di Wu Ming
1. Monte Sabbiuno
2. Un reading itinerante in pieno lockdown
2b. L’apparizione della C.
3. In base a cosa hanno recluso in casa i nostri bambini?
4. L’epidemia più duratura e letale
5. Pensiero reazionario e pensiero della liberazione
6. Il «nulla più come prima»: un’iperbole antistorica e un alibi ideologico
7. Dieci punti fermi per il futuro
8. Ritorno da Sabbiuno
Il 21 aprile 2020, poco prima delle sette di sera, abbiamo preso l’autobus 52 in Piazza Cavour e siamo saliti in collina, a Monte Sabbiuno. Andandoci, non siamo usciti dai confini del comune di Bologna (il burrone col monumento ai caduti è proprio al limite), ma siamo usciti dai limiti delle norme: lontani da casa, tipologia di spostamento non prevista dal modulo di autocertificazione. Ma eravamo certi di essere nel giusto, perfino sotto l’aspetto legale.
Ci sono state diverse prese di posizione critiche da parte di giuristi sulla decretazione d’emergenza, sul caos delle ordinanze, sull’illegittimità di certe restrizioni, sull’eccessiva discrezionalità concessa alle forze dell’ordine… Qui su Giap, da settimane Luca Casarotti risponde ai dubbi e alle preoccupazioni di chi si è visto affibbiare multe in circostanze di stralunante arbitrio.
Tre ore prima che noi prendessimo il bus per Sabbiuno, l’ANSA rilanciava la lettera aperta di nove magistrati di Aosta, tra i quali il presidente del tribunale, dove si denunciava l’assurdità del perseguire chi passeggia – in special modo se lo fa nei boschi, nei campi, lungo sentieri fuori città – e della conseguente caccia all’uomo, con tanto di elicotteri o droni:
«Con estremo sconforto – soprattutto morale – abbiamo assistito – ed ancora assistiamo – ad ampi dispiegamenti di mezzi per perseguire illeciti che non esistono, poiché è manifestamente insussistente qualsiasi offesa all’interesse giuridico (e sociale) protetto»
Siamo sempre più convinti che abbia avuto luogo una truffaldina sostituzione dello stare-a-casa (dal lavoro) con lo stare-in-casa.
Grazie a quella sostituzione, la maggior parte delle fabbriche dove si lavorava senza tutele sono rimaste aperte, mentre si sono costretti milioni di persone agli arresti domiciliari, ovunque, anche in zone con zero contagi, zone di montagna o campagna, zone a bassissimo indice demografico, zone lontanissime da ogni focolaio, isole…
Quando siamo scesi dal 52, sul crinale che divide la valle del Reno da quella del Savena, ci siamo guardati intorno e ci siamo chiesti, quasi all’unisono: «Perché mai uno dovrebbe stare in casa, qui?»
Il monumento di Monte Sabbiuno ricorda i partigiani e i prigionieri politici che i nazisti fucilarono in quel luogo, a più riprese, dalla metà di dicembre del 1944, prelevandoli dal carcere di San Giovanni in Monte a Bologna. Schierati sul crinale, venivano abbattuti e lasciati rotolare fino in fondo al dirupo. Inaugurato nel 1973, Bruno Zevi ha definito questo esempio di land art «il più convincente e significativo tra le centinaia di “memorials” ai caduti della lotta partigiana europea».
Nel primo anniversario dell’assassinio di Carlo Giuliani pubblicammo su Giap – all’epoca ancora una semplice newsletter – un articolo intitolato «20 luglio 2002: Un piccolo Miracolo Laico. Excursus dal basso Appennino bolognese a piazza Alimonda, passando per…» Molti dei motivi per cui Sabbiuno esercita su di noi un fascino particolare sono raccontati in quel testo:
«a Sabbiuno c’è un monumento, un monumento che non è mai stato chiuso né monologico, che non ha davvero niente di retorico né di burocratico […] Un piccolo miracolo. Nel trentennale dell’eccidio, per co-memorare quei cento combattenti antifascisti, sul ciglio del burrone furono posati massi di piccole e medie dimensioni, ciascuno con inciso il nome di un partigiano. Quasi un intervento di “land art”, leggero e armonioso, tanto perfettamente inserito nell’ambiente circostante da apparire naturale.
[…] Quei massi parlano, li interroghi e ti danno mille risposte.»
Giù in basso, ai piedi del calanco e del contrafforte Pliocenico, lungo la sponda destra del Reno, si snoda la prima tappa della Via degli Dei. Ma vent’anni fa, quando il tracciato non era ancora completo e la prima tappa iniziava da Sasso Marconi, chi voleva partire da Piazza Maggiore, a Bologna, usciva da Porta San Mamolo, prendeva la strada dei Colli, sempre sul crinale, e usciva dalla città seguendo l’asfalto e passando accanto ai massi di Sabbiuno.
È un altro dei motivi che ci lega a quel posto e ci spinge a salire lassù – a piedi, in bici, in auto o in bus – quando ci frulla in testa qualche domanda importante.
Il 21 aprile era il 75esimo anniversario della Liberazione di Bologna. Siamo andati in pellegrinaggio a Sabbiuno per coronare la nostra prima iniziativa pubblica in città dall’inizio dell’emergenza coronavirus. E per meditare sul da farsi, sul futuro.
2. Un reading itinerante in pieno lockdown
La mattina del 21 abbiamo fatto la riunione del collettivo. Riunione fisica, non virtuale, per organizzare l’iniziativa del pomeriggio.
A partire dalle 15 e senza averlo annunciato prima, abbiamo celebrato il nostro 21 aprile con un reading itinerante in centro. Il percorso ha congiunto quattro delle librerie che avevano già riaperto. Librerie con cui abbiamo collaborato, in cui abbiamo fatto presentazioni. Nell’ordine:
■ Ubik Irnerio, in via Irnerio;
■ Modo Infoshop, in via Mascarella (nel giorno stesso dell’attesa riapertura);
■ Trame, in via Goito;
■ Giannino Stoppani, in piazza Re Enzo.
Ogni volta ci siamo messi in fila e abbiamo letto per un pubblico occasionale di 10-15 persone.
«Che sollievo, temevo che per la Liberazione nessuno facesse niente…»
«Non sembra vero di assistere di nuovo a un’iniziativa…»
«Cazzo, ci voleva!»
Durante il giro, abbiamo letto brani dai seguenti libri:
■ Cesare Pavese, La casa in collina.
■ Cesare Pavese, La luna e i falò.
Ben due titoli, perché quest’anno cade il settantennale della morte di Pavese, e proprio in quest’aprile cadeva il settantennale de La luna e i falò.
Il primo brano da La casa in collina parlava della sospensione della normalità in tempi di guerra, di come cambia la percezione delle cose, e si concludeva con la domanda: «Quando riaprono le scuole?»; il secondo, tratto dal celeberrimo finale, è una delle più belle riflessioni sulla necessità per chi sopravvive a una guerra – che è sempre guerra civile – di fare i conti con i morti, con la loro umanità, chiunque essi siano, e con la responsabilità di essere sopravvissuti al posto loro.
Il brano da La luna e i falò raccontava le conseguenze del ritrovamento, tre-quattro anni dopo la fine della guerra, di due morti repubblichini. Pavese mostra l’allargarsi di una spirale di chiacchiere diffamatorie nei confronti dei partigiani, e noi quelle chiacchiere fatte da borghesi al bar le riconosciamo: le abbiamo udite tante volte, tali e quali. Sono le stesse di oggi.
Su Pavese eravamo freschi: tra il dicembre e il febbraio scorsi ce lo siamo riletto tutto, per scrivere una prefazione alla nuova edizione Einaudi de La luna e i falò.
Poi un trittico di bolognesi:
■ Giovanna Zangrandi, I giorni veri. Diario della resistenza.
■ Renata Viganò, L’Agnese va a morire.
■ Antonio Meluschi, L’armata in barca.
Giovanna Zangrandi, pseudonimo di Alma Bevilacqua, nata a Galliera (BO), fu partigiana in Cadore durante l’annessione della provincia di Belluno al Terzo Reich.
Viganò e Meluschi, moglie e marito, fecero la Resistenza nel basso ferrarese e la raccontarono nei due romanzi che abbiamo scelto. Vivevano nella stessa via di Modo Infoshop, al civico 63/2, dove dal 2018 li commemora una targa. Sotto i loro nomi si legge: «Con loro questa casa è stata un crocevia di intellettuali e un punto di riferimento per la cultura antifascista.»
■ Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno.
Nella celebre prefazione scritta vent’anni dopo la prima uscita del romanzo, Calvino spiega le due pulsioni che lo mossero a immaginare la storia di una banda partigiana di sottoproletari non ideologizzati: affermare che l’adesione istintiva e prepolitica alla Resistenza da parte di soggetti “discutibili” era stata comunque meglio dell’acquiescenza di tante “brave” persone neutrali; sventare la tentazione agiografica sugli “eroi romantici”.
■ Beppe Fenoglio, Una questione privata.
Il brano dell’incontro tra Milton e il vecchio che gli dice: i fascisti dovete ammazzarli tutti, tutti quanti, non ne deve rimanere uno vivo. Un esempio di come a volte la “gente comune” possa essere più radicale dei militanti.
■ Albert Camus, La peste.
Il finale del romanzo di Camus lo abbiamo letto per ultimo, in piazza Re Enzo. La peste fu scritto come metafora della seconda guerra mondiale e della lotta contro il nazifascismo, e si addice perfettamente alla circostanza della lotta contro un “pestilenza” reale e contro l’autoritarismo che su di essa si edifica. Metafora e realtà collassano l’una sull’altra.
Il tutto è durato circa due ore e mezza. Sono passate un paio di autopattuglie, ma ogni volta hanno visto persone in fila, a distanza di sicurezza, svariate con le mascherine. Se nella forma stavamo rispettando le norme (stando sul limite), nella sostanza è stato il primo evento letterario e trekking urbano in città dall’inizio del lockdown.
Mentre accadeva tutto questo, in via Broccaindosso si cantava Bella ciao.
«È stato bellissimo. Abbiamo ricordato il 21 Aprile cantando “Bella ciao” in mezzo alla strada. È stato un momento incredibile. Questa cosa è stata possibile perché la mia proposta di “festeggiare” la Liberazione di Bologna è stata accolta e sostenuta da un piccolo gruppo di abitanti della mia strada. In un clima surreale ci siamo trovati tutti insieme e abbiamo messo un fiore nella corona sulla lapide del partigiano Giancarlo Romagnoli, di soli 19 anni. Nessuno si è affacciato alla finestra e noi abbiamo cantato per esorcizzare la paura, trattenendoci più possibile insieme per cantare mille volte la stessa canzone, per spezzare il silenzio, per non sentirci soli, per non avere paura.» (Sara, una delle organizzatrici)
2bis. L’apparizione della C.
Arrivando in via Goito ci siamo imbattuti nella C., una senzatetto che normalmente vive intorno alla zona universitaria, tra piazza Verdi e piazza VIII agosto. Prima del lockdown la si incontrava spesso nei locali di via Mascarella, dove entrava per sonnecchiare qualche ora. Ci si stringeva per farla sedere, le si offriva da mangiare e bere, le si dava qualche soldo, si facevano due chiacchiere… Minime azioni individuali, occasionali, discontinue, ma che insieme facevano reticolo.
Quando l’abbiamo rivista, è stato sconvolgente.
Chiusi i luoghi pubblici e svuotate le vie, i marginali, i dropout, gli homeless che vivono accanto a noi e che prima incrociavamo, sono precipitati in fondo a un pozzo. Non che prima se la passassero bene, tra angherie e Daspo urbani, ma poi sono passati dalla griglia all’altoforno. Nel primo periodo del lockdown, quando l’ubriacatura da #stareincasa era ai massimi, addirittura si sono visti i vigili di Bologna multare gli homeless perché «non erano a casa».
La C. stava accasciata sul gradino di un uscio di via Goito, in stato confusionale, farfugliante, sporchissima, incapace di alzarsi. Coi compagni presenti ci siamo consultati, c’era plv che ha chiamato l’associazione Piazza Grande, che ha avvisato l’Help Center. Speriamo che a qualcosa sia servito.
3. In base a cosa hanno recluso in casa i nostri bambini?
Due giorni dopo, il 23 aprile, uno di noi ha deciso di combinare un appuntamento tra il più piccolo dei nostri figli e un compagno di scuola alla libreria Giannino Stoppani, nel cuore di Bologna. I due settenni non si vedevano dal vivo da due mesi. Con guanti e mascherina hanno organizzato una lettura in simultanea, sfogliando due copie dello stesso libro illustrato, per poter restare a distanza. È stato il primo momento di socialità recuperata in regime di lockdown. Usciti dalla libreria i due bambini hanno giocato a rincorrersi – attenti a non prendersi mai – davanti al sacrario ai caduti in Piazza del Nettuno.
Sotto gli sguardi delle decine di partigiani e partigiane si è svolta una commovente scena di liberazione: tornare a correre all’aria aperta, recuperare il diritto allo spazio per la propria infanzia. Questo momento di libertà è idealmente dedicato a chi per mesi ha dipinto i bambini come untori perfetti, potenziali omicidi dei loro nonni; a chi già prima della pandemia li definiva
«maligni amplificatori biologici che si infettano con virus per loro innocui, li replicano potenziandoli logaritmicamente e infine li trasmettono con atroci conseguenze per l’organismo di un adulto» (Roberto Burioni, 31/03/2019);
a chi ha scatenato il panico sociale contro di loro, spingendo i genitori a murarli vivi dentro casa, in certi casi rimandando perfino importanti visite mediche o terapie per loro essenziali.
La pericolosità dei bambini è stata presa per oro colato, anche se i dati sul comportamento del Covid19 sono ancora contraddittori. Il 21 aprile scorso, il virologo dell’università di Padova Andrea Crisanti, che ha condotto lo studio sul focolaio di Vo’ Euganeo, ha fatto sapere che in quella comunità «i bambini sotto i 10 anni, seppure conviventi con infettati in grado di infettare, non si infettano. E se sono negativi non infettano». Ecco come riassume la scoperta un articolo apparso sul sito dell’Università di Padova:
«[…] nessuno dei 234 bambini al di sotto dei 10 anni, 13 dei quali hanno vissuto a contatto con positivi in grado di trasmettere l’infezione, è risultato positivo al virus. Questo dato avvalora l’ipotesi (ancora da verificare) che i più piccoli possano essere immuni al contagio per via del fatto che potrebbero non aver sviluppato ancora un numero sufficiente di recettori (Ace2), che costituiscono la porta di ingresso per il virus.»
Non significa che, in assoluto, i bambini non possano essere contagiati, come è stato riscontrato altrove, o in casi molto rari non possano anche ammalarsi, ma va messa quantomeno un’ipoteca sull’assunto che siano vettori privilegiati del virus a danno degli adulti. Questo almeno dicono i risultati sui 234 bambini testati a Vo’.
Insomma, molti aspetti delle modalità di trasmissione di questo virus non sono ancora chiari, e sarebbe davvero paradossale se un domani dovesse emergere che abbiamo segregato i bambini più piccoli per niente, con un provvedimento dettato dal panico. Tanto, non essendo parte della popolazione produttiva potevano rimanere reclusi, mentre uno dei loro genitori magari doveva continuare ad andare al lavoro grazie alle deroghe prefettizie al codice Ateco (praticamente autocertificazioni d’impresa), a prescindere da qualunque controllo effettivo sulla sicurezza sanitaria.
Intanto in Danimarca hanno riaperto gli asili e materne en plein air, e qualcuno lo propone anche in Emilia-Romagna. Qualcosa si muove. Dopo due mesi di delirante demonizzazione dell’aria aperta e di apologia dell’autoreclusione domestica, finalmente si torna alla banale constatazione che, epidemiologicamente parlando, stare all’aperto è mediamente più sicuro che stare al chiuso.
Noi siamo convinti che la segregazione in casa di bambine e bambini si potesse evitare, e con essa le sofferenze psichiche che quella reclusione ha già causato e continuerà a causare nel tempo.
Ricordiamo che, per poter fare una micragnosa passeggiata con figli/e intorno a casa si è dovuto battagliare, fare petizioni, lettere aperte e quant’altro. Governanti, governatori e sindaci hanno fatto la faccia feroce per stigmatizzare «l’ora d’aria» concessa ai bambini, vicini di casa imparanoiati insultavano i genitori dai balconi… Chi pagherà per tutto questo?
4. L’epidemia più duratura e letale
Anonimi ci segnalano che nella notte tra il 24 e il 25 aprile ignote hanno affisso cartelli accanto a molte importanti targhe e lapidi dedicate alla Resistenza bolognese.
L’azione ha toccato i quartieri Navile, Porto-Saragozza e San Donato-San Vitale ed è stata rivendicata dalla «Brigata Violet Gibson», nome già apparso in Cirenaica quando Piazzetta degli Umarells fu ribattezzata (per la seconda volta) «Piazzetta delle Partigiane». Stavolta è apparso anche un logo.
Nel 1926 l’irlandese Violet Gibson cercò di uccidere Mussolini con un colpo di pistola, riuscendo soltanto a ferirlo di striscio al naso.
I cartelli affissi stanotte recano scritte come
«(Covid)1919 – 2020
Il fascismo è l’epidemia più duratura e letale.
Il vaccino non esiste.
L’immunità di gruppo si ottiene
RESISTENDO.»
5. Pensiero reazionario e pensiero della liberazione
Re Carlo I: – La democrazia, Mr. Cromwell, fu una ridicolaggine greca, fondata sulla sciocca idea che vi siano straordinarie potenzialità in persone molto ordinarie.
Oliver Cromwell: – Sono le persone ordinarie, mio signore, quelle che più prontamente darebbero la vita in difesa del vostro regno. Semplicemente, essendo ordinarie, preferirebbero fosse loro chiesto anziché comandato.
Cromwell, regia di Ken Hughes, Columbia Pictures, 1970
Quando ti coglie una sensazione di smarrimento, è saggio tornare ai fondamentali. Per noi sono i partigiani, i resistenti, gli antifascisti che per istinto o per ideale fecero la scelta giusta anziché quella facile. Tra loro c’erano differenze e divisioni anche aspre, che avrebbero avuto conseguenze sia durante sia dopo la lotta di Liberazione. Nondimeno quegli uomini e donne, con la loro comune scelta, tracciarono un solco nella storia, ancora visibile.
In questa quarantena prolungata abbiamo registrato una gamma molto ampia di sfumature d’opinione sui comportamenti da assumere e conseguentemente di comportamenti assunti durante il lockdown “all’italiana”. Proprio perché esistono quasi tanti gradi di distanza dai Dpcm e dalle loro interpretazioni quante sono le persone occorre essere netti. Ovvero tracciare due linee di confine: una tra l’accettazione e il rifiuto della narrazione per cui stare all’aria aperta è più pericoloso che stare al chiuso, e quindi si può uscire soltanto per lavorare e acquistare beni di sostentamento; l’altra, tra l’accettazione e il rifiuto della narrazione per cui «gli italiani» sono un popolo indisciplinato e autolesionista per natura, ergo incapace di rispettare le distanze di sicurezza senza che una qualche Forza dell’Ordine lo costringa a farlo.
Queste due linee di confine rimandano rispettivamente a due discrimini sostanziali:
1. Quello tra l’accettare o il rifiutare lo slittamento da «stare a casa» a «stare in casa», slittamento avvenuto in modo così drastico soltanto da noi e, su imitazione nostra, in Spagna. Ovvero: l’aver introiettato o, al contrario, rispedito al mittente la condizione domestico-carceraria che ci viene imposta. Poco importa che l’adesione sia convinta o rassegnata, perché la differenza è tra pensarsi galeotti intenti a scontare l’ineluttabile pena, o pensarsi soggetti a una reclusione eccessiva e ingiusta, e comportarsi di conseguenza.
2. Quello tra pensiero reazionario e pensiero della liberazione. Immaginare che gli esseri umani debbano essere coscritti, conculcati, controllati, perché altrimenti, per loro natura, non sarebbero in grado di regolarsi; ovvero che debbano adeguarsi senza discutere a un modello che li trascende, che sia la Tradizione, la parola del Capo… o il parere degli Esperti. Questo è pensiero reazionario. All’opposto si pongono invece le forze che cercano di trasformare in soggetto ciò che viene considerato oggetto, perché ritengono gli esseri umani capaci di cambiare, migliorare, rendersi responsabili attraverso le relazioni, costruire soggetti collettivi, prendersi cura gli uni degli altri.
Ed è ancora questa la linea tracciata per terra. Oggi come settant’anni fa. All’improvviso ci ritroviamo tutti e tutte davanti allo specchio – magari dopo una vita passata a professarci libertari o democratici o perfino rivoluzionari – e davanti alla morte non solo evocata ma incombente, e qualcuno si accorge di essere disposto a passare sopra a tutto ciò che aveva pensato – o creduto di pensare – fino a un attimo prima. Non abbiamo potuto scoprire di che pasta intellettuale e politica eravamo fatti, prima di trovarci di fronte a una reale minaccia, e qualcuno si è trovato ad accettare di buon grado costrizione, arresti domiciliari di massa, dittatura dell’esecutivo, controllo poliziesco, senza fiatare o addirittura tifando per chi queste cose le imponeva d’imperio.
Magari ripetendosi che quest’emergenza non ha niente a che fare con le altre, con quelle che abbiamo criticato nei cicli di lotte passati ,e quindi non si può fare alcun paragone; che questo è un caso inedito, che «niente sarà più come prima»… In altre parole, giustificando la propria incoerenza. E se questo è umanamente e psichicamente comprensibile, non può esserlo – non potrà mai esserlo – sul piano politico.
6. Il «nulla più come prima»: un’iperbole antistorica e un alibi ideologico
È senz’altro importante, foucaultianamente, saper vedere le fratture dove l’abitudine fa vedere solo continuità, ma bisogna anche saper vedere le continuità dove lo shock fa vedere solo fratture.
Lo shock… o la paraculaggine. Il «niente sarà più come prima» è infatti molto utile, quando si vuole dire senza pagar dazio il contrario di quel che si diceva prima.
Poco più di un secolo fa, molti pensavano che la Grande Guerra fosse necessaria perché era «la guerra che avrebbe messo fine a tutte le guerre». Mentre finiva rapidamente la Belle Epoque, avanguardie storiche come il futurismo proclamavano il rifiuto totale del vecchio mondo. Scoppiò la guerra, e tanto netta fu la cesura che qualcuno disse: «Nulla di quanto è stato scritto e pensato finora ha più valore, nessun concetto, nessuna categoria è più utile a spiegare il nuovo mondo che nasce».
La fotta di avere un ruolo in quel mondo, la FOMO – Fear Of Missing Out – fu tale che diversi socialisti e anarchici divennero interventisti. Avevano sempre parlato di internazionalismo proletario, o quantomeno di fratellanza tra i popoli, ora invece predicavano la necessità che i proletari di un paese scannassero quelli di un altro, agli ordini delle loro classi dominanti. Nascondevano la propria incoerenza dietro un frasario che manteneva una parvenza “rivoluzionaria”, e dietro quella che oggi chiameremmo «l’emergenza».
Dopo la guerra, queste tendenze continuarono a manifestarsi, stavolta nell’adesione di ex-socialisti ed ex-socialisti rivoluzionari al fascismo. Che si manifestò come una vera e propria epidemia di “svolte” – anzi, di giravolte – personali in nome di una svolta più grande. Così lo descrive Emilio Lussu nella sua imprescindibile testimonianza, Marcia su Roma e dintorni.
Bisognerebbe sospettare sempre della ciclica pretesa che nulla «sia più come prima». Discontinuità totali non se ne sono mai viste, ogni discontinuità è per forza di cose parziale. A volte, poi, una “svolta” è soltanto apparente: viene percepita sul momento, percepita anche con forza, ma rimane sulla superficie degli eventi, mentre sotto i piedi e nelle menti le strutture rimangono le stesse.
Anche una discontinuità reale, indubbia nel suo manifestarsi, col passare del tempo e dopo le “scosse di attestamento” diviene oggetto di uno sguardo retrospettivo e a lunga gittata, e trova la propria collocazione nella turbolenta “continuità” del flusso storico più vasto. Succede con le guerre, con le grandi pestilenze, e persino coi passaggi da un modo di produzione all’altro.
Per tornare agli esempi di prima, oggi il futurismo è parte della tradizione, sta nei curricula insieme ai lirici greci e a Dante; centodue anni dopo la fine della Grande guerra, che avrebbe dovuto far piazza pulita di ogni concetto di prima, continuiamo a usare il “rasoio di Occam” e i sillogismi, e ad aprire le cassette degli attrezzi di Platone, Tommaso d’Aquino, Spinoza, Marx o Nietzsche, e a interrogare la grande poesia e letteratura dei secoli passati per trovare risposte sul presente. Durante l’emergenza coronavirus si è citato Manzoni come mai negli ultimi decenni.
Nemmeno le rivoluzioni più radicali segnano discontinuità totali, perché le fanno persone cresciute nel mondo di prima, e perché il nuovo assetto eredita dal mondo di prima strutture, mentalità, “debiti” di vario tipo che poi toccherà pagare. Ad esempio, l’apparato buro-poliziesco zarista e l’ideologia grande-russa sopravvissero nascosti nel marasma della Rivoluzione d’Ottobre. Le conseguenze si videro poco dopo e si continuano a vedere oggi.
Sul fatto che dopo l’emergenza coronavirus «niente sarà più come prima», abbiamo serissimi dubbi. Come ha scritto l’associazione Re:common,
«Potremmo anche tornare a leggere cosa si scrisse dopo lo scoppio della bolla della digital economy ad inizio anni 2000, dopo la crisi finanziaria delle tigri asiatiche del 1997 e dopo il lunedì nero di Wall Street del 1987. Probabilmente noteremmo proclami simili, se non uguali. Poi cosa successe dopo ognuna di queste crisi? Continuò quella lenta trasformazione a cui la “mega-macchina” della globalizzazione è soggetta da secoli, al netto di poche scosse. Si dirà, però, che questa è un’emergenza sanitaria e il tutto non nasce né da fenomeni finanziari, né economici, né sociali. Vero, ma trovata poi la cura e il vaccino, anche se forse ci vorrà più di un anno, i processi della mega-macchina continueranno, seppur con piccoli aggiustamenti. Magari fino al prossimo virus e al conseguente lockdown. Se guardiamo alle tendenze fondanti del processo di lungo termine, […] in realtà questa attuale crisi sistemica le mette tutte in rilievo, ed anzi le rafforza, senza produrre particolari rotture.»
Aggiungiamo una notazione che dovrebbe essere ovvia, ma evidentemente non lo è: la gestione politica di un’emergenza non può spuntar fuori dal nulla, priva di storia, portata avanti da improvvisi signori nessuno. A gestirla sono le istituzioni esistenti e i governanti in carica, che stanno ai loro posti perché sono successe certe cose e non altre, in un dato contesto e in un dato sistema.
La gestione dell’emergenza, dunque, non può essere incoerente con la storia politica del paese: avviene nelle condizioni create da quella storia politica. E la storia politica d’Italia si presenta come un’immane accumulazione di emergenze, e ogni singola emergenza si presenta come forma elementare dell’esercizio del potere politico in Italia.
Oggi chi ritiene che quest’emergenza sia talmente diversa dalle precedenti da giustificare lo stato di polizia non è un nostro compagno di strada ed è assai probabile che non lo sarà nemmeno nel prossimo futuro. Non importa quali siano i suoi trascorsi o le sue medaglie: se non è in grado di criticare i provvedimenti assurdi e fascistoidi a cui la popolazione di questo paese è stata sottoposta e la criminalizzazione di comportamenti innocui che ha dovuto subire, significa che è pronto ad accettare tutto ciò che nella vita ha professato di avversare.
E facilmente, come appunto un secolo fa, accadrà che ritroveremo svariati “compagni” e “compagne” su posizioni ultrareazionarie. Inconsapevolmente o ipocritamente, al lato pratico non fa molta differenza. Accadrà, purtroppo. Anzi, lo abbiamo già visto accadere sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno durante questa quarantena prolungata.
7. Dieci punti fermi per il futuro
Saranno giorni di incertezza, ci dicono. È una situazione nuova, mai vista prima, che ha spazzato via tutti i riferimenti. Bisogna darsi il tempo di elaborare nuove categorie di pensiero. Occorre essere cauti, tenere un profilo basso, non esporsi troppo, attendere il momento più opportuno, a bocce ferme, passata la buriana, quando ci sarà da rimboccarsi le maniche.
Noi, affacciati sul calanco di Sabbiuno, mentre scendeva la sera, ci dicevamo che come sempre avremmo coltivato il dubbio e interrogato le nostre contraddizioni, ma allo stesso tempo, sull’orizzonte, scorgevamo il profilo di alcune certezze e sentivamo di doverle chiamare per nome, subito, come un marinaio che grida «Terra!» dalla coffa sull’albero di maestra.
1. Non accetteremo che il prossimo DPCM imponga ancora l’obbligo di rimanere all’interno del proprio comune di residenza e di autocertificare i «validi motivi» dei propri spostamenti. Pertanto, dobbiamo immaginare fin da subito come intendiamo reagire nel caso in cui quel provvedimento venga reiterato.
L’articolo 16 della Costituzione, proprio in risposta alle pratiche fasciste del confino di polizia, garantisce che «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». In questo momento, l’unico «motivo di sanità» che può limitare i miei movimenti sul territorio è la necessità di mantenere una certa distanza dalle altre persone non conviventi. Per il resto, non c’è alcuna ragione sanitaria che imponga di discriminare i motivi per i quali mi muovo sul suolo pubblico, se vado a incontrare un amico mantenendo il distanziamento, a fare un presidio con un compagno di lavoro o a raccogliere ortiche per una sfoglia verde.
2. Fin dall’inizio dell’emergenza e dal primo DPCM abbiamo raccolto testimonianze e richieste d’aiuto da parte di persone che sono state sanzionate in maniera ingiusta o illegale, con l’aggiunta di trattamenti vessatori da parte delle forze dell’ordine, a causa della discrezionalità che è stata data a queste ultime nell’applicazione di norme imprecise, mal scritte, che mettono nella condizione di non sapere nemmeno se, quando e come le si sta violando. Multe molto salate che incidono in maniera pesante su persone già messe in difficoltà economica dalla situazione attuale. Occorre organizzarsi e istituire squadre d’avvocati con l’obiettivo che tutte queste sanzioni siano annullate dagli organi competenti.
[Abbiamo inserito questo punto, molto importante, dopo un commento di Mr.Skimpole, dal momento che il nostro “decalogo” conteneva in realtà solo nove punti, avendo saltato il numero sette. Quando si dice la forza di una cornice concettuale, di uno schema di pensiero…]
3. Non accetteremo che la ripresa dell’anno scolastico, a settembre, sia ancora affidata alla Didattica a Distanza. Ci sono cinque mesi di tempo per studiare, sperimentare e implementare modalità sicure per tornare in aula. Dobbiamo pretendere che non vadano sprecati. Accettare mezze soluzioni nel prossimo futuro, potrà significare l’apertura a una ristrutturazione della didattica che minaccerà la stessa vita scolastica e finanche il mantenimento del tempo pieno.
4. Non possiamo più accettare che la vita e le relazioni dei soggetti “non produttivi” vengano messe in secondo piano e addirittura dimenticate dai decreti d’emergenza. Tutelare la salute di anziani e bambini significa anche prevedere che possano avere relazioni e alternative al rimanere chiusi in casa o in prossimità delle proprie abitazioni. Lo stesso vale per altri discriminati in quanto improduttivi: senza fissa dimora, disabili, sofferenti psichici, detenuti…
5. Non accetteremo che le specificità dei singoli territori vengano scavalcate e uniformate, come se lo spazio fosse soltanto un concetto geometrico, una categoria del pensiero, e non un ecosistema. Lombardia e Basilicata non si possono trattare allo stesso modo. Montagna e pianura nemmeno. E lo stesso vale per le metropoli e i piccoli borghi, per il continente e le piccole isole, per Milano e Caprera. È assurdo, ad esempio, promulgare ordinanze che valgano per tutte le biblioteche d’Italia, o per tutte le forme di trasporto pubblico, dal bus cittadino alla corriera che raggiunge una frazione di cinquanta anime.
6. Occorre organizzarsi per riattivare al più presto la possibilità di riunirsi fisicamente per fare politica e fare cultura. Attendere che la situazione si sblocchi dall’alto comporterebbe un’attesa lunga e malsana. Affidarsi a videoconferenze, videoriunioni e videospettacoli rischia di renderla ancora più lunga. Dobbiamo inventarci luoghi e modalità nuove, che consentano di incontrarsi in sicurezza, all’aperto, in strada, nella spazio pubblico, sfruttando ogni possibilità per leggere, discutere, stare insieme.
7. Il problema della sicurezza sul lavoro non nasce con il coronavirus, ma l’emergenza dovrebbe essere l’occasione per affrontarlo finalmente da una posizione di forza. Soltanto a Bologna, le aziende che hanno lavorato in deroga, in attesa che il Prefetto si esprimesse sulla liceità della richiesta, sono 8000 – e parliamo di una città che vive(va) per lo più di terziario, università, turismo… In tutta la Regione sono 28mila. Non si può accettare che valutazioni così importanti vengano affidate ai prefetti.
8. In questi due mesi si sono attivate reti di solidarietà attiva, mutuo soccorso o carità cristiana, in favore di chi – come al solito – ha pagato l’emergenza più caro degli altri. La solidarietà è benemerita e chi l’ha resa possibile è degno della massima stima. Tuttavia è bene ricordare che la solidarietà senza conflitto è monca e rischia di diventare beneficenza o supplenza. Su queste questioni, anche recentemente, si sono prodotte tante ottime riflessioni che vanno ripescate nella loro radicalità e approfondite nei tempi che ci aspettano.
9. Una conseguenza del lockdown è stata la riduzione nel consumo di combustibili fossili. Tanti hanno sperimentato com’è respirare aria più pulita. Il collegamento tra l’incidenza del contagio e i livelli d’inquinamento è per ora soltanto un’ipotesi, ma che sembra piuttosto fondata. Lo stesso può dirsi per la correlazione tra epidemie, allevamento intensivo, disboscamento, distruzione di habitat e cambiamento climatico. Da tutte queste considerazioni, il movimento contro il surriscaldamento globale e l’ambientalismo radicale non possono che trarre nuova linfa e nuovi argomenti. Per questo non deve tardare a riprendere l’iniziativa e a ribadire il bisogno di ridurre i consumi di energia, di combustibili fossili e di carne.
10. Lo «smart working», con la scusa delle comodità che offre anche ai lavoratori, verrà difeso, implementato e imposto. È qui per rimanere. E se è stato dimostrato nei fatti che tanti spostamenti altamente veloci da una città all’altra possono non essere necessari per gestire gli affari, al tempo stesso, nei piani più bassi della gerarchia lavorativa il rischio concreto è quello di veder cancellare ogni rapporto collettivo tra chi lavora, e tra chi lavora e le imprese, in favore di rapporti individuali molto più vantaggiosi da gestire per il padronato. Di fatto, si tratterebbe di tornare a una situazione molto simile al lavoro casalingo a cottimo – con tutto lo sfruttamento che questo comportava.
8. ritorno da Sabbiuno
Dopo avere percorso il sentiero leggendo incisi sui massi i nomi dei morti di Sabbiuno, ci siamo ritrovati sull’orlo del burrone, lo sguardo prima nell’orrido sotto di noi, poi alto, verso le colline all’orizzonte.
Storie partigiane divenute cinema e letteratura. Echi di leggende millenarie. Quello di cui da sempre ci nutriamo. L’immaginario deve ridiventare carne e sangue e relazioni e contatti umani. Cuore oltre l’ostacolo, anzi, oltre il dirupo.
Abbiamo respirato a pieni polmoni l’aria umida della sera. Era tempo di tornare giù in città. Tempo di liberarsi.