Di Rita Remagnino, ereticamente.net
Se in tempi preistorici gli oceani non avessero funzionato come una formidabile catena di trasmissione, oggi non dovremmo interrogarci sulla presenza di imponenti tumuli di foggia europea nel sud dell’attuale Wisconsin, in diverse zone del Messico e nell’America Centrale. Né le nostre certezze sarebbero messe in discussione dalle maschere elefantine (mammut?) presenti su alcuni reperti di origine olmeca esposti a La Venta e al Museo de Antropologia di Xalapa.
Negando l’evidenza la militanza progressista sostiene che gli «elefanti messicani» sono tapiri; ma per mettere questa riservata creatura notturna sullo stesso piano di animali-totem come il giaguaro, l’aquila e il serpente, bisogna entrare nel regno della fantasia: un posto, come osservò Calvino, “dove ci piove dentro“. Meglio prendere in considerazione la mole di scambi, contatti e ibridazioni proseguiti per millenni, prima del sensibile innalzamento dei mari che rese inagibili le rotte atlantiche.
Intimidito, ma soprattutto frustrato, il desiderio umano di avventura si tramutò pian piano in odio. L’Atlantico venne mostrificato, trasformandosi in uno dei simboli più potenti della paura. Nella la Bibbia, per esempio, il mare oceanico fu associato al caos esistito prima dell’intervento divino (Genesi 1:2), in contrapposizione con la Terra, espressione di ordine e armonia (M. Eliade, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino, 2006). L’Apocalisse arrivò perfino ad annunciarne la scomparsa, il giorno in cui gli eserciti del Bene avrebbero trionfato sull’impero del Male (21:1).
Una descrizione attribuita ad Avieno, un poeta romano del tardo impero, riporta così le parole di Imlico cartaginese, vissuto circa mille anni prima: “Più lontano, a ponente delle Colonne, v’è un mare sconfinato … Non una nave si è arrischiata su questo mare profondissimo, perché non c’è un filo di vento per muovere le vele … e anche perché l’oscurità ricopre la luce del giorno come un velario, e una nebbia incessante nasconde il mare” (L. Antonelli, Il periplo nascosto – Lettura stratigrafica e commento storico-archeologico dell’«Ora maritima» di Avieno, Esedra, Padova, 2009).
Nel XII secolo il geografo arabo Al-Idrisi definì l’Atlantico il «Mare delle Tenebre»: “Nessuno conosce cosa ci sia in questo mare, a causa dei molti ostacoli alla navigazione: oscurità profonda, onde colossali, continue tempeste, innumerevoli mostri che lo abitano, e venti impetuosi. I marinai non osano penetrarvi, e si limitano alla navigazione lungo la costa senza perdere mai di vista la terra” (Idrisi, Il Libro di Ruggero, Flaccovio Editore, Palermo, 2012).
Da parte sua Cristoforo Colombo (o chi per lui), disse: “Occhi umani non videro mai un mare così alto e cattivo e schiumeggiante, tanto che sembrava fatto di sangue, bollendo come una caldaia per il gran fuoco.” Ai margini delle mappe disegnate dai cartografi spiccava l’avvertenza “hic sunt dracones”, mentre nel mondo marinaro si moltiplicavano le voci sulla presenza, nelle profondità degli abissi, di orribili creature come il Kraken, un calamaro gigante in grado di inghiottire intere le navi e divorare gli equipaggi.
Negli ambienti portuali non circolava una sola storia priva di un mostruoso discendente del Leviatano, creatura a sua volta ispirata alla gigantessa Tiāmat dell’Enûma Eliš. L’aumento delle paure umane andò di pari passo con la modificazione dell’assetto antropologico della società; finché, si dovette ammettere l’evidenza dei fatti: il legame che univa l’uomo al mare era indissolubile, perciò demonizzare uno significava sminuire l’importanza dell’altro, essendo Bene e Male due facce della stessa medaglia.
Per esempio: dopo la resa di Teotihuacán, letteralmente «il luogo degli dèi», il popolo del divino Quetzalcóatl ebbe salva la vita grazie al mare, svignandosela a bordo di grandi navi dalle fiancate «splendenti come le squame della pelle di serpenti» che si muovevano (a vela?) «da sole senza pagaia» (E. Cardenal, Quetzalcoatl. Il serpente piumato, Mondadori, Milano, 1989).
Prendendo il largo i serpenti piumati promisero ai loro beniamini che sarebbero tornati per regolare i conti con gli avversari nell’anno 1-Acatl (Uno-Canna), corrispondente al 1519 del calendario gregoriano. Combinazione in quella data, Hernán Cortés approdò sulle coste dello Yucatán con la sua piccola flotta. Folle di devoti al culto di Quetzalcóatl esplosero in giubilo: dopo millenni di attesa, l’immortale Signore dagli occhi glauchi era finalmente tornato! A lungo ne avevano seguito le evoluzioni in cielo, venerando la sua fulgida danza nelle vesti di Stella del Mattino. Adesso, però, il dio era lì; non più visione celeste ma presenza terrena, palpabile e maestosa (C.A Burland, Montezuma signore degli Aztechi, Einaudi, Torino, 1976).
Mai fidarsi delle profezie. Il suggestionato che suggestiona è un pericolo pubblico, diffondendo “una specie di «epidemia» psichica altamente contagiosa, la quale però rientra anche troppo bene nel piano di sovversione per essere «spontanea», anzi, come tutte le manifestazioni del disordine moderno (ivi comprese le rivoluzioni che gli ingenui ritengono «spontanee») presuppone per forza di cose una volontà cosciente al suo punto di partenza” (R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi, Milano, 1982).
Dalla Storia al Mito
Col tempo, gli equilibri di potere mutarono. Il ricordo dell’opera prometeica degli «dèi portati dalle acque» era ancora vivo, sempre più evidenti apparivano tuttavia le vulnerabilità degli esseri ritenuti divini, i quali, al pari di tutti i mammiferi si ammalavano e morivano. Fu allora che il culto si fece pragmatico, lasciando ad ogni singolo fedele la facoltà di decidere se venerare il Superiore, evitarlo o semplicemente tenerselo buono. I presunti dèi apparivano ancora come la causa scatenante o concomitante di ogni evento, benevolo o funesto, ma il loro seguito non era più cieco. Se un dio si mostrava distratto o inefficace, i fedeli non esitavano a voltargli le spalle, cercando rifugio in un’altra divinità, più sollecita alle necessità del popolo.
Poco alla volta le figure dei navigatori-civilizzatori venuti dal mare scivolarono nel mito insieme alle imbarcazioni che li avevano condotti nelle nuove patrie, o allontanati da esse. Varcando la soglia del Regno dei Morti, i fedeli cercavano di emularli, come rivela il ritrovamento nel Tarim di alcune mummie (risalenti a 4.800-5.000 anni fa) sepolte in bare a forma di barca con i remi posati dietro il capo.
Un’incongruenza in pieno deserto, se non si sapesse che i «maestri» di queste popolazioni agricole – dedite alla coltivazione di orzo e grano, alla produzione di formaggio e all’allevamento del bestiame – provenivano dal Mar Nero russo e dal Caspio iraniano. O forse da terre ancora più remote, perdute nella nebbia del tempo.
Attingendo agli archivi di Babilonia il sacerdote Berosso raccontò che le genti mesopotamiche furono istruite dagli Oannes, uomini-pesce (cioè, navigatori post-diluviani) che insegnarono alle tribù incolte come scrivere e fare i calcoli, costruire città e vivere in modo civile, dividere la terra e seminarla.
Presso i popoli affacciati al bacino semi-lacustre del Mediterraneo si diffuse invece il Navigium Isidis, una processione incentrata su un’imbarcazione adorna di addobbi floreali e nastri variopinti. Il rito commemorava la dea che aveva solcato tutti i mari per recuperare (e riunire grazie alla magia) le membra dello sposo Osiride, fatto a pezzi dal fratello Seth.
Ogni anno, in corrispondenza della prima luna piena dopo l’equinozio di primavera – simbolo del risveglio della natura – i devoti facevano scivolare in acqua la sacra barca. Con l’avvento del cristianesimo all’effige di Iside si sostituì la statua della Vergine Maria, che ancora oggi durante le feste patronali legate agli equinozi viene portata in processione lungo il fiume su una barca addobbata di fiori. Ignari dell’antichissimo retaggio pagano che stanno perpetuando, i fedeli rimarrebbero sconvolti se solo potessero immaginare la vertiginosa profondità temporale di questa tradizione.
Sempre in Egitto, a Karnak, il dio lunare Khonsu – il «navigatore», «colui che attraversa il cielo in barca» – era raffigurato con una treccia raccolta sulla tempia alla maniera dei Popoli del Mare che invasero il delta durante il regno di Ramses III (1218 – 1155 a.C. circa). Non sappiamo se le sue origini fossero fenicie, ma tra i popoli mediterranei era diffusa la credenza che Khonsu proteggesse i marinai durante le ore notturne. Essendo inoltre un potente guaritore, egli veniva invocato durante le fasi di luna crescente per aumentare la potenza sessuale maschile, ovvero favorire la fertilità femminile.
Viaggiando nella preistoria accade spesso d’incontrare «dèi in barca» capaci di muoversi agilmente tra l’Aldiquà e l’Aldilà. Potrebbe radicare in questi antichissimi retaggi l’idea dello psicopompo traghettatore di anime estesa dall’America Centrale all’Antico Egitto, dove il defunto compiva parte del suo viaggio ultraterreno su imbarcazioni pilotate da «semi-déi pagaiatori». Quando infine la speculazione metafisica si elevò dal mondo marino al firmamento, «salirono a bordo» anche il Sole e la Luna, le cui falci sembravano scafi, mentre il disco solare era una magnifica ammiraglia regale eternamente in rotta attraverso l’oceano celeste.
Anche i popoli nordici affidavano i cadaveri all’acqua, insieme a corredi funerari che variavano a seconda dello status del defunto. Presso i Vichinghi, per esempio, si osservava il seguente rituale: il corpo senza vita veniva adagiato sul fondo di una barca le cui assi erano state preventivamente cosparse di olio combustibile, o resine infiammabili; poi, l’imbarcazione veniva spinta al largo affinché da terra i congiunti potessero innescare il processo di cremazione, colpendo lo scafo con frecce incendiarie.
Il Medioevo cristiano demonizzò infine l’onorato servizio del traghettatore di anime, il quale faceva la spola dal mondo dei vivi all’Ade sul fiume sotterraneo. Intimamente eurasiatico, il genio dantesco trovò un compromesso: fermi restando i tratti demoniaci di Caronte, il vecchio barbuto dallo sguardo fiammeggiante restava pur sempre un oscuro strumento nelle mani della giustizia divina. La sua autorità fu pertanto estesa dalle anime dannate a quelle purganti, destinate a proseguire il viaggio sull’imbarcazione più eterea e rassicurante dell’«angelo nocchiero». Da Omero a Dante, insomma, il passaggio cruciale ruota attorno a navi e naviganti. Tuttavia sarebbe ingenuo da parte nostra ridurre a meri simboli gli elementi acquei, che, invece, ebbero solide basi storiche.
Coni d’autrice
Il declino del mondo marittimo non incrinò il profondo legame tra l’uomo e l’acqua, ma lo trasformò. Si trattava, d’altra parte, di un sodalizio antidiluviano, come testimoniano le pitture rupestri di Altamira (19.000 anni fa), dove le scene di caccia si alternano alle raffigurazioni di imbarcazioni.
In futuro questo patto diventerà ancora più vincolante poiché l’acqua, oltre a rimanere essenziale per la sopravvivenza, è indispensabile per refrigerare i server dei data center, soggetti al surriscaldamento. Ma torniamo alla preistoria, spostando il focus sul passaggio dall’acqua salata dei mari alle acque dolci dei fiumi.
Il cambiamento non favorì soltanto la nascita di importanti civiltà fluviali (lungo l’Indo, il Fiume Giallo, il Nilo, il Tigri e l’Eufrate), ma segnò una transizione antropologica dal tipo di vita apolide e cosmopolita dei marinai al modello agricolo-sedentario, cioè «conservativo», dei contadini-allevatori. Una tendenza che innescò il processo di ascesa sociale delle donne, alle quali, oltre all’orticoltura e alla cura della prole, era affidato l’assemblaggio di pelli d’animale per la realizzazione delle abitazioni mobili utili alla transumanza.
Queste case avevano una forma conica, tronca o appuntita: base ben piantata in terra e cima rivolta al cielo, ad immagine e somiglianza della protettiva Montagna Sacra primordiale. Sulla cima, sia nella yurta asiatica che nel tipì dei villaggi indiani, c’era un foro di apertura superiore simile a un «occhio», il quale, lungi dall’essere un semplice sfiato per il fumo che si alzava dal focolare, costituiva lo spazio simbolico da cui passava l’axis mundi di cui l’essere umano costituiva la massima espressione [immagine 1].
Quando la tribù si spostava, era compito delle donne smontare e rimontare le tende. “Gli uomini sono nati per vivere nei tipì, non nelle scatole che chiamate appartamenti,” disse un giorno Tȟáȟča Hušté, ribattezzato dall’uomo bianco John Lame Deer, uno degli ultimi sioux sopravvissuti all’olocausto dei Nativi americani. “Avete trasformato gli uomini in timbratori di cartellini e le donne in casalinghe: creature davvero terribili. Vivete in prigioni che voi stessi avete costruito e chiamate «case», «uffici», «fabbriche».
Senza comprenderne il profondo significato simbolico, gli Europei scoprirono queste abitazioni quando gli Incas raccontarono ai conquistadores di avere strappato le loro terre ai Chachapoyas (i guerrieri delle nubi). Forse originari delle foreste nebbiose dell’attuale regione di Amazonas (Perù), i membri di questo strano popolo avevano la pelle più chiara rispetto agli altri nativi, osservavano tradizioni particolari e costruivano strutture circolari con i tetti conici – abitazioni, magazzini, luoghi cerimoniali – che ricordavano civiltà antichissime come quelle di Huari e Tiahuanaco.
Fuori dall’ordinario era anche la loro usanza di radunare le salme in tumuli ispirati alla montagna-mondo, dove volti dipinti su sarcofagi disposti in verticale venivano agghindati con collane, circondati di abiti e corredati di effetti personali appartenuti al defunto, quasi a volerne preservare l’identità oltre la morte.
Recenti studi hanno individuato negli ultimi Chachapoyas la componente genetica dei cacciatori eurasiatici (aplogruppo R1b), oggi piuttosto rara in America. Solo l’isolazionismo ha permesso a questo popolo di conservare per così tante generazioni i capelli rossicci e i tratti del volto europoidi, caratteristiche di gran lunga anteriori alla colonizzazione colombiana.
Dal Riflesso alla Luce, poi l’Ombra
Ormai disabituate a guardare oltre il mare, le popolazioni del continente eurasiatico consolidarono le proprie radici culturali mettendo in primo piano il ruolo della terra, e quindi della donna. Non più legata alla fertilità come ai tempi delle formose Veneri paleolitiche, la femminilità divenne snella e dinamica, adatta a rivestire funzioni sacre e protettrici. “Tipico dell’immaginario delle popolazioni ugrofinniche è che la terra e gli altri elementi, nonché i fenomeni naturali del mondo di mezzo (acqua, fuoco, vento, foresta, ecc.) siano incarnazioni di divinità femminili, di «spiriti materni»” (a cura di M. Hoppal e J. Pentikainen, Northern Religions and Shamanism, Vol 3, Akademiai Kiado, 1993).
Oltre a generare la Vita le donne officiavano la Morte, che, in fondo, era un’altra Vita, più piena e completa della precedente. L’iconografia si adeguò, cominciando a raffigurare il lato femminile dell’essere umano attraverso la forma pura ed essenziale di un cono stilizzato, oppure di una piramide bianca, colore che alludeva al sacrificio.
Tracce di queste usanze sono visibili in reperti archeologici trovati a Cipro e Malta, dove le pietre coniche potrebbero essere legate all’influenza dei Fenici scesi dall’area nordatlantica. Altri segnali sono emersi dai canyon del Sinai, tra i quali continuano ad affiorare enigmatici coni di arenaria. Senza dimenticare che era un enorme cono anche la Torre di Gerico, in Cisgiordania, vecchia di 11mila anni e considerata il primo «grattacielo» dell’umanità.
Secondo la tradizione, la torre vegliava maternamente sui dintorni, esercitando un’azione protettiva. Come un’«antenna», essa catturava i giochi di luce del solstizio d’estate, e, al termine del giorno più lungo dell’anno, quando l’ombra del vicino monte Quruntul la colpiva, prima di allargarsi sulla città, parava simbolicamente i primi colpi della «fase buia» in arrivo.
Ma nemmeno conducendo una vita sedentaria sotto l’occhio onnisciente della Dea, che tutto scrutava e proteggeva, l’uomo riuscì a trovare un po’di pace, appartenendo a una specie che non conosce il senso della misura. In cerca di emozioni si gettò a capofitto nell’Amore fisico, psichico, sociale e magico: le «regine» persero il controllo della situazione, i regni piombarono nel caos e le comunità annegarono in un mare di eccessi.
Storicamente il tramonto del periodo «europeo matriarcale», in cui il pantheon era dominato da divinità femminili che manifestavano la loro energia attraverso gli elementi tellurici (acqua/luna, terra, pietre, piante), coincise con l’affermarsi del nuovo ordine «indo-ario androcratico», che, all’opposto, reclamava una società disciplinata e regolata da energiche divinità maschili associate ai fenomeni uranici (fuoco/sole, cielo, stelle, tuono, eccetera).
A partire dal 4.000 a.C. circa, la visione complessiva passò gradualmente dal Riflesso (lunare) alla Luce (solare), uno spostamento che dal piano sottile finì per coinvolgere ogni aspetto del quotidiano. Il corpo astrale, etereo, si eclissò per permettere all’Io, intrinseco e congenito, di affermarsi con l’uso della forza. Ma poiché gli antenati preistorici, a differenza nostra, non avevano bisogno di denigrare il passato per vivere nel presente, gli adoratori della Dea continuarono indisturbati a onorare la Grande Madre del tempo precedente.
Soprattutto nelle aree più meridionali che abbracciavano il Mediterraneo, il sostrato ginecocratico non scomparve completamente. Tanto è vero che tuttora ai margini delle nostre città iperconnesse vengono regolarmente visitati sia i boschetti sacri sia le fonti di acque miracolose, mentre il calendario continua a scandire le ricorrenze legate all’anno agricolo sotto forma di feste patronali.
Si direbbe che la Dea non abbia mai veramente abbandonato il suo trono, mimetizzandosi nelle pieghe del tempo, perciò rispettarla senza false nostalgie potrebbe essere un segno di saggezza. Dopotutto il futuro più promettente non è quello che dimentica, ma quello che affida la custodia del proprio passato a un server in modo che preservi, senza saperlo, ricordi di vite vissute che altrimenti sarebbero state spese inutilmente.
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