La rubrica sul lavoro La Maledizione di Adamo, adesso a cura di Lorenzo Cini e Arianna Tassinari, ritorna con un nuovo articolo che tratta delle condizioni di lavoro e di resistenza dei lavoratori della logistica del polo di Piacenza durante la situazione di emergenza Covid. Crediamo infatti che sia necessario, ora più che mai, continuare a parlare e far conoscere le dinamiche di sfruttamento che i lavoratori sono costretti a subire in questo periodo, dominato dalle immagini della bandiera tricolore sui balconi e dalla retorica dell’unità nazionale. Gli interessi del capitale, purtroppo, non vengono mai sospesi, però si continua a chiedere sacrifici ai lavoratori per salvaguardare “l’interesse generale”. Pubblicare questi articoli di inchiesta sul lavoro al tempo del Covid ci serve a ricordare che questo virus, come il capitalismo, si combatte efficacemente solo con l’organizzazione collettiva delle lotte.
Scrivere un breviario riguardo l’impatto dell’emergenza in corso sul mondo del lavoro operaio è sostanzialmente impossibile. Troppi sono i rivoli in cui la discussione dovrebbe incanalarsi, col rischio di diventare caotica e poco utile. Proviamo quindi a circoscrivere tre ambiti su cui focalizzarci: il manifestarsi della diseguaglianza di classe dentro l’emergenza, la dialettica fra mobilitazioni operaie e padronato/governo, le peculiarità tecniche che stanno generando problemi.
Il manifestarsi della diseguaglianza di classe dentro l’emergenza
Fin dalle prime ore dell’emergenza, vi è stata una corsa delle leghe padronali al tentare di garantire una continuità produttiva. Il maggior peso in termini di rappresentanza politica è stato ovviamente quello della Confindustria, ma eguale è stata la pressione da parte delle tre macro leghe del settore trasporti. Per comprendere di cosa parliamo, è necessario conoscerle almeno sommariamente. Esse annoverano la FEDIT, che rappresenta soprattutto colossi multinazionali in massima parte “evoluzioni” delle ex-poste nazionali come FedEx/TNT, GLS, SDA, DHL e BRT. È in FEDIT che dieci anni fa iniziarono a fare breccia le lotte del S.I. Cobas. Vi è poi CONFETRA, sotto la quale si radunano una miriade di grandi operatori nazionali, “medio-player” nel settore (ad esempio FERCAM) e che saranno probabilmente esposti a grandi rischi dalla ristrutturazione che seguirà a questa crisi. Da sottolineare che, sebbene CONFETRA rappresenti un volume globale di affari minore, il suo peso politico in Italia è superiore a FEDIT. Fonti riservate affermano con sicurezza che il famigerato articolo del “DL sicurezza-Salvini” che punisce con il carcere i picchetti sia stato inserito sotto stretta dettatura. Infine vi è ANITA, che tutela le aziende fornitrici di driver di grossi bilici (non i furgoncini per capirci), e che di solito si muove a rimorchio delle prime due caratterizzandosi quasi esclusivamente per assolvere la funzione di garantire una diversificazione di inquadramenti contrattuali quanto più vasta (e incontrollabile) possibile. La iper-diffusione del virus nelle zone a più alta intensità produttiva (Bergamo-Brescia) e logistica (Piacenza) è chiaramente collegata alla non adozione di alcuna misura di fermo né di protezione individuale dei lavoratori. Sin dalla settimana fra il 23 febbraio e il 1° marzo, a Piacenza, risultavano in numerosi magazzini parecchi lavoratori covid positivi, a fronte dei quali non venivano effettuate sanificazioni degli ambienti né riduzioni di organico in servizio.
La percezione di essere “carne da macello” è stata fortissima nei lavoratori, che hanno anticipato in forma abbozzata le stesse organizzazioni sindacali conflittuali a cui aderiscono nella richiesta di chiusura dei loro posti di lavoro. Nel piacentino, i primi scioperi a macchia di leopardo di aderenti al S.I. Cobas risalgono al 28 febbraio, immediatamente sanzionati dalle cooperative appaltatrici con lettere disciplinari. È importante ricordare che in febbraio il governo non aveva ancora emesso la misura del divieto di licenziamento sino a fine emergenza.
Potremmo quindi dire che la percezione del rischio è stata assolutamente calibrata e assennata da parte della base operaia. Ciò ha spinto nel volgere di pochi giorni il S.I. Cobas e la ADL Cobas a indire uno stato di agitazione nazionale che aveva in quel momento la duplice funzione di esercitare una pressione politica sulle leghe padronali e sul governo finalizzata alla chiusura e di dare una copertura da provvedimenti disciplinari ai lavoratori che, non sentendosi in sicurezza, si fossero astenuti dal lavoro. Lo sciopero ha poi avuto in mercoledì 18 marzo la sua giornata di culmine ma è proseguito in tanti siti sino a che non si sono raggiunti accordi specifici per la turnazione e l’adozione di misure di sicurezza.
La dialettica fra mobilitazioni operaie e padronato/governo
Un passaggio importante in termini di auto-percezione è stata l’intesa del 14 marzo fra governo, Confindustria e sindacati confederali: mai come in quelle ore è montata la rabbia per il sentirsi “sacrificabili”, favorendo l’adesione allo sciopero e inducendo Conte alla famosa conferenza stampa del 21 marzo notte, in cui annunciava una stretta più robusta sulla chiusura delle attività (stretta ampiamente edulcorata nei fatti, ma che ha avuto il merito di esplicitare come il manovratore volesse scongiurare in ogni modo la possibilità di mobilitazioni operaie nella crisi).
Mai come in quei giorni si è evidenziata una sfiducia della base verso i sindacati confederali (che peraltro faceva seguito agli scioperi spontanei alla FCA di Pomigliano), che è perdurata nelle settimane a seguire e che ha necessitato della già richiamata operazione di “concessione a parole” da parte del governo.
Nel frattempo, le pressioni delle leghe padronali si traducevano nella vaghezza interpretativa dell’elenco di codici Ateco per i quali si contemplava la prosecuzione delle attività, generando situazioni ai limiti del farsesco come lo smistamento di abbigliamento di marca in nome di una percentuale del 2% di merce lavorata potenzialmente indirizzabile a strutture sanitarie (biancheria nel concreto). Gli esempi e le denunce a riguardo si sprecano, basta scorrere le pagine social del S.I. Cobas e della ADL Cobas. Per fare due esempi rappresentativi, possiamo citare la XPO (grande operatore aderente a CONFETRA e storicamente avverso alla componente sindacale di base), nei cui magazzini si lavorano marchi come Guess, Oviesse e H&M. Gli aderenti ai sindacati di base non sono stati in grado di documentare la presenza di materiali riconducibili all’abbigliamento sanitario, fatta eccezione per qualche sparuto pacco di mascherine griffate, mentre circolano video e foto (in seguito rimossi per tutelarsi da azioni penali, ma che nel merito sono ancora desumibili da post di attivisti) che ritraggono i classici stock invernali invenduti in rientro e soprattutto i capi della stagione primavera/estate in ingresso (destinati peraltro a rimanere in magazzino per ammissione confidenziale degli stessi dirigenti). Un altro esempio lampante, guardando oltre la logistica, è il caso ben noto della ininterrotta produzione degli F-35.
Quel che risulta evidente a fronte di questa sacrificabilità della classe operaia è il tentativo del governo di correre ai ripari da un’insorgenza sociale con le misure del decreto “Cura Italia” del 17 marzo. Da quel decreto in avanti, inizia una fase che ha visto il governo “tutelare” i sindacati confederali esercitando il loro coinvolgimento nei tavoli istituzionali riguardanti l’adozione degli ammortizzatori sociali verso gli operai. Ciò in nome della loro para-istituzionalità derivante dalla sottoscrizione degli accordi quadro sulla concertazione sindacale. La cosa potrebbe sembrare un dettaglio, ma si traduce in concreti effetti quando a cascata si tratta di andare a concordare specifici accordi di sito. Le aziende sono di fatto tenute a dare comunicazione alle sigle sindacali, ma non è prevista una trattativa nel merito.
I sindacati di base, S.I. Cobas in testa, sono riusciti a disarticolare questo meccanismo blindato nelle filiere in cui vantano una presenza maggioritaria, principalmente nella logistica quindi, ma non senza incontrare resistenze anche in quelle situazioni (le aziende riunite da FEDIT) dove ormai da più di un lustro la loro presenza è ampiamente maggioritaria. A permettere di “aprire la breccia” è stata sicuramente la presenza capillare su tutta la filiera dei singoli marchi, a cui si aggiunge il fatto che molti consorzi fornitori di manodopera sono presenti trasversalmente ai marchi, e ciò permette al sindacato di base di avere una doppia leva per far pesare la sua forza. Un radicamento che nel settore logistico appare ormai nemmeno immaginabile per il sindacato confederale, il quale infatti non ha mosso un dito in questa delicata fase, limitandosi ad attendere di vedere fino a dove sarebbero arrivati gli accordi migliorativi di S.I. Cobas e ADL.
Le peculiarità tecniche che stanno generando problemi
La varietà delle situazioni che si stanno configurando non può essere riassunta in un testo. È tuttavia importante distinguere fra le macro-categorie di cassa integrazione guadagni (CIG), cassa integrazione guadagno a ore (CIGO, nella quale è prevista l’eventualità a zero ore) e FIS (fondo integrazione salari, quest’ultimo istituito nel 2016 per scaricare l’INPS dal peso degli ammortizzatori sociali per gli “ultimi sfigati” della logistica). Quest’ultima opzione in particolare si presenta problematica anche perché ad essa attiene oltre il 90% del settore della logistica, centrale per svariati motivi nella nostra economia.
A differenza della cassa integrazione, la FIS è finanziata da uno specifico fondo a carico dei datori di lavoro previsto dagli obblighi di bilancio, e non contempla il versamento degli assegni famigliari durante il periodo di utilizzo. Ciò, in un settore logistico animato in massima parte da lavoratrici e lavoratori migranti con famiglie numerose, è un enorme problema.
All’interno del blocco operaio si costituisce quindi una ulteriore ripartizione fra il settore secondario, in massima parte bianco, e quello della manovalanza di magazzino, in massima parte migrante, che diviene oggetto di una seconda discriminazione oltre a quella che già naturalmente sopporta in conseguenza del maggior ricorso agli appalti a cooperative per tagliare il costo del lavoro. È importante infatti ricordare ai non addetti ai lavori che la condizione delle due classi operaie è completamente diversa sia in termini di trattamento che di composizione politica. Al netto di piacevoli eccezioni sotto quest’ultimo aspetto (portuali di Genova, Nola di Pomigliano) e di spiacevoli eccezioni al ribasso rispetto alle tutele, gli operai e le operaie in maggioranza italiani del secondario (metalmeccanica, chimico…) vivono infatti una condizione di stabilità contrattuale inimmaginabile per gli operai in maggioranza stranieri della logistica. Ciò è dovuto sostanzialmente all’assunzione diretta dalle aziende (che si traduce in minori ribassi sul costo del lavoro) e alle garanzie “ereditate” dal ciclo di lotte degli anni ’70. In alcuni casi, accordi di secondo livello normano addirittura la possibilità di inserimento dei figli al pensionamento dei genitori, cosa che nella logistica avviene su base caporalesca ricattando la manodopera. È in ogni caso il meccanismo degli appalti a generare le maggiori diseguaglianze in termini di salario (una quota di plusvalore viene scremata dal fornitore di manodopera) e di stabilità (i fornitori turnano quasi ogni anno). Col tempo, ciò si è sedimentato in una incomunicabilità fra i due segmenti di classe, che arriva in termini grezzi a determinare l’operaio bianco che vota Lega e l’operaio “nero” disponibile a pratiche conflittuali anche radicali seguendo chi riesce a organizzarlo e a procurargli sensibili miglioramenti concreti.
Entrambi questi blocchi vivono infine il grande problema delle tempistiche necessarie all’erogazione della liquidità. Le richieste di accesso agli ammortizzatori hanno tempi non quantificabili, che oscillano fra l’uno e i quattro mesi. Mesi in cui le famiglie rimangono senza salario. Anche in questo caso, la dinamicità dei sindacati di base è riuscita a imporre accordi di magazzino che impegnano i datori ad un anticipo delle quote spettanti, da recuperare poi nei mesi a venire. Ma si tratta di eccezioni, pur significative e specchio della differente marcia che ha caratterizzato le relazioni sindacali negli ultimi dieci anni in Italia.
Le incognite per il futuro sono decisamente troppe: ristrutturazione, fallimenti, licenziamenti…ordini di grandezza enormi con cui il mondo operaio e l’intera società italiana si troveranno a breve a confrontarsi e rispetto ai quali si assottiglieranno sempre più gli spazi di mediazione di pari passo alla capacità di sopravvivenza delle persone. Sarebbe decisamente ingenuo abbozzare ora quali direttrici dovranno darsi i sindacati di base per una fuoriuscita progressiva e non regressiva dalla crisi che sta iniziando. Più credibile è dire che sicuramente il campo del lavoro dipendente (e in esso quello operaio in particolare) saranno il terreno principe in cui si dipaneranno tensioni sociali e possibilità di lotta. È quindi necessario che tutto l’ambito dei “movimenti”, siano essi strutturati in reti organizzate o meno, si interroghi su come supportare chi proverà a volgere quelle tensioni in conflitti, per costruire la possibilità di un cambiamento reale dei rapporti di forza all’interno della società capitalista.