Kafka il realista

(Seconda parte dell’intervento su Kafka)

di Francisco Soriano

Come afferma Michael Löwy (Kafka, sognatore ribelle, edito da Elèuthera), la questione del realismo negli scritti di Franz Kafka non ha mai attratto l’attenzione degli studiosi di matrice marxista. In questa schiera di “disinteressati” vengono annoverati anche Theodor Adorno, Karel Korsk e André Breton. Un caso diverso, invece, riguarda György Lukács, che nel Significato attuale del realismo critico, scritto nel 1955, nega categoricamente in Kafka una seppur modesta propensione al realismo. Senza mezzi termini Michael Löwy taccia il critico ungherese di essere ormai «affetto» dall’ideologia autoritaria stalinista, in un momento che nulla ha a che vedere con il brillante Lukács dei primordi, il filosofo rivoluzionario di Storia e coscienza di classe, testo scritto nel 1923 (1). Il giudizio “definitivo” di Lukács, utilizzando un confronto fra Mann e Kafka, è che quest’ultimo per la mancanza di realismo nelle sue opere non merita «nessun interesse per la cultura di sinistra» (2).

Michael Löwy accusa, a ragione, György Lukács di aver diviso semplicisticamente il mondo degli intellettuali in due spazi ben distinti: da una parte quelli che aderirono al Movimento per la pace patrocinato in quei tempi dall’Urss e, dall’altra, gli intellettuali borghesi che non aderendo al movimento denotavano una propensione al fatalismo, con una caratteristica specifica su tutte, quella di appartenere a un «avanguardismo decadente»; non a caso la scelta fra Mann e Kafka equivaleva a quella fra «la salute e la malattia sociale» (3). Questo orientamento era condiviso integralmente dall’apparato burocratico comunista ceco, che impediva la pubblicazione dei libri di Kafka, i quali rappresentavano una visione della società assolutamente decadente. In ultima analisi Lukács vede in Kafka uno scrittore soggettivista, individualista, che rappresenta la realtà in un’ottica astratta, lontana dall’oggettività e, dunque, determinata dal «nulla» in termini di contenuti: in Kafka «il mondo viene concepito come l’allegoria di un mondo trascendente» (4). La questione invece che pone Löwy, argomentando la critica impietosa di Lukács, si concentra proprio sulla «trascendenza» e sull’«irraggiungibile aldilà». Dire che i testi di Kafka conducono al “nulla” in termini di contenuti è il frutto di un vero e proprio «abbaglio» (5). In verità il cosiddetto antirealismo di Kafka è la plastica rappresentazione di una profonda conoscenza critica del potere, e senza ombra di dubbio, infatti, esso oggi definisce la realtà e la pratica del potere nella maggioranza dei Paesi del mondo moderno.

Il potere è essenza laddove costruisce un apparato burocratico che si avvita volontariamente, si contorce, aliena e reifica. Tuttavia Löwy racconta riguardo a Lukács un aneddoto molto interessante. Infatti nel 1956, dopo l’invasione dei sovietici in Ungheria e la fine della repubblica dei consigli operai, furono arrestati Imre Nagy, che presiedeva questi ultimi, e lo stesso Lukács, quale ex ministro della Cultura. I due furono condotti in un castello fortilizio in Romania, in attesa di un giudizio da parte dei giudici. In quell’occasione i malcapitati non ebbero accesso agli atti processuali, né furono avvertiti dei capi di imputazione, così rimanendo nell’impossibilità di difendersi. C’era qualcosa di più «kafkiano» di questo?

Continuando il racconto, Löwy si pone le domande che Lukács e Nagy sicuramente fecero a se stessi: di quale natura sarebbe stato il tribunale che li avrebbe giudicati? Civile, penale? I magistrati sarebbero stati ungheresi o di altra nazionalità? Quale sarebbe stata la direzione del partito che si sarebbe occupata del caso, forse una nuova? Forse se ne sarebbe interessato il Politburo sovietico?
O magari una commissione mista della polizia politica ungherese insieme a quella sovietica? Nagy venne giustiziato. Lukács fu scarcerato con il «beneficio del dubbio». Ma il fatto più interessante di questa tragedia, nella narrazione di Löwy, si verificò quando in una delle tante giornate estenuanti di attesa e speranza in prigione, Lukács ricevette la visita della moglie e le sussurrò queste parole:

«Kafka war doch ein Realist (Kafka era un realista)» (6). In un saggio del 1965 lo stesso Lukács, pur non sviluppando un’analisi articolata che smentisse quanto affermato dieci anni prima, fu costretto ad ammettere che: «Kafka […] mette in scena un’intera epoca di disumanità […]. Per questo il suo universo […] acquista una caratteristica toccante e profonda, in contraddizione con gli scrittori che, in quello sfondo storico, scorgono direttamente la generalità nuda e astratta […] dell’esistenza umana e finiscono infallibilmente in un vuoto assoluto, nel nulla» (7).

Löwy ci ricorda la famosa conferenza su Kafka patrocinata, nel 1963, da Eduard Goldstücker a Liblice, in Cecoslovacchia. In questo incontro fra intellettuali di alto profilo parteciparono Ernst Fischer, Anna Seghers, Klaus Hermsdorf, Roger Garaudy e altri studiosi cechi, sovietici, polacchi, ungheresi, jugoslavi e tedesco-orientali (8). Le idee su Kafka di Lukács non erano condivise da tutti, tanto che il filosofo e storico austriaco Ernst Fisher, contrapponendosi alle interpretazioni dello studioso ungherese, sottolineò che «la poesia è spesso in anticipo sulla prosa» ed esaltò in Kafka proprio la forza poetica, che non conteneva nulla di irrealistico. Il ribaltamento del concetto di realtà da parte di Fisher aiutò a capire quanto invece Kafka fosse realista, addirittura profetico, mettendo a nudo le idee di coloro che avevano ridotto a semplice esteriorità ciò che intendevano manifestare come reale. La domanda era: «[La realtà] non comprende anche quello che sogna, sospetta o avverte come ancora non esistente, o esistente solo in modo invisibile?» (9). Nello stesso momento venne contestato il negativismo di Kafka. Agli scrittori, dice Fischer, «non viene chiesto di produrre soluzioni, i punti di domanda contengono contenuti, molto meglio di tanti “punti esclamativi” di altri autori». Nella conferenza di Liblice si verificò, infatti, una polarizzazione su due posizioni distinte: una in cui confluivano coloro che criticavano Kafka in quanto soggettivista, e l’altra in cui vi era una interpretazione dello scrittore ceco avulsa da questioni prettamente ideologiche e partitiche. La questione non era semplicemente di tipo letterario. I cosiddetti comunisti riformatori, consapevoli comunque di agire in un perimetro marxista, intravedevano in Kafka una concreta
critica alla negatività del mondo capitalista e una ancor più radicale critica ai crimini dello stalinismo, quest’ultimo rappresentato nella sua realtà come un potere immanente e deviante dalle vere necessità degli uomini, una forza che traeva dalla sua autorità sferzante disumanizzazione e persecuzione. Non solo Fischer dunque, ma anche Jiří Hájek metteva il dito nella piaga affermando che:

«L’opera di Kafka condanna tutto ciò che è in contraddizione con la missione storica umanista del socialismo, tutto ciò che la deformazione staliniana ha prodotto nel nostro sistema con tutte le conseguenze che sopravvivono ancora tra noi» (10).

Per opinione generale, la conferenza di Liblice del 1963 rappresenta un punto di partenza del cambiamento del clima culturale in quegli anni, che giungerà alla Primavera di Praga del 1968.

Nel cosiddetto onirismo kafkiano, inoltre, non vi è nulla di inconsistente e di neppure lontanamente surrealista: il sogno in Kafka non ha come obiettivo la riproduzione di una realtà, ma ne rappresenta una critica serrata e radicale, talvolta feroce e ironica. L’opera di Kafka è, secondo l’ennesima intuizione di Benjamin, «uno degli esempi più impressionanti della “forza di illuminazione profana” della letteratura» (11). Per Breton, infine, lo scrittore era «capace di sondare l’invisibile e intendere l’inaudito» (12). La storia dell’ostracismo subito grazie alla critica riservatagli dagli intellettuali dei
suoi tempi ci insegna molto. La necessità di ricercare negli scrittori e negli artisti, in generale, una «militanza», una affezione e una soluzione delle «contraddizioni» sociali soprattutto in ottica marxista, ha generato fraintendimenti e distorsioni sulla funzione della letteratura e delle arti nel quotidiano delle società. Il realismo in opposizione al soggettivismo come lotta alla borghesia e alle sue «distorsioni» ha dimostrato miopia nel corso degli anni, a prezzo di gravissime persecuzioni, violenze, ingiustizie. La forza illuminante e profetica di Kafka ha subito per tanto tempo un ostracismo vergognoso, un tentativo di accantonamento senza precedenti frutto di un errore determinato da ideologismo e disonestà intellettuale. Il «caso Kafka» è purtroppo molto comune e ci ha tramandato storie di ordinaria ingiustizia, patita da intellettuali, scrittori e artisti che hanno pagato anche con la vita la correttezza e la perseveranza nel perseguire il proprio afflato contro ogni potere manipolatore. La tragica morte di Osip Emil´evič Mandel´štam rappresenta soltanto uno degli esempi, lampanti e coerenti, dell’ingiustizia subita da un intellettuale di quegli anni dello stalinismo sovietico.

Da quando Kafka è divenuto un aggettivo, si comprende l’impatto realistico della sua opera, della sua critica sociale e della sua pervasiva visione profetica del potere. Il romanzo dello scrittore ceco Il processo è l’esempio pratico, il riferimento principe, la versione più realistica della violenza insensata del potere sull’individuo sociale, il cittadino, e l’uomo. L’accusa insensata di un innocente, di tutti gli innocenti, colpevoli soltanto di asimmetricità con il potere, è il modello più realistico delle moderne società in cui la teocrazia, la dittatura tecnocratica, lo stato di polizia si riconoscono, si manifestano e si definiscono senza alcun dubbio. Che cosa possa significare nella realtà più spietata di questi regimi il termine «kafkiano» è facile immaginarlo, con elementi chiari e incontestabili. L’esempio iraniano del «moharebeh», un reato perpetrato contro dio riconducibile a una qualsiasi pratica umana non coerente con il volere del potere, è la plastica e reale manifestazione di una pratica kafkiana nell’applicazione di una legge assolutamente incomprensibile e insensata. In moltissimi Paesi del mondo l’autorità e il potere attuano incondizionatamente persecuzioni, sequestri, incarcerazioni, torture, sparizioni, individuabili per insensatezza proprio nei racconti, perciò realistici, di Kafka. Nessuna critica diretta se non ammissione che soluzioni non esistono, finché ci sarà un solo potere sulla faccia della terra a determinare la vita delle persone. L’esperienza assurda e grottesca degli uomini in regimi che brandiscono il grimaldello della burocrazia si svolge alla luce di una deriva sociale e umana senza precedenti.
Leggere Kafka, il libertario realista, diventa, a questo punto, il più plateale smascheramento di una realtà che non lascia appelli: che non esistono poteri buoni.

§ § § § § § §

NOTE:

1 Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, Elèuthera, Milano 2022, p. 181.
2 Ivi, p. 181.
3 Ivi, p. 182.
4 Ivi, p. 183.
5 Ibid.
6 Ivi, p. 184.
7 Ibid.
8 Ibid.
9 Ivi, p. 185.
10 Ivi, p. 186.
11 Ivi, p. 187.
12 Ibid.

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