Cannibalizzazione e resistenza: l’ecopolitica anticapitalista di Nancy Fraser

Intervista alla prof. Nancy Fraser, fatta in occasione della sua partecipazione alla conferenza “Marx in the Anthropocene” all’Università IUAV di Venezia. Nancy Fraser è una filosofa e teorica critica femminista statunitense, autrice di molti libri e articoli tra cui Redistribuzione o riconoscimento: lotte di genere e disuguaglianze economiche (Meltemi, 2007) con Axel Honneth, Femminismo per il 99% (Laterza, 2019) con Cinzia Arruzza e Tithi Battacharya e Capitalismo Cannibale (Laterza, 2023). Nel suo keynote speech ha descritto gli elementi che definiscono il sistema capitalista come sistema “cannibale”, le cui crisi strutturali mettono a repentaglio le sue stesse condizioni di possibilità. L’invito di Fraser, ora più che mai, è quello di costruire movimenti ambientalisti che mettano al centro un’analisi e una pratica anticapitalista e che siano in grado di costruire alleanze con altri movimenti contro le disuguaglianze sociali, razziali e di genere. 

Na Haby Stella Faye

Nel suo discorso alla conferenza Marx in the Anthropocene, sostiene che l’ecopolitica, e quindi l’agire politico ambientalista, debba essere anticapitalista e trans-ambientale. E questo è ciò che afferma anche nel suo libro, Cannibal Capitalism, pubblicato da Verso nel 2022 e da Laterza nel 2023 per l’edizione italiana. Volevo quindi chiederle se vuole riassumere brevemente cosa intende dire.

Nancy Fraser

La prima cosa da dire è che ci troviamo in un momento di crisi generale estremamente grave e acuta, in cui la crisi ecologica è intrecciata e aggravata da altri aspetti di questa crisi generale, tra cui la crisi politica, la crisi della democrazia, l’ascesa dell’estremismo autoritario di destra, insieme alla crisi economica, la precarietà e l’insicurezza dei mezzi di sussistenza per le persone in tutto il mondo, comprese quelle che fino a qualche decennio fa pensavano di avere un sostentamento abbastanza sicuro e decente. Quindi, un peggioramento delle condizioni economiche per la grande maggioranza delle persone sul pianeta.

Inoltre, quella che alcuni chiamano “crisi dell’assistenza o della riproduzione sociale”, che ha a che fare con l’enorme pressione sul tempo, rende estremamente difficile per le persone guadagnarsi da vivere, curare e mantenere le proprie famiglie e comunità. Tutto questo accade in contemporanea ed è un raro tipo di crisi che non è settoriale, non investe solo un settore di tutti questi. È una cosa rara nella storia. In passato, nelle poche occasioni in cui abbiamo affrontato crisi di questo tipo, ad esempio negli anni ’30, esse sono state risolte dopo molto tempo, grazie a un cambiamento piuttosto importante nella natura del capitalismo. Ma ciò ha richiesto una sorta di cooperazione tra le forze mobilitate dal basso e le élite che, invece di reprimere tali forze, hanno trovato un modo per utilizzarle. Così abbiamo avuto, negli Stati Uniti, il New Deal, o la socialdemocrazia nell’Europa settentrionale e occidentale, e così via. Il tutto, ovviamente, continuando a drenare ricchezza dal Sud globale, nonostante la decolonizzazione e la presunta indipendenza politica.

In ogni caso, ora ci troviamo in questo tipo di crisi e nel mio libro sostengo che la radice di questa crisi, come di tutte le precedenti, è qualcosa di fondamentale nel cuore del capitalismo, ed è la spinta implacabile e inarrestabile ad accumulare capitale. Non solo attraverso lo sfruttamento dei lavoratori salariati nelle fabbriche, che è l’immagine che credo la maggior parte delle persone abbia di cosa sia il capitalismo, di cosa e come accumuli. Tutto questo è vero. Ma oltre a questo, l’accumulazione del capitale si basa su quella che io chiamo cannibalizzazione. Si tratta semplicemente di sottrarre ricchezza alle famiglie, alle comunità, alla natura, alle popolazioni sottomesse e razzializzate, non libere o semi-libere, di prendere tutta quella ricchezza e di non reintegrarla, in modo che gli operai delle fabbriche vengano almeno pagati, per i loro costi di vita, per il loro lavoro socialmente necessario. Ma in questi ed altri casi non si ottiene nemmeno quello. È fondamentalmente una ricchezza che viene saccheggiata o rubata e non viene compensata, e certamente non viene reintegrata o ripristinata. Questa credo sia la radice della crisi e non penso che possa essere risolta completamente senza disattivare la dinamica di accumulazione che è fondamentale per il capitalismo. Questa è la prima parte della domanda.

L’ecopolitica deve essere anticapitalista, perché in questo momento siamo in una fase tale per cui, da un punto di vista ecologico,  non è chiaro se ci sia il tempo o la possibilità di un nuovo tipo di capitalismo in grado di risolvere la crisi planetaria. Ho dei dubbi. Forse non possiamo dimostrarlo in modo assoluto, ma credo che a questo punto sia molto meglio optare per l’anticapitalismo. Tuttavia, poiché la crisi ecologica è così strettamente legata e intrecciata a queste altre dimensioni di crisi, che in un certo senso scaturiscono tutte dalla stessa dinamica di cannibalizzazione – della natura, della cura, dei poteri e delle capacità pubbliche, delle popolazioni razzializzate e dei lavoratori più in generale – non si può avere un movimento ambientalista a sé stante. Questo non è sufficiente. Molte persone vengono convinte dall’ideologia dominante che proteggere la natura significhi perdere lavoro e mezzi di sussistenza. Si fa loro credere che opporsi allo sviluppo metta a rischio la sopravvivenza economica e sociale, che invece dipenderebbe proprio da quello sviluppo e dai posti di lavoro che genera. Ma questa è un’ideologia, ed è falsa. Eppure, molte persone ci credono.

Penso sia necessario costruire quello che chiamo un blocco storico trans-ambientale di forze sociali, capace di mettere in connessione persone con preoccupazioni diverse ma intrecciate. Da un lato, chi è direttamente colpito da problemi ecologici urgenti — come chi vive in zone alluvionali, in aree soggette a incendi o in territori minacciati dall’innalzamento del livello del mare. Dall’altro, chi è preoccupato soprattutto per il sostentamento quotidiano, la cura dei figli e degli anziani, chi fugge dalla violenza o cerca condizioni di vita più sicure, o ancora chi vede venir meno la fiducia nei governi, incapaci o non disposti a garantire i beni pubblici necessari a una vita dignitosa. L’obiettivo è unire queste diverse istanze in una comune alleanza per la giustizia ecologica e sociale.

In altre parole, sto cercando di suggerire che per trasformare davvero il sistema è necessario un grande aumento non solo della resistenza, ma anche delle alleanze politiche trasformative che uniscono i sindacati e i lavoratori non sindacalizzati con i difensori delle famiglie, delle donne, i movimenti femministi, i movimenti ecologici, dei contadini, così come di coloro che si concentrano sul riscaldamento globale in senso planetario, i difensori della democrazia, eccetera, eccetera. Questo è ciò che chiamo trans-ambientalismo, non ambientalismo monotematico, ma le lotte, le forme di contestazione ecologica che apprezzano la natura intrecciata del problema, della crisi, e che vogliono fare causa comune con persone le cui priorità e situazioni possono essere leggermente diverse, o forse anche drammaticamente, ma che hanno tutte lo stesso nemico, che sono tutte nella terribile posizione in cui si trovano a causa di questo capitalismo cannibale

English version

Na Haby Stella Faye

Thank you so much to Professor Nancy Fraser for according to this interview. A couple days ago, you gave a speech at the conference Marx in the Anthropocene and your main argument was that eco-politics, environmental politics, should be anti-capitalist and trans-environmental. And this is also the argument that you make in your book, Cannibal Capitalism from Verso. So I wanted to ask you, if you wanted to briefly sum up what you mean by this.

Nancy Fraser

Happy to do that. And thanks for inviting me for the interview.So I mean, the first thing to say is that we’re in an extremely severe and acute moment of general crisis in which the ecological crisis is intertwined with and exacerbated by other aspects of this general crisis, including the political crisis, the crisis of democracy, the rise of authoritarian right wing extremism, also the economic crisis, the precarity and insecurity of livelihoods of people across the world, including those who until a few decades ago thought they had a pretty secure and decent livelihood. So, the worsening of economic conditions for the vast majority of people on the planet. Also, what some people call a “crisis of care or social reproduction”, which has to do with, let’s say, the tremendous pressure on time, which makes it extremely difficult for people to simultaneously earn their living and keep their families and communities cared for and intact. So all of this is going on at the same time and it’s a rare kind of crisis where it’s not sectoral, it’s not just one sector of all of these. That’s rare in history. And in the past, on a few occasions when we faced crises like this, say in the 1930s, they were eventually resolved after a long time, by a pretty big change in the nature of capitalism but that required some kind of, let’s say, cooperation between mobilized forces from below and elites who instead of repressing those forces found a way to use them. So we got, in the United States, the New Deal, or social democracy in Northern and Western Europe, and so on. All of course, still draining wealth from the Global South, despite decolonization and political independence, supposedly. Anyway, we’re in this kind of crisis now, and I argue in my book that the root of this crisis as in every such previous crisis is something fundamental at the heart of capitalism, and it is this relentless, unstoppable drive to accumulate capital. Not only through the exploitation of paid workers in factories, which is the picture I think that most people have about, you know, what capitalism is, what, how it accumulates. That’s all true. But in addition to that, capital accumulation relies on what I call cannibalization. That is just simply taking wealth from families, from communities, from nature, from subjugated and racialized, unfree or semi-free populations, taking all that wealth and not replenishing it so that factory workers at least are supposed to get paid, right, for their living costs, their socially necessary labor, but in these other cases, you don’t even get that. It’s basically wealth that is looted or stolen and not compensated and certainly not replenished or repaired. That I think is the root of the crisis and I don’t think it can ever be fully resolved without disabling that accumulation dynamic that is fundamental to capitalism. Now, that’s the first part of your question.

Ecopolitics has to be anti-capitalist, because we’re at such a stage at this moment that it’s not clear, from an ecological perspective, that there is actually time or even the possibility of a new kind of capitalism able to resolve the planetary crisis. I have my doubts. We can’t maybe prove it absolutely, but I think we’re much better off going with anti-capitalism at this point. However, because the ecological crisis is so tightly linked up to and entwined with these other dimensions of crises, all in a sense, flowing from the same dynamic of cannibalization: cannibalization of nature, cannibalization of care, cannibalization of public powers and capacities and of racialized peoples and so on, of working people more generally, you can’t have a stand alone environmental movement. That is not going to cut it. Because, you know, for many people, many people get convinced by the dominant ideology of the system that if you, you know, try to protect nature, you’re taking their jobs and livelihoods away from them, right? You’re opposing development, and their sort of economic and social survival depends on development and jobs. This is an ideology, and it’s false, but it’s believed.

And I think one has to create what I’m calling a trans-environmental historical block of social forces that would connect people whose central and immediate concerns are ecological because they’re living in floodplains or wildfire areas or rising sea areas that are going to destroy their their homes and so on to be able to unite people for whom ecology is the most pressing concern, with others whose pressing concerns have to do with livelihood or family and the ability to care for children and aging parents and so on. For people who are, like, fleeing violence, attempting to migrate to safer places, people, for whom governments that they thought they could rely on to provide the public goods that they need in their communities to live well are not providing those things either cannot or will not. So in other words, I’m trying to suggest that to really transform the system requires a big scaling up of not just resistance but transformative political alliances that would unite trade unions, and non-unionized workers with advocates for families, for women, feminist movements, ecological movements, of peasants, as well as of those who are focused on, on global warming in the planetary sense, defenders of democracy, et cetera, et cetera, and that’s what I’m calling trans-environmental, not single issue environmentalism. But struggles, the forms of ecological contestation that appreciate the intertwined nature of the problem, of the crisis, and, which, you know, want to make common cause with people whose priorities might, and situations might differ slightly, or maybe even dramatically, but who all have the same enemy, who are all in the terrible position they’re in because of this Cannibal Capitalism.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento