
Ancora prima dei recenti attacchi da parte dell’amministrazione Trump, in un’era in cui il potere è sempre più definito dalle infrastrutture digitali e dall’egemonia delle piattaforme, la USAID stava da tempo perdendo rilevanza agli occhi dei giganti tecnologici che determinano l’influenza degli Stati Uniti all’estero.
Martedì 5 febbraio 2025, la seconda amministrazione Trump ha annunciato lo smantellamento dell’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti (USAID), lasciando quasi tutti i suoi dipendenti senza lavoro. La reazione della sinistra liberale è stata immediata: ci sono stati oltraggio e moniti sulla sofferenza che la precipitosa dissoluzione di numerosi progetti umanitari avrebbe causato. Questo arresto improvviso procurerà effettivamente enormi ed estese sofferenze a milioni di persone. I progetti finanziati dalla USAID, che fossero all’insegna dell’aiuto umanitario o della cooperazione allo sviluppo, hanno generato dipendenze da cui sarà molto difficile liberarsi – e certamente impossibile da fare da un giorno all’altro.
Oltre alla comprensibile indignazione rispetto all’ovvio impatto umanitario, sono sorte critiche per cui la dissoluzione della USAID accelererebbe il declino degli USA sul piano globale, diminuendone l’influenza nello scenario internazionale e concedendo ancora più potere alla Cina. Durante la prima amministrazione Trump, le strutture per gli affari esteri tradizionali sono rimaste inorridite dall’approccio erratico del Presidente alle questioni internazionali – il suo sdegno esplicito per la NATO, lo scetticismo rispetto ad alleanze consolidate, e l’apparente disinteresse nel salvaguardare le macchinazioni sottili del soft power statunitense. Ora, nella sua seconda amministrazione, una delle prime istituzioni ad essere abbattute è stata la USAID, un ente che ha a lungo mantenuto un ruolo integrale come parte della macchina istituzionale.
E se la USAID fosse diventata progressivamente superflua, a causa del passaggio dall’imperialismo dello sviluppo a quello digitale?
L’era dell’imperialismo dello sviluppo
Si può meglio comprendere il ruolo della USAID nella seconda metà del ventesimo secolo all’interno del quadro geopolitico globale inserendolo nel contesto di ciò che lo studioso dello sviluppo Wolfgang Sachs ha chiamato “Era dello Sviluppo”. Come spiega Sundhya Pahuja nel suo rivoluzionario volume Decolonizzare la Legge Internazionale, questo periodo ha visto un rebranding delle potenze occidentali che, guidate dagli Stati Uniti, hanno ribattezzato le loro ambizioni imperialiste all’insegna della modernizzazione economica, l’assistenza tecnologica, e l’interventismo umanitario. Al posto del diretto potere coloniale, il controllo sul Sud Globale è stato mantenuto attraverso la dipendenza dal debito (con istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale), programmi di adattamento strutturale, e l’istituzione degli aiuti esteri come meccanismo per plasmare il governo dei paesi riceventi.
Per decenni, la USAID è stata il braccio del soft power per l’imperialismo americano, nascondendosi dietro al linguaggio degli aiuti umanitari e dello sviluppo. Dalla sua fondazione nel 1961, durante il governo di John F. Kennedy, ha svolto un ruolo cruciale nell’avanzamento degli interessi geopolitici degli Stati Uniti, con il pretesto di favorire la democrazia, alleviare la povertà, e promuovere la crescita economica nel Sud Globale. Nonostante molti dei suoi dipendenti abbiano sicuramente sempre avuto le migliori intenzioni, la USAID come istituzione non ha mai avuto un fine benefico.
Ma mentre molti opinionisti sono pronti ad ammettere il fatto che il ruolo della USAID fosse di garantire gli interessi statunitensi all’estero, sostengono altrettanto fermamente la tesi che l’obiettivo finale dell’ente fosse il bene comune, e che fosse guidato dai valori che gli Stati Uniti d’America sostengono di difendere: democrazia, libertà, legalità e diritti umani. Come ha osservato Michael Schiffer nella sua recente difesa della USAID, “Gli aiuti esteri, pur essendo di carattere benefico, non sono beneficenza. Si tratta di investimenti strategici che salvaguardano i principali interessi degli Stati Uniti, riflettendone i più alti valori.” La USAID era uno strumento strategico, concepito per estendere l’influenza statunitense, allineare i governi stranieri agli interessi americani, e contrastare l’attrattiva ideologica del comunismo durante la Guerra Fredda. Alla base di questo impegno, tuttavia, ci sono sempre stati gli interessi delle imprese, anche per quanto riguarda ambiti come gli aiuti alimentari.
La USAID era un elemento chiave di questo approccio. Legava l’assistenza all’adozione di politiche neoliberali, alla privatizzazione, e all’apertura dei mercati alle multinazionali americane. Un esempio lampante di ciò è il caso di Haiti. Qui negli anni ‘80 la USAID ha promosso la liberalizzazione del commercio ed altre politiche neoliberali, portando così negli anni ‘90 al collasso della produzione locale di riso a favore dell’importazione più economica ed agevolata. Il risultato è stato devastante: Haiti è diventato dipendente dagli aiuti esteri per garantire la sicurezza alimentare di base, e il suo settore agricolo è stato sventrato per servire gli interessi del settore agroindustriale statunitense.
Non si tratta di un caso isolato – era una caratteristica insita del sistema di aiuti esteri. La USAID ha inoltre avuto un importante ruolo nel finanziamento di organizzazioni della società civile allineate con gli obiettivi internazionali degli Stati Uniti, nella costruzione di campagne mediatiche che condizionassero il dibattito politico, e nel supporto a programmi di adattamento strutturale che hanno sistematicamente smantellato i servizi pubblici a favore di uno sviluppo guidato dagli interessi delle multinazionali.
Tuttavia, nonostante la sua profonda influenza, la USAID era solo una parte della macchina più ampia dell’imperialismo dello sviluppo. Il FMI, la Banca Mondiale, e svariate agenzie delle Nazioni Unite hanno rafforzato lo stesso programma, che vuole il controllo sulle strutture economiche e di governo indissolubilmente legato agli interessi degli Stati Uniti.
Dall’Imperialismo dello Sviluppo all’Imperialismo Digitale?
La transizione dall’imperialismo dello sviluppo all’imperialismo digitale è in atto da molti anni. Entro il secondo decennio del 21esimo secolo, era già diventato chiaro come il vero terreno di scontro per l’egemonia globale non fosse più rappresentato dai tradizionali progetti di aiuto e sviluppo, ma dall’economia digitale, la governance dei dati e l’intelligenza artificiale.
La decisione di Trump di smantellare la USAID è stata in molti casi interpretata come segno della sua incompetenza, ovvero il fallimento nel comprendere l’importanza del mantenimento del soft power statunitense attraverso gli aiuti esteri. E se la chiusura della missione della USAID non fosse stata frutto di ignoranza, ma un segnale del declino dell’importanza delle istituzioni di sviluppo statali, in un mondo in cui il potere aziendale si esercita sempre più attraverso piattaforme e infrastrutture digitali?
Sin dalla sua istituzione, la USAID è sempre stata uno strumento della strategia geopolitica degli USA, profondamente intrecciata con gli interessi delle multinazionali americane. Che fosse attraverso il supporto della liberalizzazione del commercio e della finanza, o promuovendo iniziative che prioritizzassero la privatizzazione, la USAID ha consistentemente contribuito all’espansione dell’influenza delle corporazioni statunitensi, sotto la maschera della legittimità fornita dallo “sviluppo”. Dagli aiuti alimentari da cui ha tratto beneficio l’agroindustria americana, alle iniziative di inclusione finanziaria che hanno dato accesso ai mercati alle aziende fintech, i progetti portati avanti dall’Agenzia hanno sempre avuto come obiettivo il condizionamento dei mercati globali, tanto quanto l’aiuto umanitario.
In altre parole: e se fosse che, entrando in un’era di imperialismo digitale, la USAID abbia semplicemente esaurito la sua utilità come veicolo per l’avanzamento degli interessi delle principali multinazionali statunitensi nello scenario globale?
Le posizioni antigovernative e antidemocratiche delle élite tecnologiche si allineano alla perfezione con gli interessi delle loro corporazioni. Non sentono la necessità di strutture di sviluppo controllate dallo stato, essendo la loro influenza ormai indipendente. In un’era in cui il potere è sempre più definito dall’infrastruttura digitale e dal dominio delle piattaforme, la USAID sta semplicemente perdendo rilevanza agli occhi degli attori che modellano l’influenza degli Stati Uniti all’estero.
A differenza del passato, quando la rilevanza a livello internazionale era ampliata dall’assistenza finanziaria e dalle iniziative del governo, oggi i power broker controllano a livello globale i flussi di informazioni e di dati, e le infrastrutture digitali. I colossi tecnologici definiscono regolarmente l’accesso alla partecipazione economica, il dibattito politico, e le infrastrutture di sicurezza. Questo rende i modelli di sviluppo tradizionali, promossi da agenzie per lo sviluppo come la USAID, alquanto obsoleti e superflui di fronte al potere algoritmico concentrato nelle mani di poche aziende dominanti della Silicon Valley. Infatti queste hanno il controllo delle infrastrutture essenziali nell’era digitale, dal cloud computing all’intelligenza artificiale e ai network di comunicazione globali.
La scelta di smantellare la USAID non è dovuta solo ad un cambio di strategia; è un sintomo dello spostamento delle strutture di potere locali e globali, di una Casa Bianca non più oggetto delle lobby di DuPont, John Deere o Monsanto, ma della Silicon Valley.
Se “l’Era dello Sviluppo” è stata caratterizzata dai progetti portati avanti attraverso la USAID, da programmi di adeguamento strutturale e da diplomazia del debito, allora “l’Era della Digitalizzazione” è definita dall’estrazione di dati, il governo degli algoritmi, e la monopolizzazione dell’infrastruttura digitale globale da parte dei giganti tecnologici americani. Il controllo sull’informazione, sulla sorveglianza, e sulle infrastrutture digitali è diventato uno dei meccanismi chiave necessari a mantenere il potere.
Trump ha sicuramente compreso questo nell’ambito nazionale. A differenza dei politici precedenti, ha riconosciuto in anticipo il fatto che viviamo in una realtà controllata dai media, dove il controllo sulle piattaforme digitali si traduce in controllo sul dibattito pubblico. La sua alleanza con le élite tecnologiche della Silicon Valley, nonostante la sua iniziale postura a loro ostile, non è accidentale.
Gli attori principali che garantiscono il mantenimento e la riproduzione dell’imperialismo americano non sono più i diplomatici e gli operatori umanitari, ma anche i giganti tecnologici. Oggi, gli Stati Uniti esercitano sempre più influenza attraverso le architetture dell’internet, il cloud computing, l’intelligenza artificiale, e il controllo delle piattaforme digitali. Inoltre, i rapidi progressi della Cina nei campi dell’intelligenza artificiale, del cloud computing e della sorveglianza digitale rappresentano una sfida al dominio statunitense, minacciando di ridefinire le strutture di potere globali.
Questa transizione è già visibile: le infrastrutture digitali stanno diventando arene decisive per il controllo e l’egemonia. Per esempio, le infrastrutture più importanti a livello globale – i mercati finanziari, i dati governativi, e le comunicazioni militari – sono sempre più dipendenti dai servizi in cloud. E, nonostante i tre più grandi servizi basati sul cloud – Amazon Web Services (AWS), Microsoft Azure e Google Cloud – siano sotto il controllo di aziende americane, i cinesi Alibaba Cloud e Tencent Cloud stanno guadagnando terreno a livello globale.
In modo simile, social media come Facebook, Instagram e X-Twitter sono diventati canali di informazione indispensabili a livello globale, modellando il flusso di notizie, il dibattito politico, e l’opinione pubblica in gran parte del mondo. I governi nel Sud Globale non sono più in grado di garantire in modo concreto lo sviluppo di un dibattito politico e sociale libero e trasparente, senza dover fare i conti con i gatekeeper digitali della Silicon Valley. Questo perché queste piattaforme stabiliscono la visibilità di un contenuto, le regole per la moderazione, ed hanno il potere di amplificare o sopprimere narrazioni politiche. Gli algoritmi che governano le interazioni sui social media, progettati principalmente per massimizzare l’engagement e il margine di profitto, avvantaggiano in modo sproporzionato chi ha alle spalle aziende o una grande quantità di fondi, erodendo così l’autonomia dei governi del Sud Globale di controllare la disinformazione.
In alcuni casi, queste piattaforme condizionano attivamente le dinamiche politiche. Per esempio, il proprietario di uno dei social media più influenti tra quelli citati ha espresso apertamente il suo supporto per il partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD). L’ascesa di piattaforme cinesi come TikTok sta tuttavia creando sfere digitali alternative, in sfida diretta contro il dominio della Silicon Valley.
Inoltre, i sistemi di governo basati sull’IA, dal predictive policing all’automatizzazione del controllo delle frontiere, stanno diventando parte integrante del potere statale, spesso in accordo con aziende tecnologiche statunitensi, e con il supporto delle strutture governative. Questo non significa che il potere dello stato sta diventando irrilevante, ma che sta subendo trasformazioni attraverso il coinvolgimento di architetture digitali. Il controllo statale non sta scomparendo, si sta evolvendo in un modello che vede l’autorità politica venire esercitata in contesti sempre più determinati da tecnologie allineate con gli interessi delle aziende.
Pur esercitando un’enorme influenza, i colossi tecnologici operano all’interno e assieme alle istituzioni tradizionali degli Stati Uniti e del potere capitalista. L’identificazione biometrica e i programmi di inclusione finanziaria – in precedenza supportati da organizzazioni per lo sviluppo internazionale come la USAID – sono inseriti sempre più a fondo nelle infrastrutture di sorveglianza basate sull’IA, rafforzando così la rilevanza degli Stati Uniti in ambito tecnologico. Questo scenario è in rapida evoluzione, con una “corsa agli armamenti” che vede la Cina rincorrere gli Stati Uniti per quanto riguarda l’intelligenza artificiale. La recente uscita di Deepseek, acclamato come il “momento Sputnik della Cina”, ha suscitato nuovi timori dell’avanzamento cinese.
In questo paesaggio mutevole, la USAID non rappresenta più uno strumento particolarmente rilevante per l’influenza delle aziende americane. Il lavoro giornaliero necessario a mantenere l’egemonia globale si è spostato da diplomatici e operatori umanitari a quelli che Brooke Harrington ha chiamato “broligarchi”, ovvero i manager delle multinazionali tecnologiche della Silicon Valley e i venture capitalists. Le loro strategie includono lo sforzo di stabilire criptomonete e servizi monetari alternativi (per esempio la “Paypal Mafia”, che ha radici nell’apartheid sudafricano); la costruzione di infrastrutture civili private come le “startup cities”, libere dai vincoli e dalle limitazioni del governo democratico; fino ad avere ruoli decisivi in vere e proprie guerre, come è stato per Starlink di Elon Musk nel conflitto Russia-Ucraina.
L’Impero delle Aziende continua a marciare senza la USAID
L’aspetto forse più nauseante di questo quadro è il modo in cui la sinistra liberale celebra figure come Samantha Power, amministratrice della USAID durante il governo di Joe Biden. Power, un’interventista umanitaria dai tempi di Obama, è acclamata come eroina liberale, paladina della democrazia e dei diritti umani. Tuttavia, il suo incarico alla USAID, come quello di chi l’ha preceduta, era fondamentalmente basato sul rafforzamento del potere globale degli Stati Uniti, e sul tentativo di riportare il Paese al suo giusto posto di nazione “indispensabile” a livello mondiale. La celebrazione di figure simili riflette una nostalgia più ampia, per i “bei tempi andati” in cui l’imperialismo americano era caritatevole e nascosto – quando il soft power era utilizzato in modo sofisticato, e l’interventismo portava una maschera più accettabile.
Nonostante il suo ruolo innegabile come strumento dell’imperialismo, lo smantellamento della USAID avrà delle conseguenze reali. La revoca dei finanziamenti all’Agenzia non rappresenta soltanto la fine del soft power americano, ma avrà effetti tangibili su milioni di persone. I programmi di vaccinazione, gli aiuti alimentari e le iniziative sanitarie che verranno interrotte porteranno ad un aumento della mortalità nelle regioni vulnerabili. È questo il paradosso dell’imperialismo: il suo collasso è raramente privo di conseguenze. Mentre l’imperialismo digitale sta diventando la nuova frontiera, lo smantellamento repentino delle strutture di assistenza tradizionali genererà crisi umanitarie nel breve termine, che influenzeranno in modo sproporzionato chi non ha nessuna voce in capitolo in questi mutamenti geopolitici.
La USAID smetterà di essere il motore principale del controllo globale delle multinazionali americane. Ci stiamo spostando da un’era di imperialismo dello sviluppo ad un’era di imperialismo digitale, i cui campi di battaglia non sono più i progetti umanitari internazionali, ma i data center, il governo degli algoritmi, e i monopoli delle informazioni. Gli strumenti principali dell’imperialismo globale non sono più le agenzie umanitarie, ma i giganti tecnologici, l’intelligenza artificiale, e le piattaforme digitali che disegnano le nostre realtà politiche ed economiche. La macchina dell’impero aziendale americano continua a marciare, non attraverso gli aiuti umanitari, ma con l’ausilio del dominio digitale.
Articolo originale di Gabriele Wadlig, pubblicato il 27 febbraio 2025 su jacobin.com. Traduzione Emma Purgato.