È la mattina dell’8 aprile quando il mio compagno mi chiama e mi dice che è crollato il ponte di Albiano. Un nodo alla gola. Il cuore batte fortissimo.
Iniziano ad arrivare le prime foto che mostrano il disastro, il ponte piegato su sé stesso in più punti, non ne rimane più niente. Nel momento in cui veniva giù, intorno alle 10.30, vi transitavano due lavoratori a bordo dei rispettivi furgoni: uno dei due ne esce illeso ma ovviamente traumatizzato, l’altro viene portato all’Ospedale di Cisanello (Pisa) ma per fortuna senza gravi danni.
Poteva essere una strage. Questo è il primo pensiero. Quel ponte è quotidianamente attraversato da migliaia di mezzi, pesanti e non, e in certe fasce orarie vi si concentra il traffico diretto a Sarzana o verso l’imbocco dell’autostrada, per cui sul ponte si incolonnano decine e decine di auto in attesa di giungere al suo termine e imboccare la propria direzione. Ho fatto la fila su quel ponte centinaia di volte, come tante altre persone. Fa rabbia pensare che sia stata l’emergenza sanitaria legata alla diffusione dei Coronavirus ad aver permesso di salvare numerose vite. È inevitabile pensare che su quel ponte potevo esserci io, o il mio compagno che solo un’ora prima lo aveva attraversato tornando dal turno notturno in ospedale.
“Rischio a lavoro, rischio per andare a lavoro”. Questa sua frase mi risuona in testa continuamente. E sintetizza bene la precarietà esistenziale che viviamo. Il rischio che crolli un ponte, una scuola o una casa dello studente, il rischio di ammalarsi a lavoro per le condizioni fisiche o mentali estreme che ci vengono imposte, il rischio di morire, quel rischio che i grandi colossi assicurativi hanno già imparato a capitalizzare, noi lo abbiamo oramai interiorizzato, appartiene a quella normalità a cui ci propongono di ritornare. Morire sotto le macerie di un ponte è considerata una questione di fatalità. Allora viene da chiedersi se sia effettivamente una questione da affidare alla sorte o se qualcosa poteva essere fatto.
Per capirlo bisogna riavvolgere il nastro indietro nel tempo.
Come anticipato, il ponte è un fondamentale punto di snodo per il traffico indirizzato verso il resto della Toscana, e a lungo ha rappresentato l’unica traiettoria possibile poiché la strada alternativa, ovvero la Ripa, era costantemente soggetta a frane che la rendevano impercorribile per lunghi periodi dell’anno. Pur trovandosi da un punto di vista amministrativo sotto la provincia di Massa (Toscana), il ponte collega due strade provinciali rientranti nella provincia di La Spezia (Liguria). I controlli tecnici, sino al 2018 spettanti al Comune di Massa, sono divenuti di competenza dell’Anas, mentre la gestione della viabilità coinvolge entrambe le Regioni.
Nel 2013 l’ex sindaco di Aulla scrisse ai presidenti di Toscana e Liguria lanciando un allarme per segnalare lo “stato di grave disagio, difficoltà e pericolosità che, giornalmente, vivono gli abitanti della Lunigiana e della Val di Vara a seguito della costante chiusura della strada provinciale della Ripa. Le code chilometriche che si verificano, praticamente in tutte le ore della giornata, arrecano notevoli danni economici e di salute alle persone” e, nel 2019, l’attuale sindaco tornò a scrivere ripetutamente agli enti di competenza. Nell’agosto 2019 l’Anas rispose alle preoccupazioni sollevate dal Comune di Aulla e dalla provincia di Massa-Carrara circa le condizioni precarie in cui il ponte versava, sostenendo che non sussistessero “criticità tali da compromettere la sua funzionalità statica. Sulla base di ciò non sono giustificati provvedimenti emergenziali per il viadotto stesso”. Nel mese di novembre l’apprensione per la tenuta del ponte era ancora tanta e, non solo il Comune, ma anche gli stessi abitanti segnalarono la situazione agli enti competenti. In particolare, la preoccupazione era legata ad una crepa, ma l’Anas rassicurava nuovamente la cittadinanza riparando la crepa con dell’asfalto e riaprendo il tratto alla circolazione. Ed eccoci all’8 aprile. Una tragedia mancata, su cui la procura di Massa-Carrara ha aperto un’indagine con l’ipotesi di reato di disastro colposo, ma che tuttavia non scivolerà addosso agli abitanti, le cui vite saranno ulteriormente complicate dalla necessità di percorrere quotidianamente tragitti ancora più lunghi per andare a scuola, a lavoro o a fare la spesa. Quanto tempo impiegheranno per raggiungere il loro luogo di lavoro? Quanto tempo della loro vita sarà impiegato così, in un tragitto sempre più lungo, incolonnati ad altre centinaia di persone, dentro la propria auto data la mancanza di un trasporto pubblico capillare? Quanto tempo dovranno passare nella speranza che il ponte presente sulla strada alternativa non faccia la stessa fine di quello di Albiano e che, superato quello, non frani nuovamente la Ripa? Tanto, troppo. Un tempo che non ci verrà retribuito dai datori di lavoro che pretenderanno di averci puntuali col capo chino a lavorare, un tempo che ci stancherà, un tempo che ci farà paura soprattutto quando vedremo sotto di noi il vuoto lasciato da un ponte o sopra di noi promontori franosi e instabili. Ma la precarietà delle infrastrutture stradali non riguarda purtroppo solo questo territorio.
Qual è la situazione nel resto d’Italia?
È difficile dare una panoramica esaustiva della condizione della rete infrastrutturale del paese poiché, in base alle competenza, sono diversi gli enti incaricati di fare un censimento e controllo delle stesse (società Autostrade o sue derivate, Città Metropolitane, Unione Province italiane, Anas, ecc.), così come lo sono gli istituti di ricerca, come quello di Tecnologia delle Costruzioni del Cnr che aveva indicato, in un rapporto del giugno 2018, la pericolosità del Ponte Morandi. Il dossier dell’Unione Province Italiane segnala 14.098 opere da sottoporre a indagini tecnico diagnostiche, tenendo conto dell’incremento esponenziale della loro pericolosità dovuta anche al dissesto idrogeologico e dunque alla probabilità di eventi come alluvioni o frane, e 1.918 opere a priorità 1, ovvero che necessitano di interventi urgenti. Per quanto riguarda i ponti e viadotti in gestione all’Anas, l’ispezione fatta nel 2019 parla di 4.991 tratti da monitorare, ma solo su 1.419 di questi è stata effettuata una verifica. Inoltre, dopo il crollo del Ponte Morandi, si apre uno spazio di riflessione intorno alla necessità di ripubblicizzare i servizi autostradali togliendo la concessione ai Benetton e all’impellenza di effettuare un monitoraggio del grado di erosione delle infrastrutture come ponti, viadotti, gallerie, ecc. Così, con il Decreto Genova, viene istituita dal MIT l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali (Ansfisa), con il compito – tra i vari – di monitorarne la sicurezza. Tuttavia, anche questa terribile tragedia è un’occasione mancata per intervenire adeguatamente e il presidente dell’Ansfisa, Alfredo Principio Mortellaro, nel novembre 2019 rassegna le dimissioni denunciando la mancanza di risposta ai report inviati e la carenza strutturale di risorse e personale adeguato a far fronte a questo ampio lavoro, rendendo tale ente una scatola vuota. Ma questo è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare.
Ed eccoci giunti al nodo della questione: l’assenza di finanziamenti sufficienti per la messa in sicurezza del territorio o il cattivo uso delle risorse economiche stanziate per questo scopo. La messa in sicurezza passa non solo per la manutenzione delle infrastrutture ma anche per la tutela del territorio dai rischi collegati al dissesto idrogeologico. Il crollo del viadotto A6 a Savona, avvenuto nel novembre 2019 a causa di una frana legata alle forti piogge, mostra l’intersezione tra sfruttamento dell’ambiente e mancanza di manutenzione delle infrastrutture. Complessivamente, vi è una carenza sistematica di finanziamenti per la sicurezza reale, ovvero quella che passa dalla stabilità delle scuole, dalla qualità dei servizi sanitari, dalla costruzione di edifici antisismici, dalla qualità dell’aria, dalla scrupolosa gestione del territorio, dalla salubrità dei luoghi di lavoro o dalla pulizia dei fondali dei fiumi. Basti pensare che nel 2018 è stato eliminato il progetto Italia Sicura, che programmava investimenti ammontanti a 20 miliardi di euro per l’edilizia scolastica e per interventi nelle zone ad alta intensità sismica. Ciò avviene perché, se da un lato vi è una battaglia semantica intorno al concetto stesso di sicurezza, declinato nelle varie passerelle elettorali in termini xenofobi, repressivi e orientati alla richiesta di maggiori dispositivi di controllo sociale, dall’altro ciò è l’esito di precise volontà (necro)politiche delle istituzioni, messe in evidenzia, con semplicità disarmante, dalla pandemia in corso. Lo smantellamento della sanità pubblica, e il parallelo finanziamento di quella privata rispetto alla quale il modello Lombardia è stato a lungo considerato esemplare – i cui nodi sono oggi venuti al pettine -, è il frutto di scelte inerenti alle strategie di finanziamento che necessitano di essere lette guardando alla tensione tra interesse collettivo e profitti privati o, riducendo all’osso, tra vita e morte. Allo stesso tempo, laddove vengono allocate ingenti risorse, queste vengono utilizzate male o non con il fine previsto. Ed è questo il caso di Anas, la più grande stazione appaltante di Italia ed ente competente anche per la manutenzione del ponte di Albiano, a cui il MIT ha stanziato per il quadriennio 2016-2020 quasi 30 miliardi. Di questi ne sono stati spesi solo una minima parte e, inoltre, si sono registrati fenomeni corruttivi legati ai lavori di manutenzione le cui spese sono state gonfiate per spartire alcune mazzette e che hanno coinvolto sia funzionari dell’Anas che aziende appaltate.
Precarietà ed emergenza come forme ordinarie di governo dei territori
Questi dati fanno riflettere su quanto il crollo di un ponte non sia una fatalità o il problema di per sé, ma il sintomo di un sistema predatorio e corrotto. Non si tratta di un malfunzionamento di tale sistema. Se così fosse potremmo pensare che tutto sommato il capitalismo potrebbe salvarsi tolto qualche ostacolo che ne impedisce il buon funzionamento. Al contrario, le macerie prodotte dal sistema capitalista sono necessarie per arricchire i grandi speculatori che, contraendo diritti, libertà e sicurezza, ampliano i loro margini di profitto. È su quelle macerie che i padroni costruiscono il loro impero economico.
La mancanza di cura per i territori e la loro messa a valore attraverso processi estrattivisti fa parte di un modo ordinario di governare gli stessi. Parlare di emergenza, come avvenuto con il crollo del Ponte Morandi, oltre a consentire ai decisori una serie di deroghe alle norme che restringono gli spazi democratici, significa anche negare la natura sistemica di quanto avviene e le responsabilità che si celano dietro determinati eventi. La retorica emergenziale innerva il discorso pubblico che oscilla in modo schizofrenici tra la negazione del problema e delle sue cause (emergenza climatica, sicurezza infrastrutturale, femminicidio, ecc.) e il suo riconoscimento in termini emergenziali – quindi imprevedibili – che richiede, una volta incarnatosi davanti agli occhi dei decisori, di affrettare i tempi dell’intervento, portando il problema politico sul terreno del tecnicismo da cui, ovviamente, sono esclusi i non addetti ai lavori, ovvero noi.
Giusto un giorno dopo il crollo del ponte di Albiano leggo che i cantieri del Terzo Valico ripartono con i lavori, nonostante il rischio della diffusione del Covid-19. L’abbiamo pagato 6 miliardi. Chissà se con tutti quei soldi, lievitati di anno in anno, si poteva far qualcosa di più utile per un territorio vessato da migliaia di problemi legati alla sua sicurezza e salute anziché riempire le tasche di pochi. Di quei pochi che, come dimostrano le intercettazioni legate all’inchiesta “Amalgama”, usano cemento definito colla per la costruzione delle gallerie, e ridono sui ritrovamenti di amianto duranti gli scavi, ché “tanto la malattia arriva tra 30 anni”. Di quei pochi che giocano sulle nostre vite in nome del profitto. Di quei pochi che stanno tentando di scrivere oggi le tragedie del domani. Ma la loro matita viene costantemente spezzata dalle nostre lotte di resistenza che provano ogni giorno a gettare le fondamenta di un mondo diverso.
*Paola Imperatore è dottoranda in Scienze Politiche all’Università di Pisa. Studiosa dei movimenti per la giustizia climatica e contro le grandi opere, è attivista transfemminista della rete Non Una Di Meno e di Fridays for Future, oltre che di altri collettivi autorganizzati della città di Pisa.