In Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale sostiene che bisognerebbe applicare allo studio dell’arte preistorica i metodi della cultura visuale, sostenuti da quelli delle neuroscienze cognitive e dell’archeologia cognitiva. Il suo saggio è un tentativo di “riflettere sulle capacità cognitive che presiedono al nostro fare-immagine e che, come dimostra un’ampia letteratura, condividiamo con i nostri antenati paleolitici”.
In una intervista ha dichiarato che le è sempre piaciuto “sbirciare” nel campo accanto. Che cosa l’ha spinta a sbirciare nelle grotte dipinte del Paleolitico e che reazioni ha avuto dal mondo della paleoantropologia e dell’archeologia cognitiva?
L’idea di andare a cercare altrove fa parte della mia forma mentis ma ha una motivazione teorica. Nel senso che credo sia improponibile studiare la letteratura – io sono una letterato di formazione, un germanista, anche se da sempre mi occupo di arti figurative e di cultura visuale – come sganciata da tutto il resto. Per esempio dal tema della visualità. Così è nata la mia attenzione per campi che dovrebbero essere quelli dell’estetica, piuttosto che della storia dell’arte. In realtà, a parte il fatto che ogni libro ha una sua forma, un suo layout, i grandi libri sono sempre stati accompagnati da immagini, anche i grandi classici della letteratura; I promessi sposi venne illustrato da Manzoni che andava personalmente in tipografia a scegliere le immagini.
Questo libro, Paleoestetica, che sembra totalmente eccentrico rispetto al mio percorso, ha invece un senso, perché nasce da una domanda che mi ero posto ancora una volta sbirciando fuori casa, mentre scrivevo Perché le storie ci aiutano a vivere, ovvero: va bene parlare di narrazione, della centralità della letteratura, del fatto che non possiamo fare a meno delle storie, ma quali sono le motivazioni antropologiche, biologiche, cognitive di questo fatto? Così ho cominciato a scavare per cercare di capire quali fossero le condizioni antropologiche da un lato, e cognitive dall’altro, del fare storie. In quell’indagine inevitabilmente bisogna affrontare il passato, che ha un grande vantaggio, soprattutto il passato preistorico: ci libera immediatamente dal nostro eurocentrismo, dal pensiero che tutto accada, sia accaduto, soltanto in Europa – questo vale per la letteratura e per l’arte – poi ci libera dall’antropocentrismo, dall’idea di essere gli unici viventi in grado di comunicare e di produrre un certo tipo di artefatti. Questo per me è una mossa teorica importante. Paleoestetica ha questa funzione, in primis: mettere in crisi tutte le nostre consolidate idee su che cos’è un’immagine e sul perché facciamo le immagini, la convinzione che tutto il nostro fare-immagine possa essere ridotto ai pochi attimi che l’intera storia dell’arte rappresenta rispetto ai tempi immemoriali dell’evoluzione.
Interroghiamoci, piuttosto, sulla funzione cioè sul vantaggio adattivo che ci danno cose come la narrazione (e da qui il libro Perché le storie ci aiutano a vivere) e le immagini (e da qui Paleoestetica). Se è vero come che facciamo da sempre storie e immagini, ci dev’essere qualcosa di profondo in questo “fare”, qualcosa che ha una valenza evolutiva. Questo tipo di interrogazione interrogativo mette subito in allarme i professionisti della letteratura e dell’arte – e questa è un po’ la storia di tutta la mia vita – che dicono “sì ma come fai ad acquisire queste conoscenze?”. Con Paleoestetica il rischio aumenta perché mi sono avventurato in ambiti veramente lontani dal mio specifico: la paleontologia, l’archeologia cognitiva, ecc. Però è un libro frutto di dieci anni di lavoro, non è improvvisato. Di Paleoestetica sono usciti degli saggi preparatori in inglese, e quindi ho avuto modo di confrontarmi con neuroscienziati che lavorano su temi archeologici e ho capito che le cose che andavo ipotizzando non erano del tutto peregrine. Anche loro, tra l’altro, sono sedotti da ragionamenti filosofici ed estetologici, talvolta le tentano in modi spesso ingenui e dicendo delle cose che per uno che si è occupato di estetica tutta la vita sembrano delle banalità. Allo stesso modo, è possibile che alcune cose che sostengo possano essere corrette, rivedute e riconsiderate da parte di paleontologi e archeologi, però è proprio così che vanno avanti le scienze: rischiando, non facendo o dicendo sempre la stessa cosa.
Il punto è che noi siamo animali che fanno immagini, le abbiamo sempre fatte e tra di esse queste immagini hanno una inquietante somiglianza.
Nel libro mi interrogo sul perché abbiamo sempre fatto miniature; perche abbiamo sempre cercato superfici su cui poggiare le nostre immagini, superfici da toccrae, da attraversare, per immaginare cosa c’è dall’altra parte; e, infine, perchè abbiamo sempre fatto ibridi. Prendiamo il caso delle miniature, le figurine per lo più femminili che si trovano sparse in tutta Europa, e non solo. Siccome questi artefatti non li possiamo spiegare dal punto di vista dei significati perché stiamo parlando di 40-50.000 anni fa, in alcuni casi di un tempo ancora più remoto – le più antiche statuine ritrovate a Berekhat Ram in Israele risalgono probabilmente a 500.000 anni fa, quando non eravamo neanche Sapiens – allora la domanda non può che essere di carattere cognitivo: perché ci interessa, ci piace, ci è utile tenere in mano quelle miniature? Tento delle risposte che non sono definitive, sono dei paradigmi che ho messo insieme lavorando su quello che vanno facendo i neuroscienziati e gli archeologi cognitivi, cercando di ragionare sul perché facciamo questi oggetti dato che riflettere sui significati è veramente insensato: quando ci rendiamo conto che una grotta del Paleolitico è stata usata per 25.000 anni è inutile discutere di rituale, di magia della caccia… sono interpretazioni plausibili, certo, ma altrettanto certo è che questi significati sono stati trasformati nel corso dei millenni.
Quindi non mi preoccupa quanto rischio avventurandomi in un territorio di questo tipo. Quello che ho fatto per la letteratura, domandandomi che cosa la narrazione abbia a che fare con Homo Sapiens – altri l’hanno fatto per la musica, ad esempio – l’ho fatto per le immagini. Ci dev’essere un motivo perché facciamo proprio queste immagini e non abbiamo mai smesso di farle, e questo motivo che va cercato. Faccio delle ipotesi, sono sicuro che ce ne sono altre possibili, mi auguro che qualcun altro vada avanti su questo fronte. Un estetico o comunque qualcuno che ha riflettutto sull’arte e sulle immagini magari non si rende conto di alcune sfumature in termini di datazione o del tipo di materiale usato, insomma, del lavoro specifico che fanno gli archeologi, però non può non rendersi conto che una statuina come quella dell’uomo-leone è una svolta epocale dal punto di vista della cognizione umana.
Lei sostiene che il fare-immagine del Paleolitico è analogo al nostro, ci è familiare, in qualche modo riconosciamo quelle immagini anche se il significato resta inattingibile. Se è così, e forse la domanda suona provocatoria o paradossale, come dovrebbe essere un fare-immagine del tutto diverso? Non lo riconosceremmo neanche? e forse esistono già altre culture animali che producono in qualche modo immagini che non siamo in grado di recepire perché distanti dalla nostra cultura visuale?
Il fatto è che noi vediamo questi animali rappresentati nelle grotte del Paleolitico, li riconosciamo, ci sembrano molto belli. Pare che Picasso dopo aver visto alcune di queste immagini abbia detto qualcosa del tipo “Qui hanno già fatto tutto”; poi lui in realtà si è messo a disegnarlo, un toro, e con dei tratti che potremmo definire paleolitici. Questo riconoscimento naïf significa, secondo la mia ipotesi, che abbiamo delle capacità cognitive che ci permettono di comprendere questa cosa, certo non possiamo pensare che vediamo tutti, da migliaia di anni, le stesse cose e alla stessa maniera, tuttavia prevale la sensazione che queste immagini in effetti ci parlino ancora ed evidentemente la capacità di leggere, di capire e di emozionarsi di fronte a queste immagini discende dalla nostra struttura cognitiva. Sicuramente ci sono state delle piccole trasformazioni Dire che la mente è sempre la stessa significherebbe negare qualunque prospettiva evoluzionista, però che esistano delle costanti cognitive selezionate durante l’evoluzione è evidente, e che essa abbia una sua stabilità e che sia in grado, per esempio, di riconoscere le forme, come ci hanno insegnato i grandi teorici della Gestalt.
Secondo me il vero guaio di qualunque approccio umanistico è il fondamentalismo ovvero pensare che le nostre interpretazioni siano l’unica possibile verità. Bisogna essere sempre molto cauti, anche nel caso di questa coerenza millenaria, però non c’è dubbio: chiunque entra – ormai purtroppo è quasi impossibile – in una di queste grotte si rende conto di essere di fronte a uno spettacolo straordinario, la “cappella Sistina della preistoria” come si diceva di Altamira. Ci ritroviamo circondati da immagini che ci raccontano delle storie, e questo è un altro capitolo importante: è evidente che l’evoluzione delle immagini è parallela all’evoluzione della nostra capacità di raccontare storie a partire dalle immagini o attraverso di esse. Credo che facendo dei passi avanti dal punto di vista cognitivo saremo in grado di capire le somiglianze ma anche eventualmente le differenze, ma è fuori discussione che Homo sapiens, per tutta la sua durata, ha prodotto immagini che sono in qualche modo riconducibili ad alcune famiglie ben chiare. Non posso immaginare che esistano immagini che non sono fatte in questa maniera, che ci possa essere un altro dall’immagine.Peraltro c’è anche in altro problema molto importante dal punto di vista antropologico. La questione non è tanto l’immagine, che è “applicato” sulla parete di una caverna o su un piccolo manufatto. La questione su cui vale la pena interrogarsi è quella che riguarda i nostri “comportamenti” al cospetto delle immagini. L’antropologia culturale negli ultimi secoli ci ha dimostrato che il nostro modo di rapportarci alle immagini è riconducibile a poche modalità. Ci sono diverse teorie, chi è strutturalista pensa che le modalità siano quattro, invece che ha ascendenze hegeliane organizza tutto in triadi. Con modalità intendo ad esempio il totemismo, il feticismo, l’animismo. Con le immagini infatti “facciamo” delle cose e ci comportiamo da sempre alla stessa maniera. Non c’è dubbio, ad esempio, che utilizziamo delle immagini come totem; lo abbiamo fatto nei tempi più remoti e continuiamo a farlo ancora oggi con oggetti che sono completamente diversi. Basta pensare a tutti i piccoli feticci che ci portiamo appresso sotto forma di immagini, nei nostri telefonini. Quindi il problema non è tanto quello di scoprire il mistero del fare immagine, ma soprattutto di interrogarsi su quello che noi esseri umani facciamo con le immagini. Tra le cose che facciamo, ad esempio, c’è il fatto che da sempre cerchiamo di animare le immagini, tanto che alla fine abbiamo inventato una cosa che si chiama cinema. E questo era già sicuramente presente nel Paleolitico. Un esempio è nella grotta di El Castillo dove il nostro antenato ha visto uno spuntone di roccia con una forma simile a quella di un bisonte, lo ha retroilluminato facendo in modo che questo spuntone/bisonte si proiettasse nella parete di fronte con un’ombra, e poi sulla parete ha disegnato le gambe dell’animale, cioè la parte che nello spuntone mancava. Ebbene, questo è un genere di cose che abbiamo fatto sempre e continuiamo a fare regolarmente. Ma pensiamo anche a “invenzioni” più complesse, come la caverna platonica. Platone si inventò questa storia e se la guardiamo dalla prospettiva di ciò che c’eraprima di Planote, ci rendiamo conto che che probabilmente non si trattò di pura invenzione ma di un’esperienza fortemente radicata negli umani: questi giochi di ombre erano una realtà consolidata nell’umanità. Invece Werner Herzog, il grande regista, quando fece il film documentario su Chauvet [Cave of forgotten Dreams, 2010] si accorse che una parete della caverna era illuminata attraverso una serie di lumini e che era possibile mettersi tra la parete e i lumini, in modo che la persona venisse investita di luce e proiettata sulla parete. Chi meglio di un regista come Herzog poteva capire che cos’è un’ombra… Insomma, i paleolitici avevano immaginato la possibilità di entrare nell’immagine attraverso una retro-illuminazione. Noi abbiamo usato questa tecnica in tutta la storia del teatro e continuiamo a usarla oggi con tecnologie raffinatissime.
In sintesi, credo che il fare immagine sia caratteristico dell’Homo sapiens, che le modalità siano relativamente simili nel corso dei millenni. La questione è che noi davanti alle immagini, come ci hanno spiegato peraltro grandi storici dell’arte come David Freedberg, abbiamo atteggiamenti di devozione, di desiderio sessuale, atteggiamenti totemistici, e via dicendo.
Nella capacità di creare oggetti che rispondono ai nostri bisogni e nello stesso tempo ci danno piacere (un’ascia bifacciale del Paleolitico, ad esempio, che unisce creatività, progettualità, estetica), noi contemporanei condividiamo con i preistorici anche una vanità simile?
Anche pensando al fatto che ogni immagine è una proiezione del Sé, per cui godere dell’opera significa godere di sé.
La parola vanità certamente è giusta ma alcuni archeologi, in particolare gli scopritori delle prime ornamentazioni a Blombos in Sudafrica – tra cui Francesco D’Errico – ci hanno detto che da quello che i nostri antenati hanno fatto 70.000 anni fa (collane di conchiglie, disegni con l’ocra), quindi 30.000 anni prima di Lascaux, si deduce l’inizio di una forma di differenziazione sociale. possiede una collana è un individuo consapevole di se stesso e del fatto di differenziarsi dagli altri. Quindi questa “vanità” ha una valenza sociale potentissima. È un modo di affermare una differenza sociale ma soprattutto, cosa più importante dal punto di vista teorico, l’unicità del Sé. Naturalmente questo significa la nascita della coscienza. È un tema delicato, tra l’altro non dimentichiamoci che noi non ritroviamo quasi nulla di quello che era il mondo dell’ornamento e della decorazione che nasce quasi sicuramente dai tatuaggi e dalle pitture sul corpo (che, per inciso, continuiamo a fare ancora oggi). Gli scopritori degli ornamenti di Blombos, Francesco D’Errico e Christopfer Henshilwood, correttamente li interpretano come forme di affermazione del sé, che non è cosa da poco calcolando, ripeto, che siamo intorno ai 70.000 anni fa. Peraltro questo gioco all’indietro ci dimostra che forse dobbiamo ipotizzare una continuità non solo per Homo Sapiens ma anche tra Sapiens e gli altri ominidi perchè quando parliamo di 500.000 anni fa non abbiamo a che fare con Homo Sapiens ma con HomoEergaster, ad esempio, per cui la “Venere” di Berekhat Ram che si trova al museo di Gerusalemme è stata fatta da un ominide ancora lontanissimo dai Sapiens europei. Forse dobbiamo riconsiderare seriamente la continuità tra animale e umano. È evidente che non ci sono scimmie che scrivono la Divina Commedia però che, per esempio, si servano di strumenti in maniera rudimentale e sappiao che alcuni uccelli sanno trasmettere delle “tradizioni di canto” ai loro “discendenti”. Quindi il discorso sulla continuità tra animali ed umani va riconsiderato e per altro ci permettere di comprendere meglio il nostro ruolo sul pianeta e, come ho già detto, di ridurre il nostro antropocentrismo trionfalistico.
Prima accennava alla connessione tra l’origine del fare immagine e la dimensione narrativa (già prima dello sviluppo del linguaggio). Ma in tutto questo c’è anche un’idea del tempo? Della memoria, intesa come modalità di comunicazione con il futuro. Secondo lei, cioè, gli uomini e le donne del Paleolitico avevano il pensiero che quelle immagini sarebbero sopravvissute a loro?
Assolutamente sì. Peraltro ciò che è non sopravvissuto probabilmente è altrettanto importante: penso ai rituali, alle performance che dovevano svolgersi in queste grotte: ricordiamoci che già solo per raggiungere questi luoghi spesso bisognava fare una fatica non irrilevante e rischiare la pelle. Sappiamo che andavano in gruppo, anche con bambini, c’era tutta una costruzione sociale di avvicinamento a queste immagini. Poi c’erano sicuramente delle storie, alcune strutturazioni narrative o micro-narrazioni sono evidenti. Quindi aspetti performativi, teatrali, recite, canti, tutte cose di cui non ci resta quasi nulla! Ora si comincia a studiare in maniera molto seria l’aspetto sonoro delle caverne, cioè il fatto che le caverne producono dei suoni, amplificano e riducono i suoni. Tutto questo era compreso da chi le frequentava. Le impronte ritrovate dimostrano che ci si muoveva davanti a queste immagini. Nell’insieme si doveva trattare di esperienze che definiremmo multisensoriali. Naturalmente noi oggi vediamo soltanto le immagini.
Ma per tornare alla domanda, non c’è dubbio che queste cose duravano, erano una raffigurazione che aveva senso proprio nel momento in cui il Sé si stabilizza e anche il fatto di scendere in una caverna al buio piena di insidie non doveva essere una esperienza semplice che chiunque a cuor leggero poteva fare. C’era probabilmente una forte auto-consapevolezza che comprendeva anche il desiderio di fare memoria di se stessi, di raccontare di essere esistiti, di potersi proiettare oltre i propri limiti temporali, oltre la morte.
Purtroppo nulla sappiamo dei meccanismi transgenerazionali. In alcuni casi queste caverne sono state utilizzate per 25.000 anni, e quindi è chiaro che c’è stata una trasmissione, qualcuno che ha raccontato della caverna a un altro. In questi casi la trasmissione intergenerazionale è inevitabile e questo significa la costruzione di una memoria.
Uno straordinario storico dell’arte, oggi quasi dimenticato, Max Raphael, un ebreo tedesco che fuggì negli Stati Uniti e scrisse a New York un libro, Prehistoric Cave Painting, ipotizzò per primo che quello che era stato dipinto ad esempio ad Altamira era la rappresentazione di una guerra fra clan. Raphael parlò di una “Iliade della preistoria”. Detto così naturalmente fa storcere subito il naso agli archeologi, ai paleontologi e persino ai letterati. Resta il fatto che l’idea che questi tori rappresentassero una guerra fra i clan, quindi siano una memoria storica a tutti gli effetti, è una idea affascinante che poi ha stimolato delle riflessioni molto serie e ci ha fatto capire che le immagini nelle caverne non sono casualmente disposte sulle pareti. Saranno poi Annette Laming-Emperaire e André Leroi-Gourhan a capire che le immagini delle cavere hanno una relazione tra di esse, sono cioè “strutturate” secondo regole condivise. C’è un intreccio, una storia che organizzale immagini. Se ci troviamo di fronte a una “Iliade della preistoria”, si tratta con ogni evidenza di modi per fare memoria, per raccontare chi siamo, cos’è un gruppo e anche cos’è un individuo.
Nel Paleolitico immagina una distanza tra “artisti” e “pubblico”, per quanto questi termini siano ovviamente inappropriati?
La domanda è una proiezione moderna di ciò che noi sappiamo su epoche e sistemi sociali del tutto diversi. Però una cosa bisogna dirla: ricordiamoci che per dipingere quelle immagini bisognava avere delle capacità manuali straordinarie. La reazione di Picasso di fronte alle pitture, pensare che lì ci sia già tutto quello che è stato fatto poi nell’arte, è indicativa.
Quindi a questa domanda tutti risponderebbero: no, la figura dell’artista è un’altra cosa. Ma che ci siano dei soggetti che avevano delle capacità che altri non avevano è fuori discussione. Magari non si chiamavano artisti e neanche artigiani come nell’antica Grecia. E forse, come sostengono i sociologi che si occupano di questo tipo di culture, si deve immaginare una differenzazione di ruoli, per cui alcuni andavano a caccia e altri stavano a casa a dipingere; questo presupporrebbe però una economia che consentiva a un’artista di non “lavorare”.
Dietro le capacità di chi ha fatto queste pitture ci sono probabilmente lunghe fasi di prove ed errori, lo dimostra il fatto che ad esempio molte disegni sono stati re-incisi e ripassati in mille modi e questo ci induce a pensare che non dobbiamo immaginare un’opera d’arte, come facciamo noi oggi, in termini di unicità. Pensiamo per esempio alle immagini dei cosiddetti aborigeni australiani, che hanno ridipinto i loro disegni per decine di migliaia di anni e continuano a farlo ancora oggi. È un atteggiamento nei confronti dell’arte profondamente diverso dal nostro fondato su categorie come l’originalità, la non-riproducibilità, l’unicità, il genio individuale.
Il primo capitolo parla delle incisioni della grotta dell’Addaura, presso monte Pellegrino vicino a Palermo. Si tratta di incisioni sviluppate su tre pareti di una grotta, con molte figure antropomorfe, un unicum nel Paleolitico. Inoltre, si tratta di rappresentazioni raffinate, realistiche ad esempio nella resa della musculatura. Sono state realizzate in una fase che ci appare di svolta, sul finire del Paleolitico (tra Epigravettiano finale e Mesolitico): ci si smarca dalle raffigurazioni animali e si approda a una nuova estetica della figura umana. È l’inizio di un “nuovo umanesimo”, lei scrive. Come è stato possibile? È una svolta biologica, neurologica, arrivata d’improvviso, o ci sono delle cause?

Incisioni dalla Grotta dell’Addaura, Mondello (PA). Fonte preistoriainialia.it (ph. S. Vassallo, R. M. Cucco, 2015)
Le risposte possono essere molteplici. La prima, più naïf, è di carattere sociologico: è chiaro che si arriva a forme di diversificazione sociali tali da indurre queste popolazioni primitive a distinguere sempre più il lavoro umano in vari livelli: per esempio all’Addaura ci sono questi due giovinetti al centro della rappresentazione poi tutta una teoria di figure attorno che performa un rituale, quindi c’è già una distinzione, forse in quel caso tra chi doveva essere ancora iniziato (i due giovani) e quelli che invece erano già stati iniziati. Così come c’è una figura, tra le più belle forse della preistoria, di un cervo accompagnato da un uomo con un bastone in mano, forse un pastore.
Quindi la prima risposta è relativa alla differenzazione sociale, tema con il quale torniamo al discorso di prima sulla costituzione del Sé. Poi, certo, qui tocchiamo uno degli argomenti più cruciali: tutta la grande figurazione del Paleolitico superiore trascura l’uomo. La figura umana è quasi del tutto assente, a volte rappresentata in piccoli disegni rudimentali, , quasi caricaturali che accentuano nasi, occhi, arti. Nella raffigurazione animale, invece, il Paleolitico arriva a una perfezione assoluta, per tornare al discorso di Picasso. Successivamente, le cose sono evidentemente cambiate.
Ci viene in aiuto una figura come George Bataille il quel sostenne che gradualmente prende corpo una distinzione degli umani dall’animalità. Questa è la nostra tragedia: oggi cerchiamo di riscoprire in letteratura e nell’arte, proprio il nostro contatto e rapporto con l’animale. L’emergere della raffigurazione umana determina una centralità antropocentrica nella quale un filosofo come Bataille vedeva il distacco dall’animalità che era stata centrale per decine di migliaia di anni in un contesto dove evidentemente l’uomo si percepiva come una parte degli animali. Evidentemente a un certo punto qualcosa si rompe. Dire “nuovo umanesimo” è poco più di una battuta. Però certamente il focus dell’Addaura è l’uomo. Siamo in un’epoca in cui la percezione del Sé è molto più matura. Le capacità tecniche fanno sì che l’uomo si distingua sempre di più dall’animale, nel senso che egli capisce che può, attraverso l’uso di strumenti, essere meno a rischio della vita.
Ci tengo però a dire che ho usato la grotta dell’Addaura anche come plot narrativo per sottolineare il fatto che noi al cospetto di queste immagini proviamo delle emozioni estremamente forti. Questo è successo a tutti quelli che hanno scoperto le grotte principali ma è successo anche a me, si parva licet. Quando vidi per la prima volta queste immagini fu una rivelazione – stiamo parlando degli anni Settanta-Ottanta, quando ancora non c’erano tutte le riproduzioni fotografiche e digitali che ci sono adesso – perché si trattava di rappresentazione completamente diverse da quelle conosciute. Al di là delle riflessioni più scientifiche, il fatto è che chiunque entri lì dentro e si metta di fronte a questi disegni non può restare insensibile a quello che vede, tanto che l’Addaura è un piccolo anfratto, una grotta “prêt-à-porter”. La frequentazione di questa grotta poteva essere quotidiana, non si trattava di scendere per decine di metri al buio. E nonostante tutte le modifiche intercorse successivamente, che hanno determinato il cambiamento del piano di camminamento e quindi l’altezza alla quale si vedono le immagini, ancora oggi se entriamo lì dentro subiamo uno shok visivo. Veniamo risucchiati in questa performance e ci chiediamo chi siano questi due ragazzini che volano, se delle vittime o degli iniziati. Aggiungo il fatto che, come ha dimostrato la letteratura scientifica, vi compare anche un’idea di proiezione assonometrica. Non vediamo una teoria degli animali, disposti uno accanto all’altro: nell’’Addaura è rappresentato lo spazio, quasi una prospettiva. Anche pensando a questo, ho parlato di “nuovo umanesimo”.
Riguardo all’aspetto emozionale della vista delle pitture, ho trovato molto interessante la sua osservazione che quasi tutti gli studi sull’arte del Paleolitico partono sempre raccontando esperienze personali, quindi dalla propria reazione di fronte alla visione delle pitture. Scrive che la vista diretta delle immagini è necessaria per sperimentare l’ambiente, la posizione dell’osservatore, la consistenza materica delle pitture; una esperienza emotiva e cognitiva nello stesso tempo. Come sappiamo, però, è un’esperienza che pochissime persone al mondo oggi possono fare; quasi tutte le grotte sono chiuse al pubblico per ragioni conservative e si possono visitare soltanto delle repliche (Altamira, Chauvet, Lascaux, ecc).
Cosa pensa di queste repliche?
Penso che le repliche abbiano due funzioni: la prima, di permettere un minimo di fruizione a un pubblico vasto e quindi anche far acquisire la consapevolezza dell’importanza di tutelare questi luoghi. Tra parentesi, continuo a lamentare, come già facevo insieme al mio compianto amico archeologo Sebastiano Tusa, il fatto che un posto come l’Addaura sia chiuso al pubblico e non abbiamo un museo dedicato.
La seconda funzione, ancora più importante, è che attraverso queste riproduzioni comprendiamo un sacco di cose su come venivano dipinte e prodotte queste immagini. Quindi la replica ha senso anche da un punto di vista scientifico. In futuro con meccanismi di realtà virtuale sempre più raffinati potremo simulare di camminare dentro questi spazi, ma non ci sarà nessuna tecnologia in grado di riprodurre fino in fondo tutte le stimolazioni sensoriali che si hanno in una caverna vera. Chiunque abbia fatto l’esperienza di entrare in una di quelle ancora visitabili (ad esempio in Francia a Les Eyzies) sa benissimo che bisogna mettere in conto il freddo, l’umidità, la posizione, la dimensione claustrofobica, la sonorità, il buio e di conseguenza la luce. Sicuramente quella delle grotte era un’esperienza multisensoriale. Oggi nelle repliche possiamo vedere le immagini, forse toccarle, ma negli spazi originali l’esperienza era ben più complessa, aveva una dimensione di embodiment incredibilmente più potente. Quindi ben vengano le riproduzioni perchè ci spiegano tante cose, ma sicuramente non tutto. Hanno una funzione educativa, ci permettono di renderci conto della profondità immemoriale del tempo e del nostro essere Sapiens.
Attenzione però: molte grotte giustamente non sono visitabili per motivi di conservazione, ma l’arte rupestre è sparpagliata in tutto il pianeta. Ci sono centinaia di luoghi in cui fare un’esperienza molto vicina a quella dei nostri antenati paleolitici, penso alla rock art, ai petroglifi che si trovano ad esempio negli Stati Uniti, nell’America del sud, in Australia, in ambienti ancora molto simili a quelli dei nostri antenati.
Secondo André Leroi-Gourhan le prime “collezioni” di reperti, scoperte in livelli post-musteriani nella grotta di Arcy-sur-Cure, composte da oggetti curiosi (tra cui alcuni fossili) selezionati e messi da parte da quelle genti preistoriche, sono il primo segno di una coscienza estetica.
Lei cita un esempio ben più antico di possibile ‘coscienza estetica’, ovvero un ciottolo di diaspro ritrovato a Makapansgat in Sudafrica, attribuito a tre milioni di anni fa, a un Australopithecus Africanus: un ciottolo naturale ma dalle forme particolari che ricordano un volto umano. Quindi saremmo di fronte a un ominide che ancora non produceva arte ma sapeva in qualche modo riconoscerla e ne sentiva il bisogno, se questo ciottolo se lo portava con sé.
L’idea di fare arte, l’aspirazione all’arte, parte da uno sguardo? Dall’accorgersi e dal guardare in modo diverso quello che ci sta intorno?
Beh, questo è dimostrato non soltanto dal ciottolo di Makapansgat. Non c’è dubbio che quel ciottolo sia stato preso e trasportato per moltissimi chilometri, e quindi sia il segno di una esperienza di riconoscimento che oggi chiamiamo estetica. È probabile che questo volto riconoscibile nel ciottolo fosse interpretabile sulla base di una esigenza forse religiosa, alla stregua di un interlocutore, o un Dio.
Una cosa è sicura: siamo in grado di riconoscere i volti anche quando volti non sono, e in quel caso il nostro antenato ha riconosciuto un volto umano, il che la dice lunga sul fatto che l’esperienza estetica ha molti aspetti: da un lato c’è la ricezione, la capacità di riconoscere alcune “cose belle” e questo vale per il ciottolo ma anche per i paesaggi naturali. Poi c’è l’aspetto della produzione in termini moderni, ovvero quando produciamo un oggetto con delle finalità di tipo estetico; ma c’è anche, come al solito, una questione di comportamenti che sono sempre gli stessi. Perché il nostro antenato ha preso questo ciottolo e l’ha portato con sè? Qual è il significato del gesto?
Tutta la psicologia delle prime fasi di vita ci dimostra che il volto umano è qualcosa che fa la differenza nella percezione di un infante che è capace di riconoscere soprattutto il volto della madre, e questa abilità fa parte della nostra costituzione genetica. Ma al di là di questo, chi ha preso quel ciottolo probabilmente vi ha proiettato dei significati che potrebbero essere stati sociali, religiosi o anche semplicemente di gioco. La dimensione del gioco è tutt’altro che secondaria nella nascita dell’estetica, così come quella ripetizione: portando quel ciottolo con sé, quella “persona” ha potuto ripetere più volte l’esperienza del riconoscimento di un volto.
L’esperienza estetica crea una continuità tra l’animale e l’uomo. La capacità di riconoscere un volto, ad esempio, è propria anche degli animali. Gli animali riconoscono, attraverso la simmetria degli occhi un potenziale predatore o al contrario un amico. La simmetria ha a che fare con la storia dell’ornamento ma anche con il nostro percorso evolutivo: se vedo due occhi colgo non solo la simmetria ma anche la possibilità di difendermi da un potenziale nemico. Quindi quel riconoscimento ha delle valenze importantissime; riconoscere un volto ci ha aiutato a sopravvivere, a conoscere i nostri simili e forse anche a conservarne la memoria.
Andrea Tagliapietra (La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica dell’immagine, Donzelli Editore, 2023) ha scritto che la prima immagine in assoluto è stata il riflesso di qualcosa o qualcuno nell’acqua, dove quello che conta “non è il riconoscimento di chi o di cosa si riflette nello specchio, bensì la raggiunta consapevolezza che quella che stavamo guardando è, in effetti, un’immagine”.Lo specchio è un manufatto ambiguo, in quanto nello stesso tempo “cosa” e immagine. Ci fa vedere oltre la portata del nostro sguardo e in primo luogo noi stessi: una esperienza formativa e identitaria in qualche modo ingannevole (nello specchio c’è un riflesso della realtà e non la realtà in sé) ma anche strumento di conoscenza.
È d’accordo sul fatto che il riflesso di sé possa essere stata la prima immagine?
Certamente il tema del riflesso entra nella questione dell’idea del Sé. Sulla scoperta del Sé c’è tutta una mitologia che insiste su questi temi (basti pensare a Narciso). Sul fatto che questa possa essere l’esclusiva nascita dell’immagine ho i miei dubbi, per il semplice fatto, di carattere etico piuttosto che estetico, che non credo alle origini e alle spiegazioni uniche. Sono incline a pensare che qualunque fenomeno sia il prodotto di progressioni evolutive molto complesse, di avvicinamenti, errori, prove, durati migliaia e migliaia di anni.
La nascita delle immagini potrebbe essere vista nel riconoscimento del ciottolo di Makapansgat che è, in fondo, una forma di rispecchiamento. Perché evidentemente se so chi è l’altro, forse allora so anche chi sono io e magari mi sono già visto per esempio riflesso nell’acqua. Però cosa viene prima? Il riconoscimento del volto umano, che comunque fa parte dell’esperienza di un qualunque neonato, o il fatto di affacciarsi su una superficie riflettente, o di trovare una pietra che ricorda le sembianze dei miei compagni? Probabilmente si tratta di tutte queste cose messe insieme e verificate per migliaia di anni. Verosimilmente il primo individuo che si è rispecchiato non ha neppure capito di che si trattava e forse si sarà spaventato, non riconoscendosi affatto.
Dobbiamo anche tenere in conto l’elemento della casualità. L’idea che tutto abbia una causa è ingannevole; alcune cose succedono per caso eppure possono cambiare il nostro modo di vedere e di comportarci. Pensiamo ad esempio a un altro evento fondamentale, l’essere diventati bipedi: quanti passaggi di migliaia e migliaia di anni ci saranno voluti?
Nel mondo contemporaneo il digitale ha una valenza e una pervasività sempre maggiori ma le immagini digitali hanno pur sempre ancora bisogno di un supporto materiale per essere prodotte (uno schermo, gli occhiali per il tridimensionale, una pellicola per le immagini oleografiche, …). Quindi c’è un supporto mediale come prima c’erano i dispositivi ottici e prima ancora le pareti delle caverne, i frammenti di osso e avorio sui quali incidere raffigurazioni, ecc.
Secondo lei il digitale sta cambiando il nostro modo di fare immagini o non si tratta di una svolta così importante?
La mia risposta, un po’ polemica, è che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Non tanto perché pensi che nel contemporaneo non troveremo nuovi modi di fare immagine, li troveremo e saranno sempre più virtuali e complicati. Però se spostiamo l’attenzione verso i nostri comportamenti e approcci nei confronti delle immagini, credo che lì invece ci sia una stabilità notevole che ancora stentiamo a decifrare. Perché, ad esempio, baciamo una immagine? Perché un’immagine in qualche modo ci chiama, ci coinvolge, sembra avere una agency che ci induce a fare determinate cose? Se riflettiamo su queste cose forse andiamo un po’ più avanti rispetto alle magnifiche sorti e progressive della tecnologia. Le immagini, come ci hanno insegnato i grandi della cultura visuale (W.J.Y. Mitchell, David Freedberg, Alfred Gell) alla fine ci fanno fare sempre le stesse cose. Quindi, per quanto mi renda conto che le tecnologie facciano la differenza, sposterei sempre il discorso dalla parte della ricezione; anche con l’intelligenza artificiale facciamo in modo che si producano immagini con le quali abbiamo delle relazioni fin troppo scoperte, evidenti e “primitive”.
Nel libro ribadisce spesso che non dobbiamo andare alla ricerca del significato, della spiegazione, quantomeno ribadisce che lei non intende farlo. Mi ha fatto venire in mente il famoso saggio di Susan Sontag, Contro l’interpretazione (1964), dove Sontag si pone contro l’interpretazione dell’arte, e dice che bisogna ritornare a sperimentare un’opera dal punto di vista sensoriale (e questo mi fa pensare alle descrizioni delle visite nelle grotte paleolotiche). Ci hanno insegnato che il contenuto è prioritario sulla forma, e ci aspettiamo sempre che l’opera d’arte dica qualcosa; davanti a un quadro o a una installazione artistica ci scervelliamo alla ricerca del vero significato, dando per scontato che voglia dire qualcosa. Mentre la moralità dell’arte, dice Sontag, sta nel fatto che risveglia la nostra sensibilità: l’esperienza estetica è una risposta morale alla vita.
E poi scrive: “Nessuno di noi potrà mai ritrovare quell’età dell’innocenza anteriore a ogni teoria, in cui l’arte non aveva alcun bisogno di giustificarsi, né ci si chiedeva cosa dicesse un’opera d’arte, perché si sapeva (o si credeva di sapere) cosa facesse.”
Crede che sia impossibile tornare a quello sguardo innocente?
Non credo che ci siano sguardi innocenti. Gli sguardi sono costruiti, hanno una dimensione storica, una memoria visiva. Se uno studia il Paleolitico per raggiungere la verità sulle immagini piuttosto che su qualunque altra cosa, è sicuramente sulla strada sbagliata. Il Paleolitico, lo ribadisco, ci serve soprattutto a smontare le nostre sicurezze estetologiche, etiche, sociali, politiche; a ridurre le nostre pretese antropocentriche, eurocentriche e anche generocentriche. Pensiamo per esempio a tutta la tradizione delle interpretazioni delle statuine femminili, le c.d. Veneri; giustamente la cosiddetta Gender Archeology (Margaret Conkey in testa) ha fatto un lavoro di decostruzione dello sguardo maschile su questi manufatti: è stato detto che non potevano che essere donne incinte o comunque collegate al tema della fertilità, addirittura ci sono stati degli archeologi che hanno parlato di Paleo Porn, cioè hanno ipotizzato che le statuine avessero delle finalità sessuali. Oggi abbiamo capito che questi oggetti potevano avere moltissime altre funzioni, anche se alcune di esse continueranno a rimanere un enigma. Un grandissimo studioso delle figurine soprattutto neolitiche, Douglass W. Bailey, sostiene che questi artefatti siano degli “strumenti” filosofici, che ci permettono di riflettere sul Sè, sull’ornamento, sul nostro stare nel mondo.
Penso che il mio libro, se ha un senso, sia quello di dire: sappiamo tante cose, abbiamo inventato l’estetica, la storia dell’arte, ma ogni tanto lo sguardo in una dimensione immemoriale ci permette di ridurre il nostro superomismo filosofico e ci fa intuire quanto sia limitante interpretare tutto a partire solo dalle ultime fasi della storia evolutiva di Homo Sapiens.
Riconsiderare, come stanno facendo tanti filosofi, il tema dell’animalità, cioè il fatto che viviamo in un contesto dove siamo soltanto uno dei tanti animali sulla Terra e neanche il più forte, probabilmente neanche il più furbo, al massimo il più colto, ha anche una valenza etica perché ci aiuta a comportarci nella società reale e politica. Iscriverei questo libro in una logica di riduzione delle nostre presunzioni.
L’accenno a Sontag mi permette di farle una domanda un po’ divagante, ma fino a un certo punto: Sontag ha scritto molto di “cultura visuale” e del rapporto tra metafora (nella quale rientra la produzione di immagini) e la realtà (basta pensare al suo saggio sulla fotografia).
Ho ascoltato una sua conferenza in cui ha analizzato due saggi di Sontag, La malattia come metafora e Davanti al dolore degli altri. Nel secondo, in particolare, Sontag si chiede come dobbiamo porci di fronte a immagini di morte, di dolore; osserva che è impossibile districare tra compassione (uno sguardo buono, ben intenzionato, positivo) e voyeurismo (uno sguardo perverso). Lei conclude quella conferenza con un giudizio negativo su Annie Leibowitz, la famosa fotografa che fu compagna di Sontag e che pubblicò poco dopo la morte della scrittrice americana un libro di fotografie (A Photographer’s Life 1990-2005) nel quale comparivano anche diverse immagini di Sontag malata nel letto di ospedale, e poi morta. Dice che Sontag forse non avrebbe apprezzato. Personalmente più che le foto in ospedale o sul letto di morte, trovo impietose certe altre foto di Sontag ancora viva e non malata, distesa sul divano, trasandata e poco curata. Mi riesce difficile pensare che Sontag non immaginasse che Leibowitz prima o poi avrebbe pubblicato tutte le foto che le scattava. Pare che anche la celebre foto di Demi Moore nuda e incinta di sette mesi, scattata da Leibowitz e che fu una copertina di Vanity Fair nel 1991, fosse uno scatto nato come privato.
Tutto questo vale come spunto per chiederle: come si fa a ripulire la nostra visuale dalle immagini? A decidere che qualcosa non si deve mostrare, non si deve vedere. Nei nostri comportamenti al cospetto delle immagini, e nelle possibilità di diffusione e riproduzione delle stesse (possibilità che non c’erano nel Paleolitico), non c’è in fondo una forma di impertinenza, di patto con il diavolo, che rende le immagini inarrestabili? – e questo, in fondo, pure, ci è necessario, come il fare-immagine in sé.
Il punto è che noi abbiamo un serio problema con le immagini. Abbiamo delle forme di comportamento fobiche, ad esempio, come ci ha insegnato Aby Warburg già all’inizio del secolo scorso. Certe immagini hanno su di noi una presa che ci mette seriamente in questione. Probabilmente questo è anche il loro fascino ed è il motivo per cui continuiamo a cercare l’origine dell’immagine. Ma scendendo da questa astrazione e andando sul piano dell’uso delle immagini, e dell’uso eventualmente immorale, proprio Susan Sontag, che considero la più importante filosofa del Novecento oltre che teorica della letteratura, ci ha spiegato che dobbiamo prendere delle decisioni di fronte alle immagini perché esse spesso ci inducono a comportamenti dissacranti. Come racconta in quel libro meraviglioso sul dolore degli altri, godiamo di certe immagini perché siamo fatti costitutivamente così, ci saziamo del dolore degli altri, usiamo impropriamente le immagini. La decisione che dobbiamo prendere è quindi di carattere morale.
Ho insistito sul fatto che non avrebbe accettato quelle ultime immagini – è vero che ce ne sono di peggiori, rispetto ad esempio a quella dove appena si intravede il suo corpo su una barella mentre viene caricata su un aereo – perché se si segue la storia della malattia di Sontag, si capisce che lei non si è mai rassegnata a questa sofferenza e alla distruzione della sua umanità. Quindi credo che non avrebbe santificato in alcun modo questi ultimi momenti della sua vita, come ha fatto Leibowitz trasformandola in una sorta di icona del dolore. Sontag odiava la malattia, l’ha sempre combattuta, disprezzata, considerata un animale dentro se stessa che non poteva controllare. Per questo non riesco a immaginare, soprattutto dopo l’ultima fase che è stata particolarmente dolorosa e durante la quale è rimasta per gran parte cosciente, che potesse avere cambiato idea. Mi sono fatto questa convinzione leggendola attentamente, rigo per rigo, leggendo anche tutti i diari. Non riesco a pensare che avrebbe potuto avere un atteggiamento estetico o religioso o devozionale nei confronti di queste fotografie.
Poi è chiaro che, nella dinamiche relazionali, accadano cose imperscrutabili. Le foto più impudiche di lei dentro il bagno scattate dalla Leibowitz sono anche atti d’amore reciproci, sono cose che uno fa o si lascia fare magari per amore o senza rendersi conto fino in fondo delle implicazioni. Però studiando approfonditamente la teoria dell’immagine di Sontag e i suoi pensieri sulla malattia, è evidente che lei non indulge mai in un atteggiamento teistico, per non dire cattolico romano, di compiacimento per le sublimazioni artistiche di queste esperienze. In Davanti al dolore degli altri non c’è neanche un minimo compiacimento estetico. A maggior ragione considera intollerabile, insopportabile, la malattia, nella quale non c’è redenzione o trasfigurazione possibile. Anche nei momenti più bui e sofferenti esprime astio nei confronti della malattia. Leibowitz invece ha santificato la malattia, l’ha trasfigurata esteticamente: l’estetica (pittura, fotografia) fa questo, basti pensare a quanti crocifissi abbiamo nella storia dell’arte. È una sorta di tentativo di compensazione, di addolcire la pillola attraverso pillole altrettanto velenose, che poi è l’atteggiamento tipico dell’arte cristiana e forse dell’arte in toto. Attraverso l’arte noi riusciamo a sopportare il tragico, il male. In questo periodo sto lavorando su un tema affine: il rapporto tra ansia e letteratura, il fatto che la letteratura possa essere un calmiere dell’ansia nonostante attivi le ansie (si pensi a Kafka).
Ritornando a Paleoestetica, come lettrice ho sentito la mancanza di un capitolo di conclusione, di sintesi. Come mai non l’ha scritto?
Non l’ho scritto perché le cose che ho detto sono dei primi tentativi di spiegazione di che cosa è un ibrido, che cosa è uno schermo, cosa è una miniatura. Mi sarebbe sembrato un atto un po’ presuntuoso arrivare a una conclusione. Nel libro ci sono due movimenti principali. Il primo è relativo alla necessità di affrontare questi temi dal punto di vista cognitivo e non da quello dei significati storico-artistici, dei miti, dei simboli. Il secondo aspetto, che spero sia compreso, è che nonostante tutto il cognitivismo, le neuroscienze e la psicologia, molte interpretazioni tradizionali, cioè quelle tipiche per esempio dell’antropologia culturale di questo secolo e molte interpretazioni “umanistiche”, sono ripensabili. Prendiamo il caso delle miniature: quello che è stato detto dai vari Lévi-Strauss, da Bachelard, da Benjamin, non è da buttare a mare ipso facto, solo perché ormai siamo nell’era delle scienze cognitive. In realtà molti di questi ragionamenti preparavano in qualche modo a riflessioni di tipo cognitivo. Quando Walter Benjamin scrive che i giocattoli danno all’uomo la sensazione di poter dominare il mondo e di poterlo disporre a suo piacimento, sta esprimendo un pensiero di tipo cognitivo, anche se ovviamente non utilizza questo termine. Ci dice che il nostro piacere deriva dal fatto che ci illudiamo di potere controllare ciò che in realtà non controlliamo mai. Non possiamo controllare il traffico di una città ma possiamo gestire le miniature delle macchinine, uno scenario tipico del gioco dei bambini. Questa è una cosa che, scrivendo il libro, tenevo molto a dire: gli studi che sono venuti prima, ad esempio anche la psicologia tradizionale di Winnicott, non sono cani morti della riflessione teorica ma pensieri che possono essere riattivati, ovviamente in direzione delle scienze cognitive.
Una conclusione vera e propria sarebbe stata un atto di hybris. Preferisco lasciare la questione aperta, sarà qualcun altro ad arrivare a una sintesi.
MICHELE COMETA (Palermo,1959) ha studiato germanistica e filosofia nelle Università di Palermo e di Colonia. Ha insegnato nelle Università di Düsseldorf, Catania, Cosenza e Cagliari e attualmente insegna Studi culturali e Cultura Visuale nell’Università degli Studi di Palermo. Ha scritto numerosi libri sulla cultura tedesca ed europea dal diciottesimo al ventesimo secolo, e sulla cultura visuale. Nell’ottobre 2024 è uscito Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale (Raffaello Cortina Editore, Milano).