personaggio di Chidher-Elia-San Giovanni quello dell’Ebreo errante. Le descrizioni talvolta dettagliate dell’apparenza esteriore dell’Ebreo errante lo hanno aiutato non soltanto a fornire un’immagine precisa del possessore della Faccia Verde sin dalla sua prima apparizione, ma gli hanno anche conferito la possibilità di distinguerne convenientemente gli aspetti positivi e negativi: l’aspetto positivo risalta quando la Faccia Verde si presenta, come nella rappresentazione classica dell’Ebreo errante, con una banda nera sulla fronte sotto cui si cela, secondo Meyrink, il segno della vita. Nell’aspetto negativo, il volto è velato e la fronte si rischiara della luce di una croce verde. L’attrazione poetica del personaggio dell’Ebreo errante è stata così forte per Meyrink che egli in origine voleva intitolare il suo romanzo L’Ebreo errante.
La Faccia Verde del primo uomo immortale, cui Meyrink aggiunge anche alcuni tratti del culto del serpente Vidu degli Zulù, le concezioni di un circolo di mistici cristiani, un simbolismo cosmico della natura e le tradizioni egizie, svolge in effetti un ruolo essenziale nel romanzo, perché come in tutti i romanzi di Meyrink non è l’evento esteriore ad esser descritto, bensì l’evoluzione interiore dell’eroe, e questo con un rigore idealistico caratteristico di Meyrink in particolare e dell’espressionismo tedesco in generale. Uno dei personaggi espone la sua dottrina: dobbiamo porre il pensiero al di sopra della vita; l’evoluzione intellettuale dell’eroe principale sin dalla prima intuizione e dalla prima percezione e fino a compimento della propria realizzazione mistica costituisce l’idea direttrice. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, cit.]
[…] in ogni opera, Gustav Meyrink identifica un essere vivente con un personaggio che ha cessato di esistere, che è vissuto in un tempo passato e tutte queste vite, per quanto un po’ diverse l’una dall’altra, formano un’entità spirituale appartenente ad un essere unico, che ci si rivela sotto molteplici sfaccettature.
Ed infatti, il cosmo non è forse formato, in un preciso istante, di presente, passato e avvenire? In questo rigido blocco, l’avvenire è costituito di elementi già vissuti. [Jean-Pierre Bayard, Aspetti del pensiero iniziatico di Gustav Meyrink, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]
Fuori da mille equivoci, l’esoterismo del Volto verde sta in questo, e non assomiglia in nulla ai corti orizzonti di piccoli razzisti in cerca di potere magico-politico, ma guarda a un’esperienza di crescita interiore. Mistica cristiana, ebraica, islamica; sapienza egizia, africana – il risultato è una grande avventura esistenziale sincretista, aperta a varie “sofie” e con un inatteso rispetto – inatteso data l’epoca e il contesto – di mondi e profili altri come quello di Usibepu.
Per Pfeill il Volto verde è uno spartiacque della coscienza umana, e la stessa esperienza interiore viene condivisa da quanti siano maturi per riceverla; per Sephardi non è importante che si tratti di un essere e una forma di comunicazione provenienti dall’esterno o invece di qualcosa di totalmente interiore, per la difficoltà di discernere tra pensiero e comunicazione. Ma è con il povero Eidotter che si capisce meglio come il Volto verde – Elia –permetta di conoscere il più alto grado di iniziazione e una vera modificazione della personalità. Negli ultimi capitoli, poi, diverse prospettive illuminano spiegazioni ai processi evolutivi in scena, con una spiegazione quasi junghiana sul risveglio e la realizzazione dell’Io invisibile e una prospettiva profetica di apocalisse e rinnovamento. Il numero e la densità delle metafore e delle espressioni immaginose, ma soprattutto la loro profondità, offrono a questo romanzo una connotazione molto particolare. Fondamentale è l’accettazione della legge della mortalità, e merita su tema citare le parole di Marcel Béalu:
Che l’accettazione sia puntellata o no dalla credenza in una problematica vita eterna, è proprio a questa sola speranza terrestre che alla fine si accosta Meyrink. […] Certo, vi è confusione, farragine, ebollizione verbale in questi libri, il cui intreccio tende talvolta al melodramma. Spesso ci troviamo più vicini all’autore de L’Ebreo errante [inteso qui come feuilleton di Eugène Sue] che a Kafka (che pure ne subì, a quanto si dice, l’influenza). Questo genere di letteratura non è certo adatto ai raffinati. Non sono tanto le qualità dello scrittore […] che ammiro in Meyrink, bensì la gravità, la serietà delle preoccupazioni, l’essenza del pensiero. Se non siamo sicuri di trovarci di fronte a uno “scrittore” così come lo intende la crema intellettuale di questo paese, siamo certi di essere alla presenza di un uomo che possiede un’“anima”, il che è mille volte più raro. Intendo con “uomo che possiede un’anima” chi non ha vergogna di provare sentimenti comuni a tutti gli esseri e conserva uno spirito inquieto per i propri destini ultraterreni, non limitato alla preoccupazione di farsi valere o di assicurarsi una reputazione nel Landornau letterario dell’epoca. Di quest’anima, che raggiunge qui facilmente il patetismo, conserverò soprattutto il bagliore di speranza che compare nell’ultima pagina de La Faccia verde, dopo che gli amanti si sono ritrovati e vi è stata la promessa della futura nascita del figlio […]. [Marcel Béalu, L’angelo è apparso in un calore insopportabile, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]
Il nodo rilevato da Béalu è particolarmente evidente in un romanzo piuttosto ostico come Il volto verde, letterariamente più povero del Golem e di altri dell’autore a dispetto della lussureggiante ricchezza simbolica, mitica e mistica. Che pure ha i suoi pregi narrativi: l’Amsterdam postbellica richiama in modo suggestivo la Germania dell’espressionismo, e la catastrofe finale che la colpisce – con quella che è stata talora giudicata una soluzione narrativa eccessiva e non felice – mostra non solo una potenza visionaria, ma un nesso suggestivo con tutta un lunga storia del linguaggio fantastico (i crolli del castello d’Otranto, del palazzo Metzengerstein e di casa Usher, quello del castello Dracula previsto nella prima versione del romanzo di Stoker…).
Del resto a scenari apocalittici Meyrink torna molto presto, con un romanzo letterariamente più godibile e di grande potenza visionaria dell’anno successivo, La notte di Valpurga (Walpurgisnacht. Phantastischer Roman) apparso per i tipi Kurt Wolff Verlag, 1917. Praga, 1885 (la Triplice Alleanza è stata siglata da tre anni): in un clima sovreccitato e decadente che suggerisce l’incombere della fine dell’impero asburgico, la notte fatale in cui “si scatenano le forze dell’‘altra sponda’” (come presentava il romanzo la vecchia edizione La Bussola) diventa metafora espressionista di una crisi epocale, apocalittica ma anche propriamente sociale. Già le scene iniziali potrebbero, per giochi d’ombra e di livide luci, per personaggi dal gesticolare grottesco e dagli occhi caricati col trucco a enfatizzare una teatralità isterica e burattinesca, arrivare direttamente da un film d’epoca.
Tutto inizia con un cane – Brock – che abbaia nella notte e un gruppo di vecchi riuniti attorno a un mazzo di carte da whist. Ci sono il barone Costantino Elsenwanger, la contessa Zahradka, l’allampanato medico di corte Taddeo Flugbeil detto il Pinguino dagli studenti dello Hradscin, e ipotizzano che l’abbaiare del cane annunci l’arrivo del Consigliere Gaspare di Schirnding molto occupato a giocare di giorno con i bambini dell’istituto Khoteke – o meglio con le bambine, osserva Flugbeil; “con la gioventù, e basta” ribatte severa la contessa. In effetti il Consigliere arriva, ma il cane continua ad abbaiare. Il gruppo va a cena, commentando con stupefazione che il Consigliere sia sceso in città, varcando il ponte – e se fosse crollato? – in toni sovraeccitati che ben rendono un certo clima onirico ed espressionista; mentre è quasi surrealistica la confusione della contessa tra le dita dei guanti troppo lunghi della cameriera Bozena – a piedi nudi, secondo il costume dei domestici dei palazzi patrizi di Praga – guanti che dunque pendono nel brodo, e le salsicce della medesima zuppa. In città non scendono mai, come la contessa ancora stizzita che i suoi antenati vi siano stati giustiziati durante la Guerra dei trent’anni, o molto di rado come il barone, discesovi l’ultima volta vent’anni prima. Ma ormai i prussiani, spiega il Pinguino, da tre anni sono loro alleati contro i russi, la situazione è cambiata…
Terminano cena e si apprestano ad affrontare la solita partita a whist, quando il cane in giardino riprende a ululare. Il Pinguino allora prende a occhieggiare dalla porta sulla veranda e vede un uomo camminare rigido sul cornicione del muro di cinta del parco. All’improvviso la figura sparisce, precipitando tra la vegetazione, e la situazione – sarà un assassino? – scatena il panico: ma il Pinguino mantiene sangue freddo diramando ordini ai domestici, e alla fine lo sventurato ritrovato i piedi del muro viene trasportato privo di sensi nella sala dei ritratti. Lì, tra immagini più o meno inquietanti di antenati nelle tele, la contessa annuncia lugubre che Flugbeil non potrà più salvarlo – come quello con un pugnale nel cuore, e al medico di corte occorre un attimo per ricostruire che lei pensa al figlio trovato pugnalato tanto tempo prima. L’infortunato presenta labbra illividite e guance imbellettate in rosso vivo, tali da far pensare a una figura di cera (di nuovo): e la cameriera riconosce in lui Zrcadlo, “lo Specchio”, che vive presso Lisa la boema, in passato “una famosa etera” (spiega il medico) ormai anziana. Vive nella Totenstrasse, la via delle ragazze perdute, e la contessa ordina di chiamarla. Poco a poco l’uomo riprende i sensi e si alza: secondo il Pinguino, si tratta di un caso di sonnambulismo scatenato dal plenilunio. Prova a parlargli, Zrcadlo si sente abbastanza bene da tornare a casa?
Il sonnambulo non risponde, volge lentamente il capo e lo fissa, mentre il Pinguino si chiede dove mai l’abbia visto. È alto, magro, di pelle scura, con capelli lunghi e grigi, il viso lungo e glabro… non proprio il Cesare del Gabinetto del dottor Caligari (1920, solo tre anni dopo, difficile non pensare a un nesso), ma ci andiamo vicini. Ha guance imbellettate e un mantello di velluto nero, e fa pensare non tanto a un uomo vivo ma alla sensibilizzazione di un’immagine onirica, o a una mummia di faraone travestita da commediante. A detta della contessa, considerando le pupille tanto contratte, il tipo è morto – ed esorta il barone Costantino e il consigliere bloccati sulla soglia a venire avanti, “non morde”. Ma udendo il nome Costantino, il sonnambulo è scosso da un tremito e il volto – come per effetto di ossa molli e plastiche – si rimodella via via fino ad assumere il tipo di famiglia del barone, cancellando i tratti precedenti fino a sembrare un uomo completamente diverso. Come (torniamo al tema espressionista del Wachsfigurenkabinett) fosse rimodellato nella cera. A quel punto si alza e prende a camminare attorno al tavolo, interpellando poi il barone terrorizzato con i toni e la voce del defunto fratello Bogumil – noto peraltro anche al resto dei presenti. A quel punto, come un mimo, Zrcadlo smuove oggetti immaginari per la stanza in modo tanto preciso che gli altri credono di percepirli (fischietta e offre becchime a un uccello invisibile, attinge a una tabacchiera che non c’è, prende a scrivere una lettera e la depone in un cassetto nascosto – stavolta reale, e ignoto al barone – nella parete, che poi richiude…
Ma dalla porta Bozena, allontanata con il resto della servitù, chiede se possano entrare e introduce una figura femminile alta e snella dall’abito di buon taglio ridotto a uno straccio: appunto Lisa la boema. Settantenne, ma un tempo bella e per nulla imbarazzata, fissa i tre uomini che l’hanno ben conosciuta in gioventù e non la contessa, chiedendo educata il motivo della convocazione. La contessa intuisce i motivi di imbarazzo dei tre amici e, ancora colpita dagli eventi di poco prima indica Zrcadlo: chi è e cosa vuole, è forse malato? Interviene anche il medico, pensa sia un sonnambulo e le chiede di riportarlo a casa con l’aiuto dei domestici. Lisa risponde che sa soltanto che si chiama Zrcadlo e sembra faccia l’attore, gira la notte per osterie a rappresentare qualcosa per la gente. Ma non è chiaro se abbia coscienza di sé, e lei non ficca il naso nella vita degli inquilini. Poi lo richiama con garbo e le prende per mano conducendolo abulico verso la porta: la somiglianza con il defunto barone Bugumil è sparita, sembra tornata una normale coscienza di veglia ma il tipo non nota i presenti, quasi fosse ipnotizzato. Il medico comprende trattarsi di un essere che può assumere di volta in volta forme del tutto diverse, un cadavere non decomposto e in balia di influenze invisibili, che si chiama ed è autenticamente uno “specchio”. Poi, fuori dalla stanza avvicina Lisa: andrà a trovarla l’indomani, intende capire qualcosa di più di Zrcadlo. Poi con gli altri, ma tutti turbati, riprendono a giocare a whist.
Taddeo Flugbeil, celibe impenitente detto il Pinguino, è l’ultimo della sua dinastia di medici di corte: e la sua vita regolatissima è scossa dalle emozioni della serata e dai ricordi giovanili in cui Lisa la boema, al tempo giovane e bellissima, ha avuto parte rilevante. Col risultato di alzarsi troppo presto: ma come ogni anno si accinge a recarsi in carrozza a Karlsbad (oggi Karlovy Vary) per le cure termali. Di solito parte il primo giugno, ora è il primo maggio e dunque è tempo per prepararsi: il viaggio a piccole tappe, con lo sfiancato cavallo Carletto, può durare settimane. Stavolta Flugbeil non si è curato di staccare il foglietto del giorno precedente, 30 aprile, con la dicitura “Notte di Valpurga”: va invece a recuperare l’enorme diario su cui i maschi di famiglia a partire dal suo bisnonno sono usi scrivere, per cercare nelle pagine della propria gioventù il nome di Zrcadlo. Ha iniziato a annotarvi fatti quotidiani tutti i giorni a partire dal suo venticinquesimo anno, e i passi sulla vita amorosa – in realtà pochini – sono cifrati. Ma nulla emerge, e in compenso gli resta un senso di disagio, di fronte alla monotonia grigia della propria esistenza, della cui regolarità altre volte era andato fiero. Ora l’evento della sera precedente ha smosso fastidiosamente qualcosa in lui: come Pernath e Hauberrisser, insomma, un altro uomo in crisi, alle prese con il senso dell’esistenza.
Da un terrazzo dei suoi alloggiamenti a Palazzo Reale prende a scrutare Praga con il suo potente cannocchiale, cercando qualche immagine di buon auspicio: e all’improvviso salta indietro perché si è trovato davanti il volto sogghignante di Lisa la boema, quasi l’avesse visto e riconosciuto. Dopo un attimo di forte impressione, torna a guardare e gli pare che tutte le persone viste davanti – tutte estranee – mostrino caratteri di strana agitazione, che gli arriva addosso. Sembra si sia formato un assembramento di popolo… Allora cambia obiettivo e si trova davanti una finestra di soffitta, dove una madre consunta con un bimbo scheletrico gli pone davanti le conseguenze della guerra. Cambiando ancora direzione, verso quel che pare l’ingresso posteriore di un teatro, nota il trasporto di un quadro enorme con Dio Padre benedicente.
Rientrato, viene avvisato che il cocchiere Venceslao è pronto e sale in carrozza; ma un tratto ricorda che intendeva recarsi da Lisa la boema. Fatta fermare la carrozza tra le beffe dei ragazzini che a suo beneficio mimano dei pinguini, comunica la cocchiere la deviazione: no, non verso Totenstrasse – come apprende dal brav’uomo imbarazzato – ma al Nuovo Mondo, una delle vie attorno all’Hirschgraben, con sette casette separate e un muro circolare fitto di disegni sconci. Per non attirare l’attenzione, la carrozza si ferma parecchio prima della casa, e nell’aria primaverile profumata di fiori il vecchio medico sente di aver tradito la propria anima. Le casette sono segnate dall’abbandono e dall’impoverimento legato alla guerra: e giunto all’ultima da cui si alza un filo di fumo, trova infine Lisa alle prese con una zuppa di pane, che gli dà il benvenuto in una stanza sporchissima e caotica che funge insieme da cucina, soggiorno e camera da letto. Lei lo accoglie cordiale terminando di mangiare ed esprimendo il piacere di vederlo, ma a un tratto abbandona la lingua forbita e passa confidenzialmente al dialetto praghese. Commenta che lui è rimasto un bel tipo e un vero accidente, sprofonda nei ricordi e raccoglie un ritratto – un dagherrotipo con l’immagine di lui, regalatole più di quarant’anni prima – che copre di baci, e condisce con un balletto. Paralizzato, il vecchio medico commenta tra sé che è una sorta di danza macabra: e, mentre passato e presente si compenetrano confusamente in lui, si chiede se non sia tornato giovane o invece non lo sia stato mai, e la fanciulla davanti non si sia trasformata una larva raccapricciante… può essere davvero la stessa persona che lui aveva amato? Ma lei torna lucida e singhiozzando nasconde il viso tra le mani, così lui torna a perdere la padronanza di sé. Le chiede con gentilezza se le cose vadano così male e se lui non possa aiutarla, ma lei scuote il capo cercando di soffocare i singhiozzi; allora il medico, vincendo il disgusto per quei capelli luridi, le carezza timidamente il capo, cercando di spiegare che è la guerra, porta a tutti la fame… e si sente in imbarazzo, perché il suo tenore di vita non è invece compromesso. Certo, realizza, lei non è più un grado di guadagnare… Ma alla sua promessa di aiuto, lei grata gli bacia silenziosamente la mano e rifiuta il denaro, lasciandolo perplesso: è felice che lui non abbia orrore di lei, trova spaventoso ricordare il passato. Poi gli spiega che vedendolo entrare le è parso che lui fosse ancora giovane e l’amasse – e le succede spesso, e anche quando va in giro dimentica di essere diventata vecchia. Ma poi i ragazzi la deridono… lui la invita a non curarsene, ma Lisa spiega che l’aspetto terribile è dato dallo svegliarsi ogni volta come da un bel sogno. Non riesce neppure più a riordinare la casa, nulla può essere più come un tempo. Gli altri non possono capire… e lì, in quella melma, un giorno forse potrà dimenticare. Quando a Zrcadlo, vorrebbe avere la forza di cacciarlo via.
Flugbeil spiega di esserne interessato in quanto medico, e le chiede cosa sia: lei ribatte che a volte pensa sia il diavolo, salvo poi correggersi con un riso isterico, il diavolo non esiste e quell’uomo è un pazzo o un attore o entrambe le cose. Comunque non è mai in sé, neanche quando gira le bettole; ed è stato lei a truccarlo, per farlo riconoscere quale attore ed evitargli la galera. Il medico riflette tra sé che non può essere il suo amante, e si domanda se lei non viva dei guadagni di lui: la pietà scompare e lo riprende il disgusto. Tanto più che Lisa si è fatta arcigna: lui si congeda, e lei lo saluta acida non chiamandolo Taddeo col suo nome, ma Pinguino.
(8-continua)