Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Riccardo Festa che fa il punto sulle contraddizioni del concetto di sostenibilità, quando sganciato da una direttrice generale che riguarda la critica dell’attuale modello di sviluppo. Riccardo Festa è dottore di ricerca in Razionalità ed ha insegnato per alcuni anni Caratteri Tipologici e Morfologici dell’Architettura alla Facoltà di Architettura dell’Università Federico II di Napoli.
«Nel 2030 la quota di popolazione che vivrà in città supererà il 60%, il che significa che, su una popolazione stimata di 8,1 miliardi, gli abitanti delle città saranno circa 5 miliardi. Di questi 5 miliardi, 2 miliardi vivranno nelle bidonville e slums delle maggiori città, soprattutto in Africa e in Asia» (Veron 2006).
Le persone che continueranno a vivere in ambiente rurale saranno più di 3 miliardi.
I problemi di degrado presenti nelle attuali aree metropolitane, i fenomeni di inciviltà, di violenza, l’aggravamento dell’isolamento sociospaziale, la crescente disparità tra ricchi e poveri, il graduale abbandono delle aree rurali e lo svuotamento di “quelle interne” possono indurci a osservare tali fenomeni nell’ottica della “crisi simultanea dell’urbano e del rurale”; mentre, questi eventi, andrebbero letti come conseguenti ad una “crisi di sistema”, una crisi della società contemporanea.
L’attuale stile di vita delle aree metropolitane non potrà essere esteso a tutti gli abitanti della Terra e la riproduzione dell’attuale sistema economico, che ci sta portando velocemente verso un eco-catastrofe, inciderà profondamente sugli equilibri geopolitici. Le fasi critiche dell’attuale modello di sviluppo, che saranno più profonde e ravvicinate nel tempo, avranno conseguenze che colpiranno maggiormente le persone che oggi si trovano ai margini della nostra società.
Nessuna alternativa di sviluppo sostenibile potrà essere tale se non sarà capace di porre come prioritaria la questione del miglioramento del sistema ambientale unito al progressivo avanzamento delle condizioni di vita delle popolazioni marginalizzate, in termini di accesso all’istruzione, ai servizi sanitari, a risorse come cibo e acqua, a quelle energetiche e all’occupazione.
Una delle questioni da affrontare è quindi come pianificare la sostenibilità. Sarebbe ingenuo immaginare che l’epoca in cui saranno attuate e diffuse “buone pratiche di sviluppo sostenibile” possa essere raggiunta soltanto attraverso alcune modifiche di strumenti e procedure. Ben altra è la posta: bisogna ripensare la scala delle priorità, il modello di produzione e di consumo, degli insediamenti, di approvvigionamento energetico, di utilizzo delle risorse; in sintesi, bisogna ripensare l’economico e il politico.
«Gli attuali modelli insediativi non sono più sostenibili: le alte densità di popolazione, la rapida crescita dei consumi di energia, e materia pro capite e la crescente dipendenza del commercio (il tutto facilitato dalla tecnologia) fanno sì che la localizzazione ecologica degli insediamenti umani non coincida con la loro localizzazione geografica. Per la sopravvivenza e per la crescita, le città moderne e le regioni industrializzate dipendono da un hinterland globale sempre più vasto costituito da territori ecologici produttivi» (Wackernagel, Rees 2004).
Avanza quindi la necessità di sperimentare nuovi modelli insediativi. Tale sperimentazione potrà avvenire solo tramite interazioni e intese tra molteplici attori. I cambiamenti saranno possibili se la compagine di attori sarà ampia e articolata da assicurare la presenza e la voce di chi solitamente non ce l’ha.
Bisognerà pianificare la sostenibilità ripartendo dalla valorizzazione del patrimonio territoriale, dalla trasformazione degli enti pubblici territoriali, dalla costruzione di nuove forme di gestione dei servizi e delle risorse. Una governance capace di attivare nuovi ruoli progettuali e nuovi istituti di democrazia adeguata a rafforzare la coesione della società locale e della struttura produttiva, per gettare le basi di un autonomia utile ad innescare un nuovo metabolismo territoriale basato su «un sistema di relazioni con le altre società locali di tipo non gerarchico, federativo, solidale, avviando un processo di globalizzazione dal basso, che risponda all’obiettivo di elevare la qualità della vita in forme non selettive e non escludenti»(Magnaghi 2000).
Gli sforzi da produrre devono essere indirizzati alla creazione, allo sviluppo, alla crescita e al consolidamento delle reti locali che, mettendo in relazione le energie emergenti, siano capaci di organizzare una reazione visionaria e fattiva al fallimento della globalizzazione economica.
Sarebbe illusorio e allo stesso tempo miope immaginare che politiche di adattamento indirizzate esclusivamente a mitigare gli impatti conseguenti alla crisi globale in atto possano rappresentare una via d’uscita percorribile, senza produrre contemporaneamente percorsi di transizione nei quali praticare con impegno la sperimentazione per la creazione di nuovi modelli insediativi, sociali ed economici.