Il Decreto Legge Sicurezza: il golpe burocratico allo stato di diritto

Il 4 aprile 2025, il Consiglio dei Ministri ha approvato il controverso Decreto Legge Sicurezza, un provvedimento che solleva criticità evidenti tanto sul piano costituzionale quanto su quello politico. Il testo, a oggi (lunedì 7 aprile) non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, rappresenta una trasposizione del precedente Disegno di Legge 1236 (numerazione del Senato) o 1660 (Camera), con alcune modifiche che il Ministro dell’Interno Piantedosi ha definito addirittura come “valorizzazioni del dibattito parlamentare degli ultimi mesi” (chiaramente non delle idee provenienti dalle opposizioni).

L’iter legislativo di questo provvedimento è stato lungo e (fortunatamente) accidentato. Nato nel novembre 2023, il disegno di legge ha ottenuto l’approvazione della Camera nel settembre 2024, per poi arenarsi al Senato. In questo lungo passaggio parlamentare sono emerse criticità evidenti, eppure largamente ignorate dall’esecutivo. In primis, i rilievi del Quirinale, che Piantedosi ha apertamente scelto di non considerare – come egli stesso ha dichiarato nella conferenza stampa che ha seguito l’ultimo CdM. In secundis, le incongruenze economiche ferme al 2024 segnalate dai tecnici contabili, che avrebbero imposto una revisione del testo e quindi un nuovo passaggio alla Camera, in ossequio al principio del bicameralismo perfetto. Soprattutto questo Ddl ha incontrato sulla sua strada un’enorme opposizione sociale, culminata con la manifestazione dei 100 mila a Roma lo scorso 14 dicembre.

La scelta di procedere per decreto legge solleva dubbi gravi circa la sussistenza dei requisiti costituzionali di necessità e urgenza. Piantedosi ha motivato tale scelta con le “lungaggini parlamentari”, dichiarandolo senza vergogna e senza nemmeno farsi scrupolo di ignorare il dettato costituzionale. Un argomento che suona come un lampante pretesto, piuttosto che una reale urgenza: un tentativo trasparente di aggirare il confronto democratico.

Il ministro ha inoltre presentato il provvedimento addirittura come “di stampo sociale”, volto alla tutela delle fasce deboli. Tuttavia, gli esempi addotti a sostegno di questa tesi – come la persona che rientra dalla spesa o dall’ospedale e trova la casa occupata, o la donna incinta che “sfrutterebbe” la gravidanza per evitare la detenzione – sono costruzioni emotive, retoriche da talk show, piuttosto che risposte a reali emergenze sociali. Nessun dato, nessuna analisi di contesto – non perché mancanti, ma perché scientemente ignorati: i ministri hanno a disposizione tutte le evidenze, eppure scelgono deliberatamente la strada della narrazione emotiva, utile solo a legittimare un aumento della repressione.

Il Ministro della Giustizia Nordio, prima di abbandonare in fretta la conferenza stampa, ha cercato un’impossibile mediazione tra garantismo e panpenalismo, tentando un esercizio di equilibrismo retorico che ha lasciato irrisolti tutti i nodi giuridici sollevati. L’enfasi su concetti come “certezza della pena” e “sicurezza dei cittadini” ha il solito sapore dello slogan, altro che esigenza della società civile.

Le modifiche al testo originale, che dovrebbero rispondere alle preoccupazioni sollevate dal Parlamento, restano inaccettabili. E non è una sorpresa: i movimenti di protesta lo ripetono da tempo, questo disegno è strutturalmente inemendabile.

Tra le modifiche reintrodotte figura il famigerato art. 31, la norma conosciuta come quella che consente la schedatura da parte dei servizi segreti all’interno delle università. Con il colpo di mano governativo, si precisa ora che la collaborazione tra enti pubblici e servizi è “facoltativa”. Ma la questione resta gravissima: si apre uno spazio di sorveglianza incompatibile con ogni idea di libertà accademica.

Sul piano repressivo, permane l’assurda equiparazione tra resistenza attiva e resistenza passivaall’interno delle carceri e dei CPR. Il decreto chiarisce che si configura resistenza solo in presenza di violazioni di ordini impartiti “per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza”, evitando quindi che condotte disciplinari (come scioperi o proteste non violente) siano trattate come reati. Una precisazione che non attenua la pericolosità dell’impianto, che mira a criminalizzare la protesta in condizioni di detenzione.

Viene poi specificato che l’aggravante per violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale scattante per le proteste delle grandi opere pubbliche, riguardano solo “infrastrutture destinate all’erogazione di energia, trasporto, telecomunicazioni o altri servizi pubblici”. Una formulazione che di certo non attenua la pericolosità ma che è idonea a colpire ogni forma di contestazione, anche simbolica, contro i gangli vitali del potere economico.

Permane anche la norma sulle SIM per migranti, con un piccolo aggiustamento: si potrà presentare anche un documento di viaggio o un titolo equipollente. Ma il principio resta lo stesso: si introduce un filtro discriminatorio, un’ulteriore barriera alla libertà di comunicazione e di movimento.

Ancora più allarmante è la norma che riguarda le donne incinte in carcere. Si mantiene la facoltatività del giudice nel differimento della pena, ma si introduce l’obbligo di esecuzione in caso di “pericolo” o “possibilità di reiterazione”. Inoltre, la nuova disposizione che prevede il trasferimento in carcere ordinario – senza prole – per le donne che evadano o “compromettano l’ordine pubblico” negli ICAM, mina in modo drammatico la tutela dei minori e il principio dell’interesse superiore del bambino.

In conclusione, la scelta di procedere con un decreto legge, scavalcando l’iter parlamentare e ignorando i rilievi istituzionali, rappresenta un atto autoritario mascherato da efficienza. Le modifiche apportate sono minime, cosmetiche, incapaci di mascherare la natura profondamente regressiva del provvedimento. Non si tratta di un decreto migliorabile o riformabile: è un dispositivo punitivo, irriformabile nel suo impianto ideologico.

Questo decreto non va emendato, va respinto. È l’ennesimo tassello di un progetto autoritario che utilizza il diritto penale come strumento di governo, che reprime il dissenso, punisce la marginalità, sorveglia le università, umilia le donne, criminalizza la povertà e l’immigrazione. La parola d’ordine non può essere “correggere”, ma abolire. La mobilitazione non si arresta, perché la democrazia reale o è garantista e sociale, o non è. E davanti al tentativo di normalizzare lo stato d’eccezione, l’unica risposta possibile è la disobbedienza.

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