
Le proteste a Gaza che chiedono le dimissioni di Hamas sono alimentate dal desiderio di certezza: che se Hamas si arrende, il genocidio di Israele finirà. La tragedia è che queste grida rimarranno inascoltate, o ancora peggio, alimenteranno ulteriormente la macchina da guerra. Articolo originale su Mondoweiss.net, traduzione di Fiorella Zenobio.
Il 18 marzo, i caccia israeliani hanno ripreso il feroce bombardamento su Gaza, uccidendo più di 800 palestinesi nel giro di pochi giorni. Dopo nove giorni di rinnovata offensiva, i manifestanti di Beit Lahia sono scesi in strada. Brandendo cartelli con la scritta “No al genocidio”, alcuni tra loro hanno anche rivolto accuse alle fazioni armate palestinesi, in particolare a Hamas. Nei media israeliani, queste immagini sono state immediatamente strumentalizzate e riproposte come prova che la campagna militare di Israele stava funzionando, seminando divisioni tra la popolazione e i gruppi di resistenza.
Questa immagine della protesta palestinese—frammentata, disperata e ambiguamente posizionata—è diventata centrale nella strategia di guerra israeliana. Sostiene una doppia narrazione: da un lato, che l’assalto militare è necessario; dall’altro, che gli stessi palestinesi riconoscono la violenza come una loro responsabilità. La guerra a Gaza non è più solo una campagna di distruzione: è un’operazione psicologica, volta a produrre l’immagine della resa, dell’autocolpevolizzazione dei palestinesi per la loro stessa morte
Questa immagine svolge anche un’altra funzione: legittima il consolidamento del potere interno in Israele. I titoli dei giornali israeliani parlano ora di un governo che si sta ristrutturando, perseguendo una doppia strategia—la riorganizzazione dell’architettura istituzionale e la prosecuzione della sua guerra perenne. Questi obiettivi non sono distinti; ognuno sostiene l’altro. La campagna genocida a Gaza non è solo un esercizio militare: essa apre la possibilità di una pulizia etnica, garantisce un ambiente regionale instabile e crea lo spazio per uno scontro con l’Iran. Sul fronte interno, il progetto della destra israeliana—segnato da riforme giudiziarie e dalla ridefinizione dei confini civici—si regge sul mantenimento di uno stato di emergenza. La guerra, a sua volta, viene razionalizzata con la necessità della coesione nazionale, una narrativa di unità forgiata sotto assedio, e i segnali di resa palestinese servono solo ad alimentare questa visione.
Insieme, queste dinamiche formano un circuito chiuso: si autoalimentano e dipendono l’una dall’altra. Oggi, questi sono i titoli dei giornali in Israele: il licenziamento del capo dello Shin Bet Ronen Bar, il licenziamento del procuratore generale di Stato (non ancora effettivo) e l’approvazione di una riforma giudiziaria che entrerà in vigore alla prossima Knesset. Tutto ciò mentre Israele è presumibilmente impegnato in una guerra di espansione in Siria e Libano, una guerra per la fine decisiva della questione palestinese, una guerra per affermarsi come unico egemone in Medio Oriente. Un colpo di stato interno e una guerra infinita.
Eppure, anche queste proteste – fragili e frammentate come sono – non recuperano la figura dell’innocenza nell’immaginario israeliano. I manifestanti di Beit Lahia che chiedono la fine della guerra, che gridano contro il genocidio e Hamas, non vengono percepiti come voci al di fuori del dominio della colpa, come persone che aspirano a una vita senza minaccia di morte. La loro apparizione non interrompe la narrativa della colpevolezza collettiva palestinese attentamente costruita da Israele durante questa guerra; al contrario, la ricodifica. Nel discorso israeliano, essi non sono visti come vittime, ma come potenziali collaboratori—palestinesi pronti a tradire i propri, a confessare l’errore della resistenza, a inginocchiarsi davanti al potere. Lo spettacolo della capitolazione diventa la prova finale della colpa: non la colpa di aver combattuto, ma quella di essersi rifiutati di sottomettersi. In questo modo, anche il dissenso viene strumentalizzato. Non interrompe la guerra; ne riafferma la logica. Rende la violenza non solo giustificata ma necessaria, confermando che la resa è possibile, che la frammentazione è reale e che il dominio può ancora essere perfezionato.
Il dissenso palestinese
Dallo scoppio della violenza tra le fazioni armate a Gaza nel 2007, la società palestinese – sia a Gaza che in Cisgiordania – ha subito una profonda divisione interna, sostenuta dalla presenza di due fazioni politiche concorrenti, ciascuna con una posizione distinta rispetto alla condizione coloniale. La prima, guidata da Mahmoud Abbas e dall’Autorità Palestinese, sostiene la cooperazione, la collaborazione e l’accomodamento – una strategia basata sulla negoziazione, sulla costruzione dello stato e sulla cooperazione in materia di sicurezza. La seconda, incarnata da Hamas e da altre fazioni della resistenza, insiste sullo scontro, sulla lotta, sulla resistenza e sulla sfida, vedendo la struttura coloniale come una lotta esistenziale. Questa frattura non è solo istituzionale; ha penetrato il tessuto stesso della vita politica palestinese, modellando affetti, discorsi e le condizioni con cui si negoziano dissenso, sopravvivenza e speranza.
Questo scisma avrebbe giocato un ruolo dominante nel discorso politico palestinese all’indomani di Tufan al-Aqsa (Diluvio Al Aqsa, l’operazione del 7 ottobre di Hamas e le altre fazioni militari palestinesi contro Israele ndt), polarizzando sempre più il dibattito intellettuale e pubblico attorno a tre binari interconnessi: vittoria e sconfitta, responsabilità e abbandono, resistenza e sopravvivenza. Questo discorso, però, non è stato esclusivamente interno. È stato anche plasmato—se non attivamente ingegnerizzato—attraverso una guerra psicologica e informativa, in particolare tramite i media arabi finanziati dai paesi del Golfo, che hanno cercato di attribuire la responsabilità della campagna genocida israeliana alla resistenza stessa. In queste narrazioni, la “sconfitta” non era semplicemente un risultato ma una condizione permanente – un orizzonte politico in cui i palestinesi avrebbero dovuto stabilirsi, disarmati, disillusi e disciplinati.
In questo ambito, le voci dell’opposizione organizzata a Gaza possono essere ampiamente suddivise in tre categorie sociali e politiche. Innanzitutto, le strutture familiari tradizionali—clan potenti—che vedono la guerra come un’opportunità per affermare il controllo interno, ristabilire il proprio dominio e ottenere guadagni finanziari dagli aiuti in arrivo e dagli sforzi di ricostruzione. In secondo luogo, la vasta base sociale dei lealisti di Fatah, in particolare quelli allineati con Mahmoud Abbas o Mohammad Dahlan, che cercano di sfruttare la situazione per minare Hamas diffondendo argomentazioni e narrazioni che incolpano la resistenza per la devastazione. Il loro obiettivo è indebolire Hamas politicamente mentre si posizionano per una potenziale governance in uno scenario post-bellico. Il terzo è il desiderio disperato condiviso da molti palestinesi comuni che il genocidio finisca, che la violenza si fermi, che qualsiasi cosa possa frenare la volontà inarrestabile di Israele verso la mostruosità.
Il desiderio che la guerra finisca—e finisca subito—è diventato il fulcro di una campagna psicologica efficace, in cui il dissenso organizzato da parte di Fatah collabora volontariamente o involontariamente con la guerra informativa israeliana.
Centrale in questo sforzo è l’attribuzione della colpa, una sorta di discorso auto-flagellante che pone il peso della responsabilità interamente sulle spalle della resistenza. In questo quadro, il genocidio non diventa il crimine del perpetratore, ma la conseguenza della sfida palestinese. La narrazione chiede ai palestinesi di interiorizzare la colpa non per la loro sottomissione, ma per aver osato resistervi.
Ma al di là della costruzione discorsiva, la sua efficacia deriva anche dagli interessi in gioco—dalla posizione insostenibile di essere tenuti in ostaggio e costretti a sopportare. Questa è stata la condizione di Gaza: un luogo dove la sopravvivenza è sempre negoziata, dove il costo della parola è la morte, e dove le espressioni di auto-rinuncia non sono nuove, né sempre volontarie. Vengono tutti prodotti sotto assedio, sotto bombardamento, e sotto la lunga ombra di un colonizzatore che richiede sottomissione come prezzo del respiro.
Inoltre, il bombardamento incessante di Gaza e la distruzione su larga scala del suo ambiente costruito hanno prodotto una realtà radicalmente alterata. Questa nuova realtà è duplice. Primo, comporta l’indebolimento grave delle strutture di governance e della capacità delle autorità palestinesi di fornire servizi di base o di gestire la società—particolarmente nei settori della prevenzione del crimine e del contenimento delle vendette personali. Secondo, ha creato un senso di vuoto politico e amministrativo, ulteriormente aggravato dagli assassinii mirati di funzionari governativi da parte di Israele dopo il suo ritiro dall’accordo di cessate il fuoco. L’erosione della presenza istituzionale, sia fisica che simbolica, non ha lasciato dietro di sé solo una crisi nella fornitura di servizi, ma una frattura nella stessa idea di ordine—un ambiente in cui l’autorità è sempre più fragile e in cui forme alternative di controllo e potere informale iniziano ad affermarsi in assenza di un’infrastruttura statale.
Il secondo aspetto è l’improvvisazione di Gaza come terreno per l’acquisto di lealtà e alleanze politiche da parte di forze ostili sia a Hamas che alla resistenza in generale. Questo è in parte dovuto all’esaurimento dei risparmi della popolazione, alla distruzione dei beni e dei mezzi di sussistenza. Ma forse più centrale è il fatto che Gaza non è più la Gaza che era prima della guerra, a causa dei cambiamenti demografici e spaziali avvenuti dall’inizio delle violenze.
Questi cambiamenti nella capacità finanziaria della popolazione, nei movimenti stessi e nella composizione spaziale implicano che la politica locale a Gaza non possa più essere letta attraverso le stesse lenti di prima. . La guerra non ha solo sfollato le persone fisicamente, ma ha anche disorientato i tessuti sociali e le solidarietà basate sui quartieri che un tempo sostenevano la vita politica. Le aree che un tempo erano identificabili per le loro inclinazioni politiche—che fossero a favore di Hamas, Fatah o altre formazioni—sono ora disperse, le loro popolazioni frammentate e rilocate, talvolta più volte. Famiglie da Beit Hanoun si trovano ora a Rafah, quelle di Shuja’iyya sono in scuole trasformate in rifugi a Deir al-Balah. In queste condizioni, la stessa idea di una “base locale” fissa perde coerenza.
Le affiliazioni politiche sono messe a dura prova dalle urgenze della sopravvivenza, e le logiche della rappresentanza sono fratturate dal collasso stesso dello spazio. Non si può parlare della politica locale al passato, ma solo in un tempo di sospensione—di comunità tenute in transito, costrette a ricostituire posizioni politiche sotto assedio, lutto ed esaurimento. Ciò che emerge non è solo una crisi della governance o della resistenza, ma una crisi del politico stesso. Non è utile per nessun analista affermare, ad esempio, che Beit Lahia, dove si sono verificate alcune di queste piccole dimostrazioni, fosse un tempo una roccaforte di Fatah o di Hamas.
Detto questo, ciò che resta niente meno che miracoloso è che, dopo diciassette mesi di guerra, la società palestinese continua a esibire profonde forme di solidarietà interna. Nonostante l’inimmaginabile portata della distruzione, la frammentazione dello spazio e l’erosione della governance istituzionale, le persone trovano ancora modi per condividere, per far circolare risorse, per stare insieme in comune. L’idea di comunità non è scomparsa; persiste, ostinatamente, anche mentre le pressioni della guerra spingono sempre più gli individui verso la ricerca della salvezza personale o familiare. Sullo sfondo della frammentazione, dello spossessamento e della violenza incessante, la continua esistenza della vita comunitaria non è semplicemente un residuo del passato—è una forma attiva di resistenza, un rifiuto di permettere alla guerra di atomizzare completamente il tessuto sociale.
Il desiderio di certezza
La guerra è spesso descritta come un turbine – un collasso del passato, presente e futuro in un unico momento indistinguibile. Sospende la cronologia, frammenta la coerenza e introduce il primato del disorientamento, del disordine e dell’incertezza. In guerra, il tempo smette di scorrere; implode. Il significato diventa erratico e le strutture che un tempo ancoravano la vita – rituali, abitudini, memoria, anticipazione – vengono consumate nell’immediatezza della sopravvivenza. Per molti palestinesi, la certezza, anche se la certezza è quella della sconfitta, o della resa, è desiderata.
Queste manifestazioni sono un grido per la certezza – per l’ordine, per la coerenza e per qualsiasi cosa possa stabilizzare un mondo che precipita nell’ambiguità, specialmente in riferimento all’insopportabile incertezza di sapere se si vivrà o si morirà, se amici e persone care sopravviveranno alla notte. Non sono semplicemente gesti politici, ma suppliche esistenziali: tentativi di riaffermare la leggibilità di fronte al caos, di aggrapparsi a frammenti di significato quando il significato stesso è sotto assedio. Eppure sono anche espressioni di autodeterminazione – atti di affermazione di una qualche forma di controllo, anche quando quel controllo rinforza involontariamente la stessa macchina di massacro che cercano di fermare.
Questa è anche la tragedia di vivere sotto l’oppressione dell’orrore. Una vita in cui l’Altro è onnipresente, infesta ogni respiro come un angelo della morte – eppure l’unico volto a cui puoi gridare, obiettare o supplicare è il volto che rispecchia il tuo, segnato dalla stessa lingua, dagli stessi tratti. La macchina di sterminio ha sempre prosperato su tali disposizioni: crea le condizioni per la necrosi, per il fratricidio, per l’interiorizzazione della colpa. Lo fa essendo ovunque, ma rimanendo anche al di fuori, al tempo stesso presente e assente. Rende la vittima complice non nell’azione, ma nella disperazione, trasformando la resistenza in autoflagellazione e il dolore in auto-recriminazione. Eppure le grida, anche quelle di resa, rimarranno tragicamente inascoltate, o peggio ancora, alimenteranno ulteriormente la macchina da guerra.
* Abdaljawad Omar è uno scrittore e docente residente a Ramallah, Palestina. Attualmente insegna nel Dipartimento di Filosofia e Studi Culturali presso l’Università di Birzeit.