Una lunga intervista a Wajdi al-Ahdal di e tradotta da Francesco Cargnelutti per la rubrica Schegge di Yemen.
“Ciò che è successo in Yemen non era una rivoluzione popolare, ma un conflitto tra centri di potere politici per la spartizione delle risorse economiche del paese. Nonostante questa lettura sconfortante della rivoluzione yemenita, personalmente spero che questo enorme terremoto politico porti alla nascita di una consapevolezza nuova nei cittadini”. Le riflessioni di Wajdi al-Ahdal, tra gli scrittori yemeniti più conosciuti anche a livello internazionale, offrono un punto di vista interno sulla rivoluzione del 2011 e la guerra che sta martoriando il paese dal 2015. Nell'”Antologia della letteratura araba contemporanea”, le tre curatrici – Maria Avino[1], Isabella Camera d’Afflitto e Alma Salem – descrivono così l’opera di al-Ahdal: “La sua scrittura acuta, caustica, raffinata, erudita, attenta ai dettagli e la sua audacia nell’esprimere le proprie idee sulla società yemenita, in particolare, e araba, in generale, fanno di lui un autore non convenzionale, definito l’enfant terrible della letteratura yemenita. Lo scrittore […] sale alla ribalta nel 2002 quando il suo primo romanzo, Qawàrib giabaliyya (Barche di montagna), suscita violente critiche da parte delle autorità governative e religiose. […] A seguito della richiesta di condanna a cinque anni di reclusione, e minacciato di morte da parte degli estremisti islamici, lo scrittore è costretto a lasciare il suo paese, dove ritorna solo a seguito della campagna di solidarietà promossa dal premio Nobel tedesco Günter Grass. Tra i temi ricorrenti nei suoi lavori c’è quello delle lotte partitiche e tribali che nel 1994 sfociano nella guerra civile […], gli abusi di potere esercitati dagli apparati governativi e polizieschi, il cieco conformismo della società e le ingiustizie sociali che sono alla base di una catena di misfatti e crimini compiuti anche in nome della religione.
Com’era la scena intellettuale prima della rivoluzione? E la situazione della società civile?
Prima della rivoluzione del 2011 la scena intellettuale in Yemen era debole e repressa. Gli intellettuali venivano silenziati, la stampa libera veniva chiusa oppure subiva pressioni per seguire una linea editoriale definita. La società civile era frammentata e infiltrata dai mezzi dei servizi segreti. Molte prominenti personalità della società yemenita avevano un doppio aspetto, si presentavano all’Occidente come liberali in difesa dei diritti umani, ma [in realtà] lavoravano per conto dei servizi di sicurezza. [L’ex presidente] ‘Ali ‘Abdudallah Salih aveva costruito un’opposizione politica e civile che all’apparenza lo contrastava, ma in realtà realizzava segretamente il suo progetto politico e lavorava per sostenerlo.
Avevi previsto la rivoluzione? Quali erano le tue aspettative?
Sì, mi aspettavo la rivoluzione a causa del fatto che, mentre la classe politica governante si era allargata nel numero di membri, le entrate (legate soprattutto al petrolio e al gas) dello Yemen erano diminuite. Ciò richiama la teoria del ricercatore inglese Thomas Robert Maltus per cui mentre il numero di individui della classe politica cresce in progressione geometrica, le risorse economiche dello Yemen hanno iniziato a crescere in progressione aritmetica. E poiché le risorse economiche non bastavano più per tutti i membri della classe politica, il verificarsi del conflitto era inevitabile. Ciò che è successo in Yemen non era una rivoluzione popolare, ma un conflitto tra centri di potere politici per la spartizione delle risorse economiche del paese. Nonostante questa lettura sconfortante della rivoluzione yemenita, personalmente spero che questo enorme terremoto politico porti alla nascita di una consapevolezza nuova nei cittadini yemeniti.
Cosa hai pensato quando il dialogo tra le parti è fallito ed è scoppiata la guerra nel 2015?
Il fallimento del dialogo è stata una conseguenza inevitabile perché le parti del dialogo non rappresentavano il popolo, ma i loro interessi personali. Perfino il partito unico non dialogava per l’interesse di tutti i suoi membri, ma per l’interesse di un gruppo definito interno alla sua leadership! I politici yemeniti sembrano le cosche mafiose italiane. Abbiamo famiglie politiche aristocratiche ed ogni famiglia combatte le altre, anche se possono formarsi delle alleanze temporanee tra diverse famiglie per bilanciare il potere di una più forte, come è successo nella rivoluzione del 2011 quando le famiglie politiche yemenite si sono unite per rovesciare la famiglia del presidente ‘Ali ‘Abdudallah Salih.
Qual è il ricordo più intenso che hai della rivoluzione o della guerra?
Il mio ricordo più limpido della rivoluzione è quel grandioso stato di ottimismo dentro il campo dei rivoluzionari, i sentimenti di speranza in un futuro migliore per tutti gli yemeniti erano veramente travolgenti. Questa è una condizione rara. Il cittadino yemenita, infatti, generalmente ha perso la speranza per la condizione del proprio paese e non pensa che lo Yemen possa svilupparsi e diventare uno stato alla stregua dei paesi avanzati europei.
Il ricordo più limpido della guerra è successo quando ero assieme ad un mio amico, un intellettuale, dopo che gli aerei dell’alleanza [a guida saudita] avevano bombardato una casa che si trovava tra due case ad essa adiacenti, nella Sana’a antica. Questo mio amico ha elogiato l’abilità del pilota che è riuscito a distruggere completamente la casa che aveva come obiettivo senza che le due case a destra e sinistra fossero distrutte! Lui sapeva che nella casa distrutta non c’era altro che una famiglia normale, senza alcun legame con le parti in conflitto. Questa sua posizione mi ha provocato uno shock e ho capito che l’essere umano, nelle sue profondità, è un essere freddo, indifferente alle tragedie degli altri.
È inevitabile quando parliamo di una guerra di sentire racconti del conflitto tra le parti. Ci sono, però, storie di una resistenza comune? O di relazioni impensabili tra individui e gruppi di parti in conflitto?
Sono decine le storie strane che sentiamo. Ad esempio, sentiamo ripetutamente di linee di contatto al fronte, quando questo si calma: succede che i combattenti si scambino battute amichevoli, o si donino l’un l’altro foglie di qat, acqua o cibo.
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[1] M. Avino, I. Camera d’Afflitto, A. Salem (a cura di), Antologia della letteratura araba contemporanea. Dalla nahda a oggi, Carrocci editore, Roma, 2015, p. 204.