Assistiamo con grande angoscia e preoccupazione all’escalation del rischio di deportazione di Abdulrahman Al-Khalidi, attivista e giornalista dell’Arabia Saudita, richiedente asilo in Bulgaria da quasi quattro anni arbitrariamente rinchiuso in un centro di detenzione, in quanto “minaccia alla sicurezza nazionale”.
Il 26 marzo il Tribunale amministrativo di Sofia ha disposto, in modo definitivo ed inappellabile, l’immediata liberazione di Abdulrahman, confermando la prima sentenza del 18 gennaio 2024. Tuttavia, venerdì 29 marzo, invece di eseguire l’ordine di rilascio, gli agenti della Direzione Migrazione della polizia hanno trasferito con la forza il giornalista saudita dalla sezione per i richiedenti asilo del centro di detenzione di Busmantsi (Sofia) a quella dedicata agli immigrati irregolari in procinto di espulsione.
Come raccontato da Abdulrahman stesso: «Quello stesso pomeriggio, alle 17:20, due uomini in abiti civili si sono presentati nella sezione dell’Agenzia Statale per i Rifugiati (SAR) del centro di detenzione […] Si sono identificati come agenti della Direzione Migrazione di Sofia, e hanno iniziato a parlarmi in bulgaro, senza che io potessi comprendere cosa stesse accadendo e senza alcun preavviso […] Ho pensato che mi stessero portando fuori per essere rilasciato, come stabilito dalla sentenza del tribunale. Invece, hanno chiamato un interprete al telefono per informarmi del mio trasferimento alla sezione migrazione del centro di detenzione, dove vengono trattenuti gli stranieri soggetti a misure di espulsione e deportazione. A quel punto ho capito che le autorità, anziché rispettare l’ordine del tribunale, stavano facendo di tutto per trattenermi e preparare la mia deportazione il prima possibile, nonostante il mio procedimento di asilo sia ancora in corso».
I due uomini hanno impedito ad Abdulrahman di contattare la sua avvocata, immobilizzandolo e togliendogli il telefono di mano, e lo hanno costretto a firmare un documento scritto in bulgaro di cui non è stata consegnata alcuna copia e traduzione.
La detenzione di Abdulrahman è stata giustificata in questi anni sulla base dell’articolo 67(3) della Legge sull’Asilo e i Rifugiati, che permette la detenzione di un richiedente asilo qualora venga considerato una minaccia per la sicurezza nazionale.
L’utilizzo di questo escamotage giuridico non riguarda solo questo caso, ma fonda la pratica sempre più frequente di detenzione dei richiedenti protezione, che vengono trattenuti in condizioni inumane fino a 18 mesi in base alle valutazioni del tutto arbitrarie della SANS, la State Agency for National Security, assimilabile ai servizi segreti.
Tuttavia, l’espulsione dell’attivista saudita mentre il suo procedimento di asilo è ancora in corso sarebbe una plateale violazione del diritto nazionale, europeo e internazionale, in primis del principio di non-refoulement.
Nella giornata di lunedì 31 marzo, l’unica informazione fornita all’avvocata di Al-Khalidi è che il trasferimento è stato effettuato in base all’ordine SANS del 5 febbraio 2024, che dispone la sua espulsione in Arabia Saudita, mentre non è stato fornito alcun documento scritto.
Nella mattinata di martedì 1° aprile, gli agenti di Frontex si sono presentati dall’attivista saudita, probabilmente per convincerlo ad accettare il rimpatrio volontario. L’azione extra-legale delle autorità bulgare ed europee accresce in queste ore il timore dell’imminente deportazione.
Il destino di Abdulrahman in caso di rimpatrio è segnato.
Nei fatti, la deportazione di Abdulrahman sarebbe una condanna a morte certa eseguita dalle autorità europee. Il trattamento riservato dalla monarchia saudita agli oppositori politici fece clamore quando Jamal Khashoggi, con cui Abdulrahman collaborava, venne fatto a pezzi nel consolato di Istanbul nel 2018.
Da allora, sui crimini della dispotica dittatura del Golfo non solo è calato in Italia e in Europa l’ennesimo silenzio complice, ma si è avviata un’intensa campagna di “ripulitura” dell’immagine di un regime sanguinario, tra grandi eventi sportivi e visite di cortesia.
“Hanno distrutto la mia felicità e quella dei miei figli, aggravando la sofferenza psicologica continua e deliberata che subisco da oltre tre anni e mezzo (da ottobre 2021), proprio quando la mia liberazione avrebbe potuto fare la differenza”, scrive l’attivista saudita. “Questo non è un caso isolato, ma fa parte di una strategia di pressione continua per spezzare la mia determinazione”.
Nel suo comunicato, Abdulrahman sottolinea come la sua vicenda sia oggi paradigma della generale erosione dello stato di diritto, che vede la detenzione amministrativa e la “sicurezza nazionale” come dispositivi chiave: “Questo schema di disprezzo per la magistratura e abuso di potere non rappresenta soltanto un pericolo per la mia vita, ma anche una minaccia alle libertà civili in generale, rafforzando un sistema di impunità in cui misure amministrative coercitive vengono applicate senza alcun bisogno di prove o motivazioni concrete.”
Il 1° aprile, fuori dal centro di detenzione di Sofia, si terrà un presidio di protesta lanciato da Migrant Solidarity Bulgaria.
In queste ore drammatiche, come Progetto Melting Pot Europa ci uniamo all’appello alla società civile, ai media, a chi ricopre incarichi istituzionali, a chiunque possa amplificare la causa di Abdulrahman Al-Khalidi. È in gioco la sua vita.