Montanelli non è stato affatto «un grande giornalista», né tanto meno è stato «un giornalista libero». Anzi stiamo parlando di un uomo sempre e comunque dalla parte del potere. Anche il suo arresto ad opera dei repubblichini non fu dovuto a nessun «merito resistenziale» ma solo alla fretta con cui, dopo aver cantato le lodi del «Duce» per anni, era salito dopo il 25 luglio 1943 sul carro di Badoglio. La cosa finì comunque in un rilascio seguito da un comodo soggiorno in Svizzera, in compenso aveva subito quel tanto di disturbo da poter dire di aver «fatto la resistenza», salvo poi passare il resto della vita ad attaccare i partigiani e difendere gli aguzzini nazisti come Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, come racconta questo post del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki.
Tra anni ’50 e ’60 Montanelli continuò a stare dalla parte di chi pagava meglio, anzi a proporsi per bassi servigi di natura non propriamente giornalistica. Come quando nel 1954 propose all’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce di creare una struttura di «bastonatori» da impiegare come squadristi in caso di vittoria elettorale social-comunista. Dopo la tragedia del Vajont nel 1963 diede della «sciacalla» a Tina Merlin per aver osato denunciare le responsabilità le responsabilità dell’azienda idroelettrica SADE.
Fece ammenda trent’anni dicendo di averlo fatto per contrarietà alla nazionalizzazione dell’industria elettrica. Una bieca minaccia alla proprietà privata che veniva da quel pericoloso rivoluzionario di… Aldo Moro.
«Un animalino docile»
Quindi ci sono non una ma decine di ragioni per rimuovere la statua del sedicente «grande giornalista» dal giardino in cui è posta a Milano, ma la campagna è iniziata ad opera dei movimenti transfemministi e si è concentrata soprattutto su uno degli episodi più squallidi della vita di Montanelli, lo stupro (sotto forma di “matrimonio temporaneo”) di una ragazzina mentre prestava servizio come ufficiale del Regio Esercito Italiano durante l’invasione dell’Etiopia nel 1935-1936.
Ecco come nel 1972, intervistato da Gianni Bisiach egli stesso raccontava l’episodio in televisione.
Come si vede Montanelli si ritrova spiazzato davanti alle domande di Elvira Banotti, prima finisce per mostrare il corto circuito etico del colonialismo «stuprare dodicenni in Africa va bene, in Europa no», poi la trasmissione viene interrotta per salvare «il grande giornalista» da un confronto che gli stava risultando scomodo.
Ritornò sull’argomento alcuni anni dopo, nel 1982, questa volta senza interlocutori scomodi, e mi spiace molto scriverlo perché lo intervistava in quell’occasione Enzo Biagi, che purtroppo qui mostra nei confronti di Montanelli una tacita complicità maschile della peggior specie. Oggi il video dell’intervista non è più disponibile su YouTube, ma si trova la trascrizione di un passaggio centrale in un articolo de Il Manifesto.
«Non mi prendere per un Girolimoni perché a 12 anni quelle lì erano già donne. Avevo bisogno di una donna, a quell’età si capisce. La comprai assieme a un cavallo e a un fucile, il tutto per 500 lire. Lei era un animalino docile. Quando me ne andai la cedetti al generale Pirzio Biroli, un vecchio coloniale che era abituato ad avere il suo piccolo harem, a differenza di me che ero monogamo perché non potevo consentirmi grandi lussi».
Passano 18 anni e Montanelli cambia versione. Il 12 febbraio del 2000, rispondendo alla lettera di una lettrice sulle pagine de Il Corriere della Sera dà finalmente un nome all’«animalino»: Destà. Da dodicenne diventa però quattordicenne, guarda caso il codice penale italiano dell’epoca considerava i rapporti con i minori di quattordici anni «violenza carnale», ergo quei due anni in più non sembrano affatto casuali, ma una comoda scappatoia per potersi appellare «al contesto». Inoltre Montanelli ci tiene a rimuovere ogni aspetto di attrazione sessuale parlando dell’«odore» della ragazzina e del suo esser stata infibulata, mentre nel 1972 vantava invece il fatto che fosse «bellissima». Anche il finale della storia viene edulcorato, la ragazzina non finisce più nell’harem di un criminale di guerra come Pirzio Biroli bensì sposata con figli – di cui con il nome di Indro – a un sottufficiale degli ascari eritrei.
La cosa più inquietante del testo non è forse la risposta di Montanelli, ma la lettera della giovane lettrice quando scrive «la storia da lei vissuta con una “faccetta nera”». Ovvero una ragazza di 18 anni nel 2000 per parlare di una ragazzina africana lo fa attraverso un’espressione disumanizzante della propaganda fascista senza porsi alcun tipo di problema. La statua e il culto di Montanelli alla fine ci mostrano proprio questo: nella testa della borghesia italiana (i lettori de Il Corriere della Sera) il fascismo non è mai morto.
Severgnini sul corsera scrive di Montanelli e di quanto sia importante preservarne la statua di”un fascista disincantato,speranzoso reporter”,mistificando la COMPRAVENDITA di una bimba di 12 anni.
Il contesto è COLONIALE e lui ne ha perpetuato le violenze.https://t.co/W4IuGoeTfz pic.twitter.com/2YrtmPmphF— Brizzi (@cristinabrizzi) June 11, 2020
Contestualizziamo! Ok, contestualizziamo…
«Dovete considerare il contesto! La mentalità dell’epoca!» gridano i difensori di Montanelli. Ok, contestualizziamo allora. Il «madamato» cioè la pratica degli ufficiali italiani di allacciare stabili relazioni con donne dei territori dell’Africa orientale occupata era una pratica assai diffusa e lo rimase anche dopo che un Regio Decreto del 1937 scimmiottò. Le leggi razziali naziste di Norimberga proibendo questo tipo di rapporti.
Da un lato il «madamato» era sempre frutto di una situazione di subalternità, violenze e oppressione a cui la donna nativa era sottoposta dall’alleanza tra i due patriarcati, quello della cultura d’origine e quello dei colonizzatori. Ma si può tranquillamente dire che il «madamato» praticato da Montanelli fu particolarmente ributtante, che fu peggiore di quello praticato da altri ufficiali del Regio Esercito italiano negli stessi anni. Innanzitutto per l’età della «sposa» e poi per il tipo di rapporto che il giovane ufficiale italiano intrattenne con lei, ben riassunto nell’espressione «era un animalino docile».
Prendiamo il libro Kai Bandera. Etiopia 1936-1941. Una banda irregolare (Mursia: Milano, 2000), un testo di memorie scritto dal generale Ettore Formento, all’epoca, proprio come Montanelli nel 1935-1936, giovane ufficiale incaricato di guidare un reparto di truppe coloniali (Ascari). Anche in questo caso si racconta della relazione con una ragazza africana, Lettè Uoldergheorghis. Ecco come Formento tira le somme del suo rapporto con lei raccontando di averla dovuta abbandonare, assieme ad altre donne e feriti, durante la ritirata del 1941, sotto l’incalzare dei partigiani etiopi e delle truppe inglesi:
«Avevo dovuto lasciare anche Letté e questo per me non era solo un sacrificio che, compiuto da tutti, a maggior ragione doveva esserlo anche da me, ma era un tradimento che sento di aver compiuto nei confronti di chi aveva riposto in me la sua fiducia. Io le volevo bene. Era una compagna attenta e innamorata, da lei avevo appreso più che da ogni altro. Mi aveva insegnato di quali sacrifici sia capace una donna abissina per il suo uomo. Non voglio e non sono capace di dire di più, non riesco a esprimere i sentimenti che provo e la mia umiliazione per una decisione giusta ma anche tanto fredda e disumana».
Certo anche la relazione di Formento era fatalmente falsata e inquinata dal «contesto», cioè dal colonialismo, dalla realtà dell’occupazione italiana in Etiopia. Al di là della situazione in cui si realizzò la sua separazione da Letté, la loro era un’unione che poteva finire solo con l’abbandono della donna africana da parte dell’ufficiale italiano.
Ma questo è per l’appunto «contestualizzare» e proprio contestualizzando emerge tutta l’abissale differenza umana tra Formento e Montanelli. Si poteva stare dalla «parte sbagliata», si poteva essere fascisti e colonialisti senza per forza violentare ragazzine, senza considerarle «animaletti» e soprattutto, nei decenni successivi si poteva almeno accennare un minimo di analisi critica del proprio passato.
Una delle differenze principali tra Montanelli e Formento proprio nel modo di raccontare l’esperienza vissuta nel suo complesso. Per Formento era «una guerra» e la racconta senza pentimenti ma con onestà intellettuale, senza tacere le atrocità del colonialismo italiano, le buone ragioni dei partigiani etiopi ed in generale la brutalità della situazione. Per Montanelli no, lui per tutta la vita parlerà di «un’avventura» per la quale continuava ad essere «grato a Mussolini». Tant’è che continuerà a negare i crimini di guerra italiani come l’uso di gas asfissianti nonostante i documenti portati da Angelo del Boca, il principale storico del colonialismo italiano, in nome del «non è vero e lo dico io che c’ero!». È questo il modo abituale in cui Montanelli ha sempre parlato di storia: i documenti, lo studio non contano niente, conta solo ciò che vede (o che immagina) il «grande testimone», cioè lui. Peccato che nel 1995 il governo italiano rese pubblici anche i documenti dell’epoca presenti negli archivi militari (come i telegrammi che riportavano gli ordini di Mussolini). Montanelli ammise che i documenti gli davano torto ma continuò a insistere sul fatto che secondo lui i gas non erano stati usati, perché «lui c’era», lui «sapeva come funzionavano in realtà le cose in Italia». Peccato che non ci fossero solo gli ordini di impiego, ma anche le relazioni sulla loro efficacia e le missive in cui ci si preoccupava di mettere a tacere eventuali testimoni scomodi tra il personale della Croce Rossa internazionale presente sul posto. Per farsi un’idea si veda il libro del 2015 di Simone Belladonna Gas in Etiopia: i crimini rimossi dell’Italia coloniale.
«Allora erano tutti così!». No. Lo erano i vostri antenati, non i nostri.
Ma erano tutti colonialisti, fascisti e razzisti gli italiani del 1936? Senza dubbio la conquista dell’Etiopia segnò il punto più alto del consenso raggiunto dal regime di Mussolini. Ma nella cultura e nella visione del mondo degli italiani c’era anche molto altro. In quegli anni, nei suoi Quaderni dal carcere Antonio Gramsci scriveva che «la tradizione del popolo italiano è cosmopolita», che il nazionalismo e il colonialismo erano una violenza imposta dalla borghesia ad una cultura popolare ben diversa. In effetti l’Italia era stato forse il paese europeo in cui più forte era stata l’opposizione popolare al colonialismo e questa tradizione era radicata della cultura popolare. Basta pensare ai romanzi di Salgari su cui sono cresciuti generazioni di ragazzi italiani, spesso “i cattivi” sono proprio i colonizzatori mentre gli eroi sono quelli che si oppongono a loro. Quei romanzi sono anche pieni di rapporti sentimentali “sani” tra persone di cultura ed etnia diverse.
In occasione del primo tentativo espansionista italiano ai danni dell’Etiopia nel 1887 il poeta ed ex garibaldino Ulisse Barbieri aveva scritto «Ma non capite, oh immensi cretini/ che i patrioti son gli abissini?».
Ma soprattutto l’Italia era, accanto alla Spagna, l’unico paese in cui le aggressioni coloniali avevano trovato un’opposizione di massa. I lavoratori e le lavoratrici italiani erano scesi in piazza in massa contro l’invasione dell’Etiopia nel 1896 e contro quella della Libia nel 1911. Il Partito Socialista Italiano fu l’unico partito della seconda Internazionale (insieme ai bolscevichi russi) ad essere interamente contrario al colonialismo e chi non ci stava veniva espulso.
Il fascismo aveva cercato di cancellare questa storia di solidarietà internazionalista ma non c’era riuscito. Sulle Ambe etiopiche gli italiani non erano solo invasori, c’era anche chi combatteva dalla parte giusta, al fianco degli etiopi.
Erano i componenti di una piccola missione militare organizzata dal Partito Comunista Italiano e guidata da Ilio Barontini, un artigiano livornese che a Mosca aveva frequentato l’accademia dell’Armata Rossa uscendone con il grado di maggiore. In Spagna aveva comandato il Battaglione Garibaldi nella battaglia di Guadalajara (a nord di Madrid), dove gli antifascisti italiani avevano sconfitto le truppe di Mussolini. Dal dicembre 1938 al maggio 1940 lui e i suoi compagni furono i consiglieri militari della resistenza etiope.
Le lettere con cui Barontini relaziona al partito sulla sua attività ci restituiscono uno sguardo solidale sulle popolazioni che subivano la disumanizzazione del colonialismo:
«La situazione è buona. I contadini mi hanno fatto le migliori manifestazioni di amicizia, di rispetto, di considerazione, ho fatto e faccio tutti i giorni delle riunioni dando delle istruzioni, dei consigli, istruzioni militari, modo di combattimento, sul problema della salute, etc. Sono sorpreso poiché non ho mai trovato un pubblico più attento che qui, questi contadini sono molto intelligenti, imparano bene […]. Domani andiamo al combattimento, gli indigeni sono formidabili per il combattimento, ho visto un contadino donare una vacca per avere due cartucce per la sua arma. I preti sono sempre dalla parte della popolazione, ci sono dei preti veramente meravigliosi, sono in buoni rapporti con loro».
I testi sono riportati nel libro di Matteo Dominioni. Lo sfascio dell’Impero, gli italiani in Etiopia 1936-1941, che riporta anche altri casi di solidarietà italo-etiope ad opera di civili o militari italiani che scelsero di disertare o di collaborare con la resistenza.
Tornato in Francia Barontini subì l’ostracismo del partito. Per riuscire ad entrare in Etiopia aveva dovuto stringere accordi con i servizi segreti Inglesi e Francesi e la cosa gli venne rimproverata da burocrati che si erano fatti belli con le sue imprese per anni, salvo poi attaccarlo ora che, dopo l’infame accordo Molotov-Ribbentropp, la “linea” era cambiata. Ma nel 1941 i nazisti invasero l’URSS e la resistenza si diffuse in tutta Europa. Le bombe fabbricate da Barontini, scagliate questa volta dai partigiani francesi e poi italiani, tornarono a seminare il terrore tra gli aguzzini. Lui finì la guerra come comandante militare della resistenza emiliano-romagnola.
A questo punto la domanda è: perché nell’Italia «Repubblica nata dalla resistenza» c’è una statua dedicata a Montanelli e non a Ilio Barontini?
Perché le statue non sono “documenti storici” come gli altri, non sono neppure opere d’arte, sono qualcosa che raffigura in effige l’ideologia della classe dominante e la statua di Montanelli e soprattutto la sua sbracata difesa a reti e redazioni unificate ci dice che l’ideologia della classe dominante in Italia è ancora e sempre il fascismo.