Francesco Della Puppa è un sociologo, lavora e insegna presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si occupa soprattutto, ma non solo, di fenomeni migratori, di migrazioni internazionali. Per Radio Melting Pot ha parlato dell’impatto del coronavirus sugli immigrati e soprattutto su quella fascia più socialmente vulnerabile di immigrati che sono i rifugiati e i richiedenti asilo in Italia. Di seguito la trascrizione del suo intervento.
Vorrei fare una breve introduzione sul coronavirus, sulle cause del coronavirus, iniziando col sottolineare che dal 1980 al 2018 ci sono state in 170 paesi del mondo, migliaia di epidemie.
Noi ovviamente conosciamo quelle che hanno fatto più notizia, come la Sars, la Zika, l’influenza suina, l’aviaria, la MERS, ma in realtà in diverse regioni e paesi del mondo, soprattutto nel sud globale, c’è stato un vero e proprio processo di produzione e accumulazione di virus.
Il virus con cui ci stiamo confrontando non è un virus nuovo, ormai lo si è detto, è un virus al quale appartengono anche diversi virus tra cui ad esempio il semplice raffreddore, o la Sars che colpì la Cina nel 2002, ed è un virus di cui si poteva prevedere la diffusione e gli effetti.
Per farvi un esempio, diversi istituti di ricerca in Cina o ad esempio nel 2012 il Koch Institute tedesco, annunciavano che erano presenti tutte le condizioni affinché un virus probabilmente proveniente dai mercati dell’Asia avrebbe potuto contagiare il mondo, e descrivevano i sintomi e le modalità di contagio proprie del Covid19.
Qui le spiegazioni complottistiche si spenderebbero dicendo che allora si sapeva, che è tutto un piano precostituito magari per colpire la Cina; peccato che questo virus sta colpendo tutto il mondo con ingentissimi danni sociali, economici, psicologici etc…
Ciò non significa che si trattasse, che si tratta di un complotto, ma significa che le autorità conoscevano i rischi di questo virus, ma non hanno fatto nulla per contrastare questa potenziale emergenza, pur conoscendo questi rischi, per un motivo ben preciso, per una serie di motivi ben precisi; perché le cause alla base di questo virus, mettere in discussione queste cause, significa mettere in discussione l’intero assetto capitalistico mondiale.
La diffusione di questo virus infatti, se potrebbe essere legata a fenomeni naturali, dal mio punto di vista non ha nulla di direttamente o propriamente naturale.
È certo un virus prodotto, esistente per natura, ma la pandemia, ossia il contagio globale di questo virus, è un prodotto sociale che affonda le radici in uno specifico sistema di relazioni produttive e organizzazione del mondo che definirei capitalistico.
C’è un concorso di fattori: uno gli allevamenti intensivi, che come tutte le monoculture implicano enormi fabbriche di virus e abbassamento di sistemi umanitari perché azzerano la selezione naturale, tenendo in vita anche animali che naturalmente sarebbero destinati ad essere selezionati a morire. Quindi questi animali, più facilmente attaccabili dai virus, diventano, perché rimangano forzatamente in vita in quanto all’interno di un allevamento intensivo (immaginiamo chilometri e chilometri quadrati di allevamenti o palazzi a più piani in cui sono stipate decine di migliaia, centinaia di migliaia di capi), dicevo, animali che naturalmente sarebbero stati selezionati dalla natura, che rimangano tenuti in vita e che diventano più facilmente attaccabili dai virus, e quindi anche veicolo di questi virus in ambienti standardizzati, fino al cosiddetto spillover, ovvero al salto di specie, fino a che appunto il virus fa il salto alla specie umana.
Un altro elemento importantissimo alla base della diffusione della produzione dei virus è la deforestazione, la distruzione di ampissime porzioni di foreste primarie o di foreste più piccole, dove per migliaia di anni erano in qualche modo confinati i virus, perché spesso erano confinate anche delle specie animali che vivevano solo lì, ora con la deforestazione massiccia di moltissime aree del mondo sostanzialmente questi virus, che un tempo erano confinati li, vengono in contatto, attraverso lo spostamento degli animali, con altre specie animali, soprattutto con i volatili, ecco il famoso pipistrello.
Quindi, animali che per milioni di anni, e virus che per milioni di anni, sono rimasti confinati in questi zone, che si spostano tramite appunto gli animali, entrando in contatto con altre specie e facendo il cosiddetto spillover.
Ciò si accompagna ai processi di iper-urbanizzazione, ossia costruzione di megalopoli, per la loro grandezza e per la loro densità.
È un processo che sta prendendo piede da diversi decenni su scala mondiale, e quindi l’allargamento delle megalopoli, fa sì che vengano ancora una volta distrutti ambienti naturali e si creino delle enormi periferie, delle enormi aree periurbane, spesso con condizioni igienico-sanitarie molto precarie, dove è più facile il contatto di questi virus e il contagio e l’attacco da parte di agenti patogeni che trovano in questi ambienti urbani densi e diffusi il loro habitat ideale.
Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è la devastazione ambientale legata alla ricerca di metalli e terre rare utili per l’elettronica, l’industria hi-tech, e anche utili per quella che io definirei una menzogna, la cosiddetta green economy (che di green ha molto poco), ma anzi contribuisce alla distruzione ambientale e ancora una volta quindi alla propagazione di virus, fino a qualche anno fa, da millenni confinati in determinate porzioni di ambienti naturali e che ora tramite gli animali escono.
A ciò dobbiamo aggiungere anche che il surriscaldamento globale e gli sconvolgimenti climatici stanno sciogliendo le calotte polari, liberando dal permafrost e dai ghiacci sciami di virus. Potenzialmente nel futuro, se non si inverte la rotta del surriscaldamento globale, si libereranno sciami di virus che non conosciamo, sconosciuti, intrappolati da migliaia di anni nel ghiaccio, con conseguenze imprevedibili.
Quindi il virus, la pandemia che stiamo vivendo è un prodotto capitalistico, è un prodotto economico e sociale, ed è diventata una pandemia di tali dimensioni, cioè come dice la stessa parola, globale, per i tagli che in pressoché in tutti i paesi del mondo sono stati portati alla sanità.
L’Italia, da questo punto di vista, è particolarmente emblematica perché in meno di vent’anni sono stati tagliati 37 miliardi, ci sono stati 120.000 medici e infermieri in meno, c’è stata una distruzione capillare dei presidi medici di prossimità, e soprattutto in Italia è presente una delle zone più inquinate del mondo, la pianura padana, e il virus attraverso le polveri sottili trova un suo ambiente ideale per sopravvivere e diffondersi. Questa secondo me era una premessa necessaria per capire di cosa stiamo parlando.
Quindi ciò di cui stiamo parlando non è un evento squisitamente naturale, ma affonda le sue radici in una struttura sociale, politica ed economica ben identificabile.
Ecco perché quindi i governi di pressoché tutti i paesi dominanti, i paesi delle metropoli mondiali, pur essendo a conoscenza dei rischi che si stanno correndo non hanno preso nessuna misura per contenere o per prevenire la diffusione del virus a livello globale: perché prendere misure sarebbe significato mettere in discussione l’intero assetto capitalistico mondiale, mettere in discussione la produzione alimentare mondiale, lo sviluppo delle metropoli, l’economia e i nuovi modelli di sviluppo e le nuove direzioni di sviluppo su cui l’economia si sta orientando. E questo, ovviamente, per queste élite di potere, per coloro che detengono gli interessi del capitalismo mondiale ma anche per lo stesso processo che si è innescato e che non vede un burattinaio che tira i fili, ma che è un sistema socio-economico che si è messo in moto e si sviluppa come un processo irrefrenabile.
Quindi dicevo, il perché non è stato fatto nulla, a questa domanda si può rispondere semplicemente andando a vedere quali sono le cause.
Ma la pandemia illumina anche le contraddizioni e le debolezze, le fragilità del sistema in cui viviamo. Illumina, appunto, le contraddizioni e le disuguaglianze del sistema in cui viviamo. La pandemia, e anche quindi la quarantena, non stanno avendo lo stesso impatto per tutte le persone, ma illumina quali sono le disuguaglianze fra categorie di persone diverse, illumina le diseguali possibilità e il diseguale impatto che essa ha sui diversi tipi di soggetti.
Per rimanere in Italia, ad esempio, è ben diverso essere un industriale o essere un lavoratore della logistica, che nei giorni del virus è costretto ad andare nei magazzini, nelle fabbriche, a stretto contatto con i propri colleghi spesso senza i dispositivi di tutela. In Italia è diverso essere un cittadino italiano o un immigrato, essere una persona che abita in un condominio, in un appartamento in una casa popolare, o che abita in una villa con giardino. È diverso, quindi, essere un richiedente asilo o rifugiato o essere un cittadino residente.
Per trattare questo argomento parto da una recentissima ordinanza della Protezione civile, la n. 658 del 29 marzo relativa alle misure urgenti di solidarietà alimentare nei confronti della popolazione.
Sostanzialmente, un’ordinanza che prevede che la popolazione venga sostenuta in caso di difficoltà nell’approvvigionamento, magari per motivi economici o per vulnerabilità sociale, ai generi alimentari.
Questa ordinanza, però, si è declinata nei diversi contesti comunali italiani con parecchia disomogeneità, ad esempio il comune di Perugia ha chiesto il requisito di possesso del permesso di soggiorno europeo per lungo soggiornanti (la ex carta di soggiorno) quindi escludendo una serie di soggetti che non hanno questo tipo di permesso di soggiorno.
Qui si apre un problema che definirei etico-morale.
Le persone che non hanno un determinato documento, quindi, non hanno diritto a sopravvivere e quindi possono essere lasciate morire di fame.
La Regione Toscana aveva già da tempo implementato la legge 45 del 2019 (17 luglio 2019) che modificava la precedente legge 29 del 9 giugno 2009 che garantiva l’accesso a una serie di beni necessari che garantivano una serie di tutele per tutte le persone fra cui la dimora, l’alimentazione, i servizi essenziali, indipendentemente quindi dalla condizione dei soggetti.
Questo ci porta a parlare della condizione dei senza fissa dimora in Italia. Che non riguarda solo la figura stereotipata degli homeless (che non dobbiamo immaginare essere il classico “barbone” che i comuni più solerti cercano di rendere invisibile e spingere al di fuori dei centri cittadini), ma è una condizione che caratterizza moltissimo e sempre di più molti rifugiati e richiedenti asilo. Spesso, indipendentemente dal loro titolo di soggiorno.
Quindi, vivono come senza fissa dimora moltissimi rifugiati che hanno ottenuto magari lo status di protezione internazionale, al contempo anche molti richiedenti asilo che per diverse ragioni sono fuoriusciti dall’accoglienza, o richiedenti asilo che si sono visti negare la protezione internazionale.
Quindi le condizioni materiali di coloro che vivono senza un tetto sulla testa non dipendono, spesso, dalla loro condizione amministrativa, dal loro permesso di soggiorno e spesso queste persone vivono in quelli che potrebbero essere accampamenti informali, stabili abbandonati, occupati in qualche modo, letteralmente sotto i ponti, in baraccopoli. Questi insediamenti informali sono chiaramente caratterizzati dal disagio abitativo, da precarie condizioni igienico-sanitarie, assenza di acqua, promiscuità, vicinanza, e quindi condizioni in cui il contagio è molto probabile.
Di di fronte a queste situazioni in cui vivono spesso immigrati e richiedenti asilo e rifugiati al di fuori dell’accoglienza non è stato preso nessun provvedimento per fronteggiare l’epidemia e la motivazione non è ascrivibile a sovraccarico di impossibilità materiale, perché non stiamo parlando di ambito sanitario ospedaliero ma di minime misure che la protezione civile potrebbe facilmente risolvere.
Se invece vogliamo parlare dei richiedenti asilo ospitati nel cosiddetto “Sistema di accoglienza”, questo, soprattutto dopo lo smantellamento del sistema SPRAR ad opera dei decreti Salvini (che hanno avvantaggiato soprattutto, invece, i grossi centri dove vivevano grossi contingenti di persone ammassate, spesso gestite da grosse cooperative che potevano competere ed essere concorrenziali sul mercato anche alla luce dell’abbassamento delle risorse per l’accoglienza) ora, il sistema di accoglienza, prevede grandi centri dove la gente si concentra in massa, e quindi si pongono enormi problemi dal punto di vista del controllo del contagio.
Si parla di camerate dove sono aggregate moltissime persone, si parla di impossibilità dell’isolamento fiduciario di chi è in osservazione e quindi chi ha i primi sintomi di quello che potrebbe essere un’influenza da Covid19.
Ci sono problemi per l’isolamento delle persone vulnerabili: pensiamo agli immunodepressi, ai malati, alle vittime di tortura. E quindi questa è la condizione di molti richiedenti asilo ospitati nei sistemi di accoglienza.
Voci (che preferisco non nominare perché così mi è stato chiesto) dall’interno del sistema di accoglienza, mi dicono che spesso in molti centri di accoglienza nella regione del Veneto, a fronte di 150-200 ospiti, tre quarti sarebbero risultati positivi.
Per fortuna, trattandosi di persone molto giovani, spesso sono prive di sintomi, quindi positivi asintomatici, però ovviamente sono le condizioni ideali per il contagio e la diffusione del virus.
Stesso dicasi per i CPR, ossia queste strutture che io definirei di reclusione in attesa del rimpatrio. Strutture la cui reclusione è stata prolungata dai già citati decreti Salvini e che non prevedono le minime misure e le minime cautele di contenimento della diffusione del virus. Ad esempio, nel CPR di Gradisca d’Isonzo – famoso perché diversi anni fa, vi morì una persona reclusa al suo interno e il corpo fu spedito in fretta e furia nel paese di origine in Marocco e non fu permesso alla famiglia di aprire la bara dove era contenuta la salma perché non volevano far vedere le condizione in cui era ridotto il corpo del loro caro – ci sono già i primi casi di positività, e nonostante ciò la struttura è ancora aperta e sta ricevendo altri “prigionieri”, altri reclusi.
Vorrei ricordare che le persone vengono chiuse nei CPR perché prive di regolare permesso di soggiorno, e non perché abbiano commesso dei reati, quindi non ha nulla a che fare con l’ambito penale, anzi la normativa dice che se non si può effettuare il rimpatrio nei tempi più brevi (e si prevede che i tempi massimi di detenzione in queste strutture vengano sforati) non è possibile detenere delle persone appunto perché non si possono privarle delle libertà non avendo loro commesso nessun reato.
Questo è il caso di ciò che sta accadendo nella cornice del coronavirus.
Le frontiere sono bloccate, soprattutto le frontiere dell’Italia da cui i paesi non ricevono persone. Quindi, non ci sono le ragionevoli tempistiche per effettuare un rimpatrio.
Nonostante ciò, le persone qui recluse non vengono spostate in altre strutture, non vengono riportate a casa (che probabilmente hanno, perché molti irregolari comunque presenti in Italia hanno una rete di relazioni, hanno una sistemazione abitativa, spesso anche una sistemazione lavorativa) ma appunto, nonostante non possano essere rimpatriati, vengono reclusi e ammassati nei CPR.
Questa è un po’ una fotografia della situazione dei segmenti più vulnerabili dell’immigrazione in Italia in tempi di coronavirus.
Concludo con un’ultima considerazione rispetto alle “braccia”, cioè alla messa a lavoro dei corpi degli immigrati in epoca di coronavirus.
È interessante che da più parti (Confagricoltura, il Ministro per l’agricoltura) si richieda disperatamente che vengano fatti degli accordi per l’importazione di forza lavoro immigrata che possa andare a svolgere il lavoro di – soprattutto – raccolta nei campi nel settore dell’agricoltura italiana.
Si richiedono decreti flussi, accordi bilaterali con paesi esportatori di forza lavoro, si richiedono sanatorie. Sostanzialmente, si chiede a queste persone di scambiare la propria salute, cioè di rischiare di contagiarsi e diventare positivi al covid19 lavorando, in cambio della regolarità amministrativa.
Questo per sottolineare il “pelo sullo stomaco” che il capitale italiano, ma anche quello mondiale – in questo caso l’industria della trasformazione dei prodotti agricoli e gli stessi proprietari terrieri, il capitale agrario italiano – ha nei confronti della forza lavoro immigrata.
** Ph. Credit: Lorena Fornasir (Linea d’Ombra, Trieste)