di Marco Bersani, Attac Italia
I reiterati appelli all’unità nazionale da parte delle istituzioni continuano a rimuovere il conflitto di fondo che pone, da una parte, il mondo delle imprese, per le quali l’obiettivo primario è non fermare alcuna produzione e, dall’altra, i lavoratori in lotta per il proprio diritto alla vita e alla salute. Un conflitto che ha visto diversi scioperi spontanei auto-organizzati dai lavoratori (solo in un secondo momento sostenuti anche dai maggiori sindacati), per rivendicare la chiusura di tutte le produzioni non fondamentali, al fine di difendere la salute collettiva ed evitare di divenire carne da macello sull’altare dei profitti di pochi.
Un conflitto che ha avuto e continua ad avere come teatro principale i territori di Brescia e Bergamo, le due aree più industrializzate d’Europa, divenute in queste settimane i simboli della trasformazione di un serio problema sanitario in una tragedia di massa.
Il rapporto fra il numero di imprese aperte e la diffusione dei contagi è sempre stato negato da Assolombarda, il cui presidente Carlo Bonomi, non più tardi di dieci giorni fa dichiarava: “Non credo ci sia questo rapporto, nessun dato conferma un’ipotesi di questo tipo. Piuttosto noto che si sta cercando di far passare l’idea che la colpa del contagio siano le imprese. E un paradigma del sentimento anti-industriale che c’è nel nostro Paese” (intervista a La Repubblica, 21 marzo).
Ma la realtà è ben diversa e, mentre ai cittadini viene impedito qualsiasi uscita di casa, anche solo per far passeggiare i bambini, fino al 25 marzo scorso erano attive in tutto il Paese oltre 800.000 imprese (155.000 della quali in Lombardia).
Che fossero tutte legate ad attività fondamentali per l’emergenza sanitaria si è rivelata una bugia dalle gambe cortissime, come ha dimostrato lo studio dei ricercatori Matteo Gaddi e Nadia Garbellini dal quale si evince come, fra tutte le persone costrette al lavoro, fossero almeno 4,5 milioni quelle impiegate in produzioni non fondamentali. L’accordo del 25 marzo, salutato dai maggiori sindacati come una vittoria, ha in realtà influito pochissimo sui numeri sopra riportati, essendo state subito migliaia le richieste di deroga messe in campo dagli imprenditori sulla base di semplici autocertificazioni (!).
Non soddisfatta di questo vergognoso risultato -che rivela la totale sudditanza del governo ai desiderata delle imprese – Confindustria ha aperto un nuovo fronte: la richiesta di soldi per garantire liquidità alle aziende. Questa volta si è espresso direttamente il Presidente Vincenzo Boccia: “Occorre salvaguardare tutte quelle aziende che avranno fatturato prossimo allo zero: c’è bisogno di liquidità. Serve un Fondo di garanzia nazionale, ampliato anche a livello europeo, che “copra” le imprese per il credito a breve in questa fase di transizione, da economia di guerra, con la possibilità di rendere questo debito di guerra in tempi lunghi, ossia 30 anni. E’ l’unico modo per evitare che alla fine di questa crisi le imprese non possano più aprire”.
Ma è davvero così drammatica la situazione delle aziende italiane? Sembra proprio il contrario, stando ad un ulteriore e dettagliato studio prodotto dai medesimi ricercatori che, analizzandone minuziosamente i bilanci, dimostra come, le imprese del settore metalmeccanico abbiano una disponibilità pari a 99 miliardi (25 dei quali di liquidità immediata); le imprese del settore chimico-tessile-gomma-plastica-energia possano contare su 112 miliardi (32 di liquidità immediata) e le imprese del settore cartaceo abbiano a disposizione 7,8 miliardi (2 di liquidità immediata).
Come si può intuire, non siamo di fronte ad alcun nemico esterno ed invisibile da contrastare con un rinnovato sentimento di unità nazionale: siamo ancora una volta dentro un conflitto tra la vita e la salute di tutti e il profitto dei soliti noti.
Si tratta semplicemente di scegliere la vita. Tutte e tutti assieme, la vita.