“Ribelle innalzandosi va, fino alle stelle”: la poesia operaia di abiti-lavoro (1980-1993)

di Monica Dati

La poesia dei lavoratori che confluiva nella rivista abiti – lavoro era una scrittura in presa diretta, il poeta e lo scrittore si esprimevano direttamente, senza intermediari del settore letterario o giornalistico. Si era passati dagli intellettuali che parlavano del lavoro (es. Ottiero Ottieri…) agli intellettuali che raccoglievano i pensieri dei lavoratori (es. Nanni Balestrini…) infine, agli operai che scrivevano loro stessi la propria storia (es. Ferruccio Brugnaro, Tommaso Di Ciaula, Luigi Di Ruscio…). Il percorso è abbastanza definito, abiti- lavoro era un polo dell’ultimo scenario di narrazione ed esplorazione del mondo del lavoro: quello della autorappresentazione (Giovanni Trimeri).

Con la fondazione di abiti-lavoro nel 1980, prende vita quello che può definirsi «il primo tentativo di dare forma organizzata alla letteratura operaia» tramite un progetto culturale strutturato. In passato, infatti, la poesia era legata soprattutto a occasioni estemporanee: una forma espressiva spontanea e accessibile, che permetteva a contadini, mezzadri, operai di fabbriche e miniere, spesso privi di istruzione formale di raccontare in modo creativo emozioni, storie e lotte, attraverso la parola parlata, la musica, il canto o altre forme artistiche:

O bei giorni infantili, intreccio santo
di baci, di profumi e d’esultanza
Io vi ricordo, mentre ne la stanza
mi giunge degli oppressi il novo canto.
Si tenta soffocarlo; ma ribelle
innalzandosi va, fino alle stelle […]
(Pietro Mandrè, Poesie di un proletario, 1892)

Osserva ironicamente Alessandro Portelli a proposito della passione che caratterizzava la cultura popolare che “sfogliando vecchie copie de Il Messagero per cercare altre cose, mi capita un numero del 1907, ottobre, Rissa a coltellate a Cori per il canto a poeta. Cioè a Cori nel 1907 c’era un morto per una gara di poesia in osteria”.

Nella seconda metà del Novecento, il panorama cambia radicalmente, in particolare con l’onda lunga del “biennio caldo” 1968-69, che vede un protagonismo operaio senza precedenti. Le lotte per il diritto allo studio, l’uso del ciclostile, la diffusione dei giornali di fabbrica e la nascita di organi di rappresentanza dei lavoratori creano il terreno per una letteratura—e un’arte—sui subalterni fatta dai subalterni stessi. Questi non rivendicano più soltanto aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro, ma reclamano anche l’accesso a opportunità culturali e ricreative, tempo libero, vita, comunicazione e arte: non solo il pane, ma anche le rose.

I versi alla rosa non sono borghesi
E non sono borghesi le rose

Anche la Rivoluzione le coltiverà
Si tratta certo di ridistribuire le rose e la poesia.
(Ernesto Cardenal, Oràculo sobre Managua, 1973)

La rivista, che prende il nome da una voce della busta paga, l’indennità vestiario, nasce ad Arcore, notoriamente riconosciuta come la sede della prestigiosa moto Gilera e della rinomata residenza di Silvio Berlusconi. Il suo “quartier generale” è la libreria Novantadue e la guida editoriale è affidata a Giovanni Garancini con la collaborazione, tra i tanti, di Sandro Sardella, Ferruccio Brugnaro, Tommaso Di Ciaula, Giovanni Trimeri, Michele Licheri, Oscar Locatelli, Luigi di Ruscio, Loretta Povellato, Alida Airaghi, Gisa Legatti, Anna Lombardo e due figure centrali venute a mancare troppo presto: Claudio Galuzzi e Franco Cardinale. Non un cenacolo accartocciato su sé stesso ma spazio autentico e aperto a tutti che riesce addirittura ad arrivare in luoghi di deprivazione umana e culturale come le carceri e a beneficiare della collaborazione di molti artisti nonché della stima di intellettuali come Giancarlo Majorino e Roberto Roversi (interlocutori e non più padrini).

Dal 1980 al 1993 sono usciti diciassette numeri che rappresentano un importante progetto nel quale sono confluiti poesie e prose operaie, interviste e dibattiti letterari, canti di popoli in lotta per la liberazione, musiche, vignette, recensioni, versi in dialetto, pitture alternative e mail art, rubriche internazionali, omaggi e ricordi. Con uno sguardo rivolto alla cultura underground, la rivista ha proposto una prospettiva innovativa: gli operai non devono essere letti solo attraverso la lente del lavoro, ma come individui capaci di abbracciare l’intera vita, perché «tutta una cultura, tutto un sapere deve essere messo in discussione» (Giovanni Garancini). Anche le copertine sono simbolo di questa tensione innovativa, spaziando dalla rappresentazione neorealista di I mangiatori di fave di Vincenzo Guerrazzi alle ballerine rosse e leggere di Mario Schifano, che fluttuano leggere in aria, testimoniando la volontà di superare lo stereotipo «dell’operaio che si piange addosso», riconoscendo invece la sua capacità di «abbracciare e cavalcare il mondo» (Sandro Sardella).

I materiali e la documentazione che compaiono su abiti-lavoro costituiscono dunque fonti originali e preziose, difficilmente reperibili altrove, perché rappresentano voci sommerse, ignorate dall’indifferenza ufficiale e legate a occasioni di comunicazione rare e frammentarie.

[…] Penso che a molti sia capitato di trovarsi sempre più da soli a gestire il proprio stupore di fronti a fatti del mondo e tutto ciò ci paralizza, lega la lingua e le mani. Io credo, che lo scrivere quello che sentiamo, quello che accadde e cade intorno a noi, con i nostri molteplici linguaggi, senza cattedre o microfoni, possa aiutarci a ripopolare, e ritrovare una nostra personale dimensione. […]  I diversi linguaggi di espressione che in abiti-lavoro convivono perfettamente, dandole una impronta di cammino sì collettivo ma che rispetta e fa da cassa di risonanza al percorso individuale, indicano a mio giudizio, appunto, la voglia di reagire all’appiattimento socio culturale dei giorni nostri (Anna Lombardo, abiti-lavoro, n. 16, 1993).

Non mi sento più solo quando arriva la voglia di scrivere, quando mi chiedo se è giusto che scriva anche per gli altri. […]. Ho letto alcune copie, anche i primi, numeri e ho capito di trovare qualcosa di diverso dalle solite talvolta banali raccolte di poesie: un insieme di esercitazioni, di accorte analisi, di testi che tendono ad esplorare le radici della necessità operaia di scrivere, di comunicare, di occupare uno spazio culturale insolito, se paragonato agli imperi dell’industria della comunicazione di massa.  Ribelli le strofe, accorati gli appelli, provocatori le rime e i simboli: qui le parole scavano la realtà per il gusto di far riflettere sull’importanza di non adagiarsi nemmeno per un istante al conformismo, di privilegiare lo “scatto” dell’arte improvvisata, fresca, mai viziata dall’opportunismo.
(Orlando Casellini, abiti- lavoro, n. 16,  1993)

La rivista non solo ha offerto uno spazio di espressione originale senza conformismi, ma ci dimostra anche come la poesia e, più in generale, l’arte possano essere molto più di semplici forme di svago o intrattenimento: rappresentano infatti esperienze di scoperta capaci di suscitare emozioni e riflessioni, aprendo la strada a una comprensione più profonda di sé e del mondo. Un esempio emblematico e attuale è rappresentato dai lavoratori della ex GKN di Campi Bisenzio e il loro festival di letteratura working class che con lo slogan  “Non siamo qua per intrattenervi”, mutuato dallo studioso Mark Fisher, vogliono richiamare la natura politica e culturale dell’evento. Come sottolinea infatti Antonio Catalfamo in un numero speciale de Il calendiario del Popolo (n. 730, anno 64, 2008), la poesia è uno strumento di presa di coscienza individuale e, nel contempo, di lotta, di sensibilizzazione dei compagni e compagne di lavoro e della società. La dimensione personale non scompare ma l’individualità viene messa al servizio della collettività: questa la grande novità della poesia fatta dagli operai rispetto alla letteratura operaia prodotta dagli intellettuali. Essa diviene riacquisizione del proprio io negato dalla società capitalista che funzionalizza tutto nell’interesse produttivo dell’impresa:

[…] per poter lottare contro i padroni è necessario
il sapere il parlare… la cultura come strumento non per essere
come loro ma per ribaltargliela  contro…
non solo contrattare economicamente… ma per un
“altro” vivere… la tutela della  salute da non contrattare…
la qualità del cibo… e del bere… del tempo “liberato”…
scrivere per capire capirsi far capire… la scoperta della ricchezza del
vivere… non il consumare… il viaggiare non il turismo… la
frugalità non l’accontentarsi…
le arti… le tante capacità e possibilità umane oltre l’economico…
(Sandro Sardella)

Questo contributo offre una sintetica introduzione alla poesia operaia di “abiti-lavoro” (1980-1993). È un primo spunto sul tema e intende stimolare ulteriori approfondimenti dedicati agli autori, ai testi e ai contesti di questa esperienza, nonché al ruolo della poesia come voce e strumento di resistenza culturale.

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