Reportage esclusivo – In Siria per svelare la verità su Saidnaya: la prigione di Assad

Video e articolo di Maya per ComeDonChisciotte.org

Le prigioni di Saidnaya, sono balzate nuovamente agli onori della cronaca nel dicembre 2024 quando, i miliziani di Hay’at Tahrir as-Shams (1) ne hanno forzato le porte, liberando i detenuti. La prigione era nota all’opinione pubblica internazionale come simbolo di potere autoritario e repressione, come d’altra parte numerosi luoghi di detenzione nel mondo, basti ricordare Guantanamo oppure Abu Ghraib in Iraq. (2)

Costruita negli anni ’80 durante la presidenza di Ḥāfiẓ al-Asad (3) la struttura fu progettata come prigione militare di massima sicurezza.

Sarebbe difficile comprendere la nascita delle prigioni di Saidnaya senza fare un passo indietro e ripercorrere la storia politica della Siria, segnata da profonde divisioni interne e da una lunga eredità di dominazioni ed ingerenze straniere.

Il dominio Ottomano, (4) che si estese per circa 400 anni fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, fu un periodo di occupazione in cui le divisioni religiose si accentuarono. La gestione del potere favorì le élite sunnite a discapito di altre comunità come quella cristiana, sciita e drusa.

Dopo il ritiro degli Ottomani, la Siria passò sotto il mandato francese fino al 1946 (5). La Francia governò con una politica del “dividi et impera”, acuendo le divisioni etniche e religiose per mantenerne il controllo.  Durante il mandato francese definire la Siria come uno stato laico sarebbe un errore storico evidente, in quanto le divisioni religiose vennero fomentate e inasprite sulla base di un controllo coloniale caratteristico delle politiche espansioniste europee.

La situazione che si prospettò dopo il 1946 fu infatti quella di un paese incapace di costruire un solido apparato statale e un esercito unificato, in cui le lotte interne fra gruppi rivali si trasformarono rapidamente in strumenti di potere per le diverse fazioni politiche e militari. Anche l’attuale “nuova” bandiera siriana fu, in origine utilizzata durante il periodo del mandato francese, quando fu impostadalla Francia alla Siria.

Essa faceva parte di uno schema franco- britannico, con le tre stelle che simboleggiavano tre formazioni religiose: i sunniti, i drusi e gli alawaiti, o secondo altre fonti i tre distretti principali della Siria: Aleppo, Damasco, DeirEz-Zour. Potremmo definirla in molti modi, ma sicuramente non possiamo attribuire a questa bandiera l’aggettivo di “nuova”. Fu infatti usata, non solo durante il mandato francese, ma anche durante la guerra siriana dagli stessi islamisti, accompagnata a quella nera dell’ISIS. Ad oggi il governo di As-Shara, la mostra invece al mondo, come simbolo di unità e di riscatto nazionale.

Successivamente durante l’era dell’unità araba, tra Siria ed Egitto emerse una nuova bandiera, caratterizzata dal colore rosso, simbolo dell’unione fra i due paesi. Il “rosso” rappresentava il sangue dei martiri, il “bianco” la pace, il “nero” il passato coloniale, questi tre colori illustravano la grande rivoluzione araba, quando Nasser rovesciò la monarchia in Egitto.

Questa bandiera, figlia dell’idea panaraba, in cui forte era l’idea di creare un movimento di unificazione del mondo arabo, ha accompagnato la storia siriana fino adicembre 2024.

Gli anni dei colpi di stato militari, del 1952 e del 1954, l’integrazione della Siria nella Repubblica Araba Unita (6) e la sua successiva dissoluzione, nonché “La guerra dei 6 giorni” (7), l’occupazione israeliana delle alture del Golan, rappresentano un periodo di “caos”, una fase storica cruciale per comprendere i profondi cambiamenti che avrebbero segnato la Siria negli anni seguenti.

In questa condizione di fragilità istituzionale e instabilità politica, nel 1970,Ḥāfiẓ al-Asadprese il potere. Definita artificiosamente dalle potenze occidentali come un “colpo di stato”, la sua ascesa rappresentò una svolta vitale per il paese, segnando una netta rottura con le ex potenze coloniali e le loro ingerenze negli affari interni della Siria. Ḥāfiẓ al-Asadera un Alawaita di umili origini, nato durante il mandato francese, era un uomo cresciuto in un contesto di esclusione sociale ed emarginazione politica, in un paese in cui il potere era storicamente dominato dalle élite sunnite.

L’appartenenza di Ḥāfiẓ al-Asadal partito politico Ba’ath(8), di ispirazione laica, socialista e panaraba, giocò un ruolo determinante nella trasformazione della Siria, delineando un modello di governo in netta contrapposizione con i valori propugnati dai partiti e dalle organizzazioni sunnite, come ad esempio la Fratellanza Musulmana.(9)Furono queste formazioni maggioritarie,come appunto la Fratellanza Musulmana, e altri movimenti sunniti, ad avere un ruolo centrale nell’esacerbare le divisioni interne in Siria, spesso marginalizzando e confinando le numerose minoranze religiose.

In questo contesto di profonda frammentazione si fece strada l’idea di una nuova “rinascita” e a discapito della propaganda occidentale, il consenso popolare verso Ḥāfiẓ al-Asadfu spontaneo e non coercitivo. Ḥāfiẓ al-Asadriuscì a edificare uno stato sovrano, capace di auto sostentarsi, lontano dalle ingerenze straniere e soprattutto stabile. Non instaurò una dittatura alawita ma bensì una repubblica ba’athista, su cui si può disquisire rispetto alla sua rigidità, ma non contestarne la laicità.

La sicurezza dello stato divenne la priorità assoluta del governo che dovette affrontare una serie di sfide decisive.  Fra queste, spiccano la rivolta islamista della Fratellanza Musulmana, l’intervento siriano in Libano del 1976 e la guerra contro il nemico israeliano nel 1973, che costrinse Israele a ritirarsi dalle alture del Golan. (Occupazione ripresa nel dicembre 2024, dopo la caduta del governo di Bashar Al Assad)

È all’interno del processo di ricostruzione dello stato e del rafforzamento dei suoi apparati militari che si inserisce la nascita della prigione di Saidnaya, concepita non solo come un carcere di massima sicurezza ma anche come strumento di controllo volto a garantire la stabilità in un paese segnato da decenni di fragilità istituzionale e politica.

Saidnaya, o ciò che ne resta: silenzi e verità da decifrare

Saidnaya si trova a circa 30 km da Damasco lontana dai centri abitati. La struttura si erge su una piccola altura e per raggiungerla è necessario percorrere circa 500 metri a piedi dal cancello principale, dove è stato dipinto un grande murales raffigurante la “nuova” bandiera siriana e la scritta Free Syria.

Lungo questa via si incontrano carri armati dati alle fiamme, bossoli di proiettili, veicoli militari distrutti e una atmosfera surreale, in cui la desolazione è accompagnata dagli spari distratti o annoiati dei miliziani all’ingresso. Le prigioni sono ormai vuote; i suoi spazi devastatidagli incendi, le porte divelte, il caos di un luogo devastato dalla rabbia dei familiari dei detenuti liberati, da coloro che vi erano rinchiusi e dalla furia dei miliziani di Hay’at Tahrir As- Shams, consci di essere ripresi dalle telecamere.

Le celle sono ancora piene di vestiti abbandonati sul pavimento. Le porte spalancate, si affacciano su corridoi vuoti, dove il silenzio rimbomba assordante. È possibile esplorare l’intera prigione, salire ai piani superiori e infine raggiungere il tetto da cui si scorge un altro complesso distaccato. Sulla porta di ingresso dell’edificio principale decine di fotografie raccontano un silenzio che parla da sé, volti sconosciuti ma che per qualcuno rappresentano un padre, una madre, un fratello, scomparso in un meccanismo che, ancora oggi, non ha restituito i corpi.

In termini “provocatori”, potremmo definire ogni prigione come un sistema coercitivo e raramente riabilitativo. Questo vale anche per le prigioni occidentali, dove la riabilitazione spesso resta un principio teorico, più che una realtà concreta.

Saidnaya è però un luogo che sembra essere stato deliberatamente lasciato in rovina, quasi dovesse rappresentare un museo a cielo aperto, un simbolo utilizzato dagli attuali governanti per ribadire il loro ruolo di liberatori e difensori della “nuova “Siria.

La verità sulla prigione di Saidnaya: tra propaganda e interrogativi irrisolti

Amnesty international, pur con tutte le riserve su codesta organizzazione, le ha definite un “mattatoio umano”, nel rapporto intitolato “Human Slaughterhouse: Mass Hangings and Exterminationat Saidnaya Prison, Syria”, pubblicato nel febbraio 2017. Sulla base di questo rapporto Amnesty documentava le torture e gli omicidi all’interno della prigione dal 2011 al 2015.

Per molti anni le inchieste relative agli abusi commessi all’interno della prigione si sono fondate su questo rapporto, a quanto pare redatto basandosi sulletestimonianze di chi era sopravvissuto, uscito dalle carceri e poi fuggito dalla Siria. Le cifre riportate sul rapporto di Amnesty furono il risultato di calcoli basati su testimonianze di persone non nominate però mai nel dossier.

Per anni non è stato infatti possibile entrare all’interno delle prigioni, il paese inaccessibile dalla guerra non ha permesso di documentare le condizioni interne e in molti casi ai familiari dei detenuti non era possibile fare visita ai propri parenti.

Pur essendo catalogata come una “prigione politica”, il concetto di “dissidente” non è chiarito, né articolato all’interno del documento di Amnesty. Il rapporto, citato in precedenza, sembra non tenere pienamente conto del contesto storico a cui fa riferimento. Saidnaya è stata, non solo una prigione per criminali comuni e oppositori politici, ma anche un luogo di detenzione per numerosi miliziani dell’ISIS, incarcerati durante la guerra iniziata nel 2011.

Sarebbe interessante conoscere dove si trovano oggi questi miliziani dopo che le porte della prigione sono state aperte.Nell’enfasi collettiva della “liberazione”, non si è considerato, nelle testate giornalistiche internazionali, che i detenuti di Saidanya potessero includere al loro interno anche elementi violenti, criminali e Jihadisti.Se volessimo peraltro affidarci alla semantica, anche un Jihadista potrebbe essere definito come un “dissidente”. Ad oggi non è noto dove si trovino questimiliziani e i detenutiper crimini comuni dopo che le porte della prigione sono state aperte.

Il rapporto sembra infatti non tenere conto che nel periodo storico, dal 2011 al 2015, in Siria vi erano migliaia di terroristi d’importazione e non, che ogni giorno facevano esplodere autobombe e attaccavano le zone civili. Non tiene conto dell’appoggio popolare alla lotta contro l’ISIS e risulta improbabile che in una situazione di crisi nazionale, in cui il governo siriano si trovava a combattere il fronte jihadista, si sprecassero energie e mezzi nella lotta contro civili non violenti. I gruppi armati infatti non nacquero dalle manifestazioni, che denunciavano la corruzione e chiedevano più libertà, manifestazioni per altro pacifiche, ma provenivano dall’Islamismo Politico Radicale finanziato da potenze come Turchia, Qatar, Arabia Saudita unitamente a Stati Uniti e Israele, perseguendo quello che sarebbe dovuto essere il “rimodellamento del Medio Oriente allargato”.

Il dossier di Amnesty non tiene neanche conto della rivolta avvenuta nel 2008 all’interno delle carceri. Rivolta passata alle cronache come una “sommossa” popolare contro il governo, quando in realtà emerse successivamente che i rivoltosi non erano altro che estremisti islamici e che nulla avevano in comune con le manifestazioni popolari. Questo a prova inoltre che già nel 2008 le infiltrazioni islamiste erano presenti in Siria e che cercavano di minare lo stato e condurlo verso una guerra che poi si materializzò concretamente nel 2011.

Lo stesso rapporto si basa inoltre su una serie di foto denominate “Caesar Torture Photo”, reportage che fu fatto conoscere al mondo “casualmente” due giorni prima dell’inizio dei negoziati sul conflitto siriano tenutosi in Svizzera il 20/01/2014 e ritenute veritiere da un team di esperti provenienti dal Qatar. (paese che finanziava i miliziani antigovernativi). Le foto sono poi state negli anni confutate, ma nell’immediato hanno contribuito ad accentuare lo sforzo bellico in Siria in funzione anti Assad. È stato poi dimostrato che le immagini ritraevano effettivamenteuomini deceduti, ma non fu possibile stabilire con certezza se fossero vittime del governo di Assad o vittime del conflitto in corso.

Ad oggi, dopo l’apertura delle carceri, il rapporto precedentemente menzionato è tornato agli onori della cronaca come unica testimonianza sulla prigione di Saidnaya, almeno fino a quando diversi giornalisti, europei e non solo, non si sono riversati sul posto pronti a raccontare ogni dettaglio in cerca di uno scoop giornalistico.

Molto è stato detto su questo luogo, e in alcuni casi la propaganda occidentale ha accentuato o distorto le notizie cercando di strumentalizzare il dolore dei siriani che erano andati alla ricerca dei propri cari rinchiusi all’interno della prigione. Molti reportage fatti nel momento dell’apertura delle carceri sono diventati di dominio pubblico e dopo l’orrore e lo sgomento iniziale è emerso come alcuni di essi non fossero del tutto veritieri. Il caso sicuramente più eclatante è stato quello della giornalista della CNN Clarissa Ward che aveva documentato la liberazione di un prigioniero, rivelatosi in seguito un membro dei servizi segreti siriani del governo di Assad, rinchiuso a Saidnaya da tre mesi per corruzione, e mostrato invece al mondo come una vittima del regime, che secondo il racconto della giornalista, era stato rinchiuso per anni nelle carceri senza vedere la luce del sole. Quello che sembrava una grande rivelazione giornalistica si è trasformata invece in un caso imbarazzante di disinformazione.

Persino i Caschi Bianchi, un’organizzazione che si è sempre schierata contro il governo Assad, giocando un ruolo attivo nella guerra siriana, spesso contribuendo alla distorsione di notizie a livello internazionale (10), a seguito dell’ispezione della prigione, dichiarò, di non aver trovatonessun complesso sotterraneo, smentendo nei fatti il dossier di Amnesty, che per anni ne aveva “testimoniato” l’esistenza.  A quanto pare i famigerati sotterranei della prigione, resi celebri anche dalle testate giornalistiche, come luoghi in cui si sarebbero consumate le atrocità più indicibili dal governo di Bashar Al Assad alla fine non sono mai esistiti.

Anche l’Associazione Persone Scomparse Prigione di Saidnaya (ADMSP), con sede a Gaziantep, in Turchia, ha fornito diversi report sulla realtà detentiva della prigione. Tuttavia, questi report non furono redatti sulla base di testimonianze dirette di ex detenuti, ma derivano da 31 interviste condotte principalmente con ex membri del personale carcerario. Tra questi alcuni ricoprivano posizioni di rilievo all’interno della struttura e avrebbero successivamente disertato rifugiandosi in Turchia.  La Turchia è sempre stata nota per il suo interventismo in Siria, cercando di influenzarne le dinamiche interne e di trarre vantaggio dalla situazione. Più volte ha tentato di spartirsi il territorio siriano, intervenendo nelle politiche locali e nel sostegno economico e militare ai miliziani anti governativi. Tutti strumenti utilizzati per rafforzare la propria posizione nella regione.

Tutti i documenti, incluso quello di Amnesty International, non sono mai stati sottoposti ad un controllo incrociato da parte delle istituzioniinternazionali, vedi l’Alto Commissariato per i Diritti Umani e le Nazioni Unite.

Ultimamente è difficile raccogliere testimonianze dirette sul posto, la prigione è uno spazio deserto presidiato da miliziani armati. Al suo interno si aggirano persone dalla dubbia provenienza, che si presentano come ex detenuti, ma che in realtà, sembrano più interessati a chiedere denaro con insistenza. Alcuni di loro arrivano in auto, parcheggiano all’interno della prigione, e poi escono da un ingresso secondario. L’impressioneè che possa trattarsi di ex guardie carcerarie tollerate dai miliziani di Hay’at Tahrir As-Shams per ragioni poco chiare e sconosciute.

La prigione rimane ancora una meta di “pellegrinaggio” giornalistico, un luogo dove poter documentare gli orrori del regime di Bashar Al Assad e raccontare al mondo che la Siria può, ad oggi, considerarsi libera da persecuzioni e violenze. Tutto senza soffermarsi sugli aspetti più controversi del nuovo governo: le notizie arrivate anche ai media occidentali delle uccisioni, da parte delle forze di sicurezza siriane, in collaborazione con forze mercenarie straniere, nella regione di Tartus e Latakia di oltre mille alawiti dal 6 marzo 2025 non hanno certamente avuto lo stesso peso mediatico. I contatti mantenuti con alcuni esponenti della comunità alawaita di Tartus hanno permesso di avere conferma rispetto alle infiltrazioni esterne all’interno dell’attuale forza di sicurezza siriana. Quello che segue è un messaggio inviato da un uomo siriano di fede alawaita che elenca le nazionalità di coloro che hanno attaccato la sua città.

Dal Tagikistan, dall’Afghanistan, dall’Uzbekistan, dall’Albania, dal Pakistan e dagli Uiguri, oltre ad un gran numero di estremisti di nazionalità araba in fuga” (estratto di una conversazione avvenuta in data 13/03/2025).

Si potrebbe ipotizzare che tra i mercenari che hanno attaccato la popolazione alawaita possano esserci anche alcuni dei criminali liberati dalle prigioni siriane, non solo da Saidnaya ma anche da altri istituti detentivi.  Non è da escludere che questi miliziani, reduci da un passato di violenze e crimini gravi, possano essere stati reclutati per operazioni o per compiere atti di violenza contro la popolazione alawaita.

Nonostante i massacri passino sotto il silenzio dell’opinione pubblica internazionale, la narrazione sulla prigione di Saidnaya continua ad occupare gli onori della cronaca, utilizzata per mantenere vivo il racconto degli orrori del passato governo. Il peso della copertura mediatica sembra sbilanciato; si guarda con insistenza al simbolo di un regime sconfitto, mentre si distoglie lo sguardo dalle violenze e dalle ingiustizie che ancora oggi insanguinano la Siria.

Saidnaya sotto i riflettori, i prigionieri palestinesi nell’ombra: il doppio standard della giustizia internazionale

La prigione di Saidnaya è stata a lungo al centro della cronaca internazionale e, a distanza di mesi dalla caduta di Assad, continua ad esserlo. Tuttavia, se oggi volessimobasarcisui numeri e sugli eventi, dovremmochiederci se sia corretto definire solo Saidnaya un “mattatoio umano” o sela narrazione dei fatti, di una parte della stampa internazionale,non dovrebbeestendersi anche ad altre realtà detentive, con la stessa veemenza con la quale si è prodigata a riportare le notizie  (sostanzialmente di matrice occidentale) relative alla prigione siriana. Sulle condizioni dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane vi è lo stesso atteggiamento che per anni ha accompagnato il racconto di Saidnaya?

Se si analizzassero con lo stesso rigore le condizioni di detenzione, i metodi utilizzati e le violazioni segnalate si potrebbe notare come il trattamento riservato ai prigionieri in entrambi i contesti sollevino interrogativi simili, se ovviamente il punto di partenza della cronaca internazionale è effettivamente il rispetto dei diritti umani. Quello che segue serve solo a citare alcune condizioni, alcuni fatti, alcuni numeri, elementi che possano offrire uno spunto di riflessione:

  • Saydanya aveva una capienza massima di 13 mila posti, ad oggi nelle carceri israeliane, in base a ai dati riscontrabili navigando su internetvi sono 10.400 detenuti di cui più di 300 sono minori. La maggioranza di essi si trovano in detenzione amministrativa, ovvero imprigionati senza accusa, senza processo e per un tempo che può durare anche anni.
  • Heeretz ha dichiarato che nelle carceri israeliane sono stati uccisi 60 prigionieri palestinesi in 10 mesi, neanche Guantanamo era riuscita a fare così bene, fermandosi a 9 prigionieri in 20 anni. (11)
  • Negli anni ’90 una commissione statale israeliana presieduta dal giudice della corte suprema Moshe Landaou sostenne che al fine di “prevenire il terrorismo” durante gli interrogatori era consentito usare “pressione psicologica” e un “grado moderato di pressione fisica”. Preludio di una giustificazione istituzionale in cui la tortura diventa la consuetudine di un sistema giudiziario.
  • In un articolo di MiddleEastEye (giornale indipendente del Qatar), testimonianze dirette raccontano la tortura israeliana nelle carceri: urinare sui prigionieri palestinesi, seppellirli vivi dentro un sudario, picchiare i malati. Testimonianze di prigionieri rilasciati a seguito degli accordi per il cessate il fuoco fra Hamas e Israele. (accordi che ad oggi sono saltati e che vede l’entità sionista israeliana aver nuovamente imposto il blocco degli aiuti umanitari e ripreso i bombardamenti e le uccisioni della popolazione civile)(12)

Se ci troviamo di fronte ad una disparità narrativa è probabilmente perché Saidnaya si inserisce perfettamente nel racconto convenuto su un regime brutale e autoritario,quello degli Assad, un nemico che la politica occidentale vuole mantenere chiaro ed identificabile. Le detenzioni e le torture di massa palestinesi, avvengono invece sotto un sistema che gode di alleanze strategiche con l’occidente e qualsiasi critica nei confronti delle politiche carcerarie israeliane viene ridotta ad una questione di “sicurezza nazionale” o al “diritto di Israele di difendersi”.

Vorrei sapere perché una prigione è sinonimo di violenza e brutalità da condannare, mentre l’altra rientra in una narrazione sfumata, spesso giustificata in nome della “sicurezza”’.

Vorrei sapere perché se Saidnaya è stata raccontata come un “mattatoio umano”, le detenzioni arbitrarie, le torture e le umiliazioni subite dai prigionieri palestinesi non vengono elevate allo stesso status di scandalo internazionale.

Le immagini di KhalidaJarrar, attivista palestinese per i diritti umani e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (13),arrestata il 26/12/2023, al momento della sualiberazione dalle carceri israeliane a seguito degli accordi di scambio fra prigionieri, mostrano una donna che fatica a camminare, sembra invecchiata di oltre 30 anni. Gli israeliani l’hanno tenuta mesi in una cella di isolamento grande due metri quadrati, le hanno impedito di presenziare al funerale della figlia, hanno cercato attraverso la tortura fisica e psicologica di piegarla.

Il criterio di indignazione dovrebbe essere la difesa dei diritti umani, ma troppo spesso questo principio viene disatteso dai fatti e dai numeri raccontati proprio dall’occidente. I diritti, infatti, non sempre vengono difesi in modo equo e universale, di conseguenza l’indignazione diventa selettiva, guidata più da interessi politici, che da un autentico senso di giustizia

Il video è un estratto di immagini girate a Saidanaya, filmate di persona,durante un viaggio in Siria, a poche settimane dalla caduta di Bashar Al Assad. Non è stata aggiunta nessuna voce narrante, perché in realtà le immagini parlano da sole.Spetta a ciascuno,decidere se fermarsi alla superficie o approfondire.

Video e articolo di Maya per ComeDonChisciotte.org

28.03.2025

NOTE

  1. Hay’at Tahrir as-Shams: formazione armata islamista, chiamata anche Organizzazione per la Liberazione del Levante, di orientamento salafita, attiva e coinvolta nella guerra siriana. Nata il 28/01/2017 dalla separazione con il Fronte Al-Nusra (costola siriana di Al Qa’ida) e attualmente al potere in Siria dal 08/12/2024.
  2. Con scandalo di Abu Ghraibsi intende una serie di violazioni dei diritti umani commesse contro detenuti nella prigione di Abu Ghraib in Iraq da parte di personale dell’Esercito degli Stati Uniti e della CIA, durante gli eventi della guerra in Iraq iniziata nel marzo 2003. Queste violazioni inclusero abusi fisici e sessualitorturestuprisodomizzazioni e omicidi ).
  3. Ḥāfiẓ al-Asad: politico e militare siriano, esponente del partito politico Baat’h. Nato nella regione di Latakia, un’area dove la maggioranza della popolazione alawita era stata confinata durante il mandato francese, in un contesto segnato da divisioni settarie imposte dall’amministrazione coloniale. Assunse dapprima la carica di Ministro della Difesa nel 1966 e il 12 marzo 1971 fu eletto alla presidenza della Repubblica. Ruolo che mantenne fino alla sua morte avvenuta il 10 giugno 2000.
  4. Il dominio dei Turchi Ottomani ebbe inizio in Siria nel 1516, quando il sultano Selim sconfisse i Mamelucchi, vicino alla città di Aleppo. Questa dominazione, caratterizzata da un periodo di decadenza politica, economica e culturale del paese durò fino alla prima guerra mondiale. La Siria fu divisa in due eyalet, quello di Aleppo e quello di Damasco. Questo periodo fu inoltre caratterizzato da profonde divisioni religiose, durante le quali venne meno la tutela delle minoranze.
  5. A seguito della caduta dell’Impero Ottomano, la Società delle Nazioni, diede “mandato” alla Francia di amministrare la Siria. A seguito dell’accordo Sykes-Picot, firmato da Regno Unito e Francia, i francesi controllarono il territorio siriano fino al 1946.
  6. La Repubblica Araba Unita – RAU, rappresentava un’entità statuale creata dall’unione politica degli stati di Siria ed Egitto. La forma di governo era quella di una repubblica federale socialista araba. La RAU nacque ufficialmente il 1° febbraio 1958, grazie soprattutto all’impegno del presidente egiziano Gamal Abd El -Nasser.
  7. Guerra dei 6 sei giorni: iniziata il 5 giugno 1967 e terminata il 10 giugno 1967 fu una guerra lampo condotta dallo stato israeliano contro la coalizione di Egitto, Siria e Giordania. La guerra terminò con la vittoria dello stato israeliano che conquistò la penisola del Sinai, Gerusalemme est, la striscia di Gaza e le Alture del Golan in Siria. Questa guerra determinò l’acuirsi dell’esodo dei palestinesi dalle proprie terre, spesso non potendo farvi più ritorno.
  8. Ba’ath, formazione politica nata nel 1940, da esuli siriani in Francia, il suo nome in arabo significa “speranza”. I cardini principali dell’idea ba’athistaerano quelli dell’unità araba, della libertà e del socialismo.
  9. Il movimento fu fondato nel marzo del 1928 in Egitto da Al-Hasan al-Banna. La nascita del movimento si colloca nel quadro di un risveglio religioso, che reagiva all’occidentalizzazione della società islamica. Movimento di matrice sunnita-salafita
  10. “Così i giornalisti provocano le guerre “di Thierry Meyssan 15/04/2018 Voltairenet.org
  11. “Hamas prisoner dies after months without proper medical care in Israeli prison” di Hagar ShezafHeeretz 21/11/2024
  12. ” Israeli torture: Urinating on Palestinian prisoners, burying them alive and beating the sick” Maha Hussaini, Middle East Eye 09/03/2025.
  13. Organizzazione politica e militare palestinese, di orientamento Marxista-Leninista fondata nel 1967. Si propose come fazione di avanguardia della classe lavoratrice palestinese, con l’obbiettivo strategico di liberare la Palestina dall’occupazione coloniale sionista. KhalidaJarrar è stata una figura di spicco del movimento, nota come attivista per il suo impegno per i diritti umani, nel corso degli anni ha affrontato numerosi arresti da parte delle autorità israeliane, spesso in regime di detenzione amministrativa senza accuse formali.

Le informazioni contenute in questo articolo si basano inoltre su alcuni scritti che hanno offerto spunti di riflessione.

  • “Verso il dopoguerra del Medio Oriente allargato” di Thierry Meyssan
  • “Sednaya: Investigating Syria’s most notorius prison” A Cradle Correspondent – TheCradle.com
  • “Amnesty International attise la guerre en Syrie” Rick Sterling par Le Saker Francophone – 11/02/2017
  • “Chi combatte in Siria?” di Thierry Meyssan 24/07/2012 Voltairenet.org
  • “La Mort de l’Etatsyrien: Ḥāfiẓ al-Asad aupouvoir” OppositionControlée – Reseauinternational.net 07/01/2025
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