Sono trascorse ormai tre settimane dall’inizio delle rivolte nelle cinquanta carceri italiane, giorni duri in cui abbiamo visto morire quattordici persone.
La scintilla rivoltosa nacque a causa del provvedimento del Ministero della Giustizia, reo di aver sospeso, causa Covid19 e pericolo contagio connesso, le visite esterne per i detenuti, già ampiamente sprovvisti di tessuti educativi, sanitari, relazionali alle loro spalle. Quella fu l’occasione per i detenuti di rappresentare le proprie dimostranze, quella della situazione carceraria che tenta di trascinarsi claudicante sui banchi istituzionali da decenni.
Da allora, la situazione carceraria prosegue nella solita emergenza che la caratterizza, e, seppur alcuni organismi giurisdizionali percorrono passi importanti, i provvedimenti del Governo si sono rivelati completamente irrisori e inadeguati per fronteggiare la situazione.
In primis, il D.L. 17 marzo 2020, n. 18, ha previsto all’art. 123 che la pena detentiva è eseguita, salvo eccezioni per alcune categorie di reati o di condannati, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, se non superiore a diciotto mesi. L’articolo successivo, invece, stabilisce che, le licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà possano durare fino al 30 giugno 2020.
Alcuni tribunali penali e uffici di sorveglianza, dal canto loro e di propria sponte, stanno emettendo provvedimenti in materia di detenzione domiciliare e sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere alla luce dell’attuale situazione d’emergenza sanitaria.
Ad oggi, secondo i dati pubblicati dall’associazione Antigone, sono 4000 i detenuti usciti da febbraio, un numero che seppur considerevole è ancora lontano da eguagliare i numeri di posti disponibili rispetto agli attuali detenuti (48mila versus 57mila, e cioè +9000 detenuti).
Oggi più che mai non vi è più tempo da perdere: è notizia del 2 aprile 2020 che il primo detenuto positivo al Coronavirus, siciliano di 76 anni e accusato di associazione mafiosa, è morto all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Il pericolo contagio nelle carceri è oggi realtà: tra gli agenti penitenziari due sono i morti e 120 positivi al tampone, anche se, il presidente dell’Uilpa, sindacato di polizia penitenziaria, specifica che secondo le loro stime 200 sono i positivi accertati e seicento, invece, in isolamento fiduciario. Numeri che fanno presupporre un oscurantismo sui dati reali.
È per questo motivo che è necessario sfatare nell’immediatezza il pericolo di far divenire focolai le carceri, che, come noto, in alcuni luoghi raggiungono un tasso di sovraffollamento del 190%.
Ogni giorno i detenuti sentono dire alla televisione di dover adeguarsi alle misure di distanziamento sociale con la differenza che gli stessi si ritrovano in mucchio in sparuti metri quadri. È risaputo, inoltre, che le condizioni igienico-sanitarie in carcere rasentano l’inverosimile, con celle con assenza di acqua calda o senza doccia.
Un focolaio in carcere comporterebbe un’ecatombe per agenti, medici ed operatori e soprattutto per i detenuti, di cui il 67% di loro soffre di patologie sanitarie pregresse, il 62% ha più di 40 anni e 5.221 persone hanno più di 60 anni.
Appare ovvio che solo un intervento d’indulto e di amnistia potrebbe ridurre drasticamente i numeri della popolazione carceraria, ma, nell’attesa di tali scelte, per lo più di natura politica, è necessario provvedere nell’immediato con l’aumento del termine massimo della pena da scontare per ottenere il beneficio degli arresti domiciliari, oltre che, al fine di coinvolgere un numero maggiore di persone, con l’eliminazione delle preclusioni al beneficio che, ad oggi, lascia in carcere una cospicua categoria di detenuti, anche con pene infinitesimali.