Il Covid 19 e i sintomi del collasso del Terzo Settore

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di Raphael Pepe*

Come spesso succede in periodo di crisi, essa sia politica, economica, o sanitaria, emergono  problematiche enormi. Problematiche e criticità spesso denunciate in tempi non sospetti ma sempre inascoltate, finché non ci sia una crisi appunto a renderle evidenti.

Per quanto riguarda i servizi sociali, il cosiddetto “terzo settore”, queste criticità hanno in particolare due enormi conseguenze, delle condizioni di lavoro indecenti e un servizio non idoneo, a volte indecente, reso ai beneficiari, e questo nonostante l’impegno degli addetti al lavoro che qualcuno oggi vuole chiamare “eroe” perché sempre sul fronte.

Eroi che non lo vogliono essere, così come non vogliono essere martiri in questa emergenza sanitaria. In questo settore, i lavoratori maggiormente a rischio sono sicuramente gli operatori delle RSA (Residenze Socio Assistenziali), ma anche la situazione di chi lavora nell’assistenza domiciliare, nei centri d’accoglienza per richiedenti asilo o rifugiati non è da meno.

Per chi invece vede i propri servizi sospesi, in particolare i servizi socio-educativi in ambito scolastico, emerge il problema del salario. Gran parte di questi servizi sono oggi gestiti tramite gare d’appalto dal cosiddetto privato sociale, e i lavoratori che ad ora vedono il loro servizio sospeso, spesso non vengono retribuiti. Come denunciato dal sindacato di base USB, nonostante l’articolo 48 del decreto “Cura Italia”, abbia lo scopo di scongiurare il fatto che gli operatori del Terzo Settore non vedano pagati i propri stipendi e che il sistema di welfare crolli, la realtà dei fatti è che ad ora molti lavoratori non ricevono lo stipendio dai propri datori di lavoro che si appellano al fatto che i fondi non arrivano dagli enti locali.

Il tema centrale è ovviamente quello della salute e dei rischi che devono prendere lavoratori che hanno scoperto con questa crisi di essere “essenziali”. Proprio il terzo settore che negli ultimi 10 anni ha subito tagli continui dalle politiche di austerità, proprio quel settore in cui vige un’enorme precarietà per la maggioranza dei lavoratori, oggi è ritenuto essenziale. Anche nel sistema dell’accoglienza sorge questa enorme contraddizione considerando che dall’applicazione del decreto sicurezza, ancora in vigore e mai modificato, i centri d’accoglienza chiusi si contano a centinaia, mentre sono migliaia i lavoratori che ad ora hanno già perso il lavoro. Per passare da un sistema da smantellare ad un servizio essenziale, non ci è voluto molto.

Quello che accomuna molti di questi servizi è l’assenza di DPI (dispositivi di protezione individuale), in strutture in cui è quasi sempre impossibile mantenere la distanza minima di un metro di cui si parla tanto. Nelle RSA purtroppo è in corso una vera e propria tragedia, ma anche chi fa assistenza domiciliare e deve assistere persone con disabilità o anziani, passando appunto di casa in casa viene sottoposto a rischi non indifferenti.

In questa emergenza, gli operatori dell’accoglienza vedono il proprio ruolo drasticamente modificato. Dalle prefetture, committenti del servizio CAS, così come da molti enti locali committenti del servizio Sprar viene chiesto una maggior presenza in centri d’accoglienza spesso sovraffollati.

Ma la cosa più grave è che a loro viene sostanzialmente chiesto di controllare gli ospiti, di assicurarsi che non escano. Viene addirittura chiesto di fare segnalazione o denunce nel caso in cui i beneficiari non dovessero rispettare i limiti previsti dai recenti DPCM. Ad alcuni operatori, viene addirittura chiesto di fare la spesa per gli ospiti, in modo da evitare loro di uscire; e ci sono perfino casi in cui gli operatori sociali devono provvedere alla pulizia e alla sanificazione degli ambienti. Ovviamente il tutto sempre senza avere a disposizione i giusti DPI.

Se per i salari non pagati, i gestori privati dicono di non ricevere i fondi dovuti  dagli enti locali, che a loro volta dichiarano di non disporre dei fondi necessari; per la sicurezza dei lavoratori i primi insistono sul fatto che il servizio va garantito a prescindere e puntano il dito sulla pressione dei committenti, i secondi invece fingono di non vedere ne sapere che mancano i DPI, e non si ritengono responsabili. A pagare il conto però, sono sempre i lavoratori.

Le residenze e i centri d’accoglienza non sono adatti alla gestione di casi di positività dal Covid 19, sono assolutamente inadeguati alla gestione di un così grande problema di sanità pubblica.

Ad essere inadeguata, a dire il vero è proprio la gestione privatistica del terzo settore.

Non può essere demandato al privato sociale la responsabilità di gestire questa emergenza, anche perché spesso non ce ne la capacità e soprattutto servirebbe una regia pubblica per omogeneizzare i servizi, le procedure, i protocolli, per tutelare lavoratori e beneficiari.

Secondo un studio del collettivo Who Cares, il 49% dei lavoratori del terzo settore ritiene già di per se i servizi non adeguati alle problematiche dell’utenza e l’80% dichiara di doversi assumere spesso delle responsabilità eccessive rispetto alla mansione ricoperta. A questi dati, va aggiunto che l’82% dei lavoratori ritiene che le decisioni prese sul lavoro rispondono spesso a criteri di economicità. Infine in una graduatoria degli elementi che potrebbero migliorare il servizio e le condizioni di lavoro, il tema della ripublicizzazione del servizio si colloca al quarto posto.

I lavoratori del sociale hanno spesso contratti legati alle gare d’appalto, il loro monte ore medio è di 23 ore settimanali. Chi lavora nelle scuole, d’estate non percepisce stipendio e diventa disoccupato fino alla ripresa dell’anno scolastico. Molti lavoratori sono sotto-inquadrati rispetto alle qualifiche, ma anche rispetto alle mansioni che svolgono. Gli stipendi sono bassissimi con un CCNL Cooperative che per anni è rimasto invariato, e alla luce delle recenti modifiche, questi stipendi saranno aumentati di qualche briciola.

Alla luce di tutto questo, la re-internalizzazione dei servizi sociali, ovvero una gestione pubblica del terzo settore risulta fondamentale, per garantire un migliore servizio e migliori condizioni di lavoro.

Come sempre, ci voleva un’emergenza, una crisi, una tragedia per fare emergere in questo settore, così come in quello della sanità che la gestione privatistica è dannosa e inefficiente.

La retorica secondo qui gli enti locali, spesso committenti di questi servizi, non abbiano i fondi necessari per la gestione diretta non ha alcun fondamento.

Intanto perché i fondi che arrivano ai gestori privati sono sempre fondi pubblici e le gare d’appalto hanno un costo non indifferente. Ma soprattutto, ci vuole poco a capire che togliendo il profitto ed eliminando i passaggi di denaro, i fondi pubblici sarebbero spesi direttamente per i servizi da garantire, e in modo più efficace..

Il problema è sempre quello che gli enti locali sono affossati dai vincoli del pareggio di bilancio e dal patto di stabilità, e non si possono permettere di assumere personale in più, allora figuriamoci fare un’unica azienda pubblica con tutti i lavoratori del sociale di un territorio.

A questo problema, in realtà c’è una soluzione semplice, ed è la posizione di Attac Italia da anni: questi servizi, così come tutti i servizi pubblici locali devono essere fuori dai vincoli del pareggio bilancio e dal patto di stabilità.

Sono servizi essenziali, e stavolta ci sono anche recenti decreti ministeriali a dirlo, allora devono essere garantiti sempre e non possono rispondere a criteri di economicità e a logiche privatistiche.

Da questa crisi, emergono i danni della privatizzazione della sanità e di anni di tagli su questo settore essenziale, le stesse criticità emergono nel terzo settore; e da questa crisi si dovrà uscire con un netto cambio di rotta.

Quando è necessario, come possiamo vedere in questo periodo, si riescono a trovare fondi per gestire le emergenze, e ultimamente anche la Cassa Depositi e Prestiti ha fatto da leva per sbloccare fondi necessari. La soluzione ce l’abbiamo già: ripubblicizzare la Cassa Depositi e Prestiti e farla tornare alla sua funzione originale, quella di finanziare gli enti locali a tassi agevolati, permettendo loro di garantire servizi essenziali senza essere messi alle strette dalle banche private e da meccanismi finanziari tossici.

* militante di Attac Italia e delegato sindacale USB Bologna

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