Con l’obiettivo nazionale di ridurre le emissioni di CO2 del 70% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, la Danimarca intende muoversi velocemente sulla strada della transizione ecologica e questo obiettivo così ambizioso non avrà, quindi, benefici solo sul clima e l’ambiente, ma anche sull’occupazione, una delle principali criticità che preoccupa i governi di tutta Europa.
La Federazione nazionale dei lavoratori (Fagligt Fælles Forbund, 3F) e il Consiglio economico del movimento dei lavoratori (Arbejderbevægelsens Erhvervsråd – AE) hanno calcolato che con alcuni progetti già identificati per raggiungere l’obiettivo nazionale di riduzione delle emissioni climalteranti, nei prossimi 30 anni potranno essere creati fino a 380.000 nuovi posti di lavoro, di cui 17.000 (pari al 4,5%) permanenti. Nella prefazione al rapporto “Green Transition – the way to new jobs and a better climate” , Per Christensen e Anders Eldrup, vertici di 3F, affermano che “la transizione verde non è più solo una possibilità; è una necessità morale assoluta. Se agiamo con saggezza, ciò potrebbe anche garantire una maggiore creazione di posti di lavoro in tutto il Paese”. La Danimarca è già leader per l’esportazione di alcune tecnologie e servizi ad alta efficienza energetica e una transizione verde non potrà che far aumentare ancora di più il valore delle sue aziende che stanno investendo in questi settori. Ovviamente, sono necessari investimenti rilevanti per raggiungere il massimo potenziale occupazionale.
I 12 progetti già identificati, che sono alla base del calcolo dei potenziali green jobs previsti, includono la costruzione di parchi eolici off-shore (4,2 GW) e on-shore (2,3 GW), la sostituzione delle caldaie a gas e petrolio con pompe di calore e l’estensione della rete di teleriscaldamento; sono anche previsti interventi per nuovi impianti di selezione dei rifiuti, la creazione di bio-raffinerie e la costruzione di 120 impianti a biogas. In particolare, questi progetti hanno un potenziale di circa 35.000 posti di lavoro all’anno, per 5 anni, mentre circa 32.000 saranno i posti di lavoro che saranno disponibili per ben 10 anni. Successivamente, questi green jobs rimarranno in modalità non permanente (lavori a termine) per poi diminuire gradualmente nel corso dei successivi 30 anni. L’investimento complessivo per questi interventi è stimato pari a circa 37,5 miliardi di euro, gran parte dei quali concentrati nella prossima decade. Il 66% dei posti di lavoro stimati, pari a 252.000 unità, sarà nel settore dell’edilizia e delle costruzioni. Nello stesso periodo, il settore dei servizi richiederà poco meno di 76.000 posti di lavoro (pari al 20% del totale dei posti stimati), il settore industriale circa 50.000 (13%) e il settore agricolo circa 1.200 (0,3%).
In definitiva, i risultati del rapporto di 3F e AE sono in linea con le indicazioni provenienti da altre analisi già svolte sull’aumento dei posti di lavoro nel settore verde. Un rapporto dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA) stima che il settore delle energie rinnovabili abbia creato 11 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo nel 2018, il 7% in più rispetto all’anno precedente. E IRENA prevede che questo aumento continui nei prossimi anni. Secondo un’analisi di AE pubblicata un paio di mesi fa, la percentuale di dipendenti dell’industria danese che producono beni e servizi verdi è aumentata del 2% dal 2012, passando da poco meno dell’11% ad appena sotto il 13%. Ciò corrisponde a circa 6.600 nuovi green jobs a tempo pieno. In totale, ciò significa che in Danimarca più di un ottavo della forza lavoro (circa 35.600 lavoratori) produce beni e servizi green.
La distinzione tra posti di lavoro a tempo pieno e a tempo determinato menzionata nel presente post va inserita nell’ambito della visione scandinava del mondo del lavoro. Questa tipologia di posti di lavoro – permanente/a termine – ha una diversa connotazione rispetto all’Italia. In Danimarca, le tasse normalmente si pagano e non vi è la cultura del sottrarre risorse pubbliche da parte di amministratori corrotti. Nella classifica mondiale del livello di corruzione percepito nel settore pubblico, la Danimarca si trova al primo posto, mentre l’Italia al 51°. Questo si traduce in risorse che vengono redistribuite e, quindi, destinate a beneficio della popolazione stessa. In sintesi, i danesi hanno capito che pagare le tasse gli permette, ad esempio, di avere un servizio di trasporto pubblico o un’assistenza medica eccellenti. Così come, una copertura economica (sussidio) che li sostiene nel momento in cui perdono il lavoro e sono in attesa di trovarne un altro. Questa attitudine però è figlia anche, e direi soprattutto, di un sistema di controllo che, praticamente, porta ai minimi termini la possibilità di evadere il fisco, come messo bene in evidenza nelle analisi “Attitude–behavior consistency in tax compliance: A cross-national comparison” e “Unwilling or Unable to Cheat? Evidence from a Tax Audit Experiment in Denmark” ove risulta chiaro che controlli seri e altrettanto chiare norme sanzionatorie riducono drasticamente i tassi di evasione fiscale. Un buon esempio da seguire per l’Italia che, con le recenti novità introdotte – fatturazione elettronica e lotta al contante – sembra avvicinarsi al modello danese. Per continuare su questa strada, l’Italia dovrebbe impegnarsi di più sull’informazione verso i cittadini su come le tasse vengono redistribuite e la tangibilità dei benefici nel pagarle, oltre ovviamente ad avviare una vera e proprio rivoluzione verde che, sulla base del recente Piano Clima approvato, non è ancora all’orizzonte.