La rivoluzione sui muri di Beirut

Silenzio e ordine. Edifici moderni e lussuosi, alle cui finestre si legge li-l-bayʿ, in vendita. Qualche passante vestito firmato, probabilmente in visita per il weekend. Nella piazza del Parlamento alcuni bambini girano sui loro tricicli intorno alla torre dell’orologio – Rolex, firmato anche quello – seguiti dalla rispettiva tata dai tratti somali o asiatici. Solo i più fortunati possono accedere alla piazza, dopo aver superato le transenne presiedute da un paio di militari che regolano l’ingresso secondo qualche criterio sconosciuto. Questo era il quartiere Downtown di Beirut in un giorno qualsiasi, prima del 17 ottobre. Adesso il centro della capitale libanese si è trasformato. Il silenzio è stato sostituito da canti, musica di generi diversi, cori e rumore di mestoli sul metallo di pentole e padellini. Il senso di vuoto e distaccamento che si percepiva nelle strade è sparito, e il senso ora è quello di appartenenza a un’unica nazione, a una battaglia comune. Gli edifici abbandonati si sono popolati più di quelli appena costruiti. A pochi passi dal Grand Théatre, un edificio storico rimasto inutilizzato per più di trent’anni, si legge su un telo bianco “Thawra, 20 m”, un’indicazione stradale improvvisata. Thawra significa rivoluzione. 

Dal 17 ottobre 2019, migliaia di persone sono confluite nelle strade di tutto il Libano, prendendo parte al più imponente movimento di protesta anti-establishment della storia moderna del paese. Lo slogan più diffuso è quello che recita: killon yaani killon, “tutti vuol dire tutti”, che punta il dito contro l’intera classe politica, rimasta di fatto immutata dalla fine della guerra civile negli anni Novanta. Qualcuno, munito di stencil, ha tappezzato le pareti del centro con i volti dei politici in una versione più cupa e realistica del “Wanted” americano. Sono tutti ricercati, tutti complici dello stesso sistema corrotto. Il sistema confessionale libanese prevede che le diverse comunità religiose presenti sul territorio nazionale vengano proporzionalmente rappresentate nelle istituzioni politiche, creando così un gioco di equilibri e di poteri che si auto-alimenta e che ha aperto la strada alla corruzione dilagante e alla crisi finanziaria attuali. I manifestanti hanno messo da parte qualsiasi appartenenza religiosa, politica e culturale per unire le proprie voci sotto un’unica bandiera nazionale e chiedere ai loro leader di dimettersi. 

Gli artisti non hanno esitato a mobilitarsi e molti di essi sono riusciti a incanalare l’esasperazione e la rabbia in uno sfogo artistico. C’è chi si è espresso con toni sarcastici, suscitando un sorriso disincantato sul volto di chi cammina nelle strade del centro. I tori dai tratti cubisti di Selim Mawad sono rappresentati in piedi su due zampe e disposti in cerchio. “Esprimi te stesso” dice la scritta in cima al disegno, seguita da due didascalie: “Terapia di gruppo – Per la prima volta dopo la guerra civile”. Selim invita i manifestanti ad esprimere liberamente i loro sentimenti, in un atto quasi catartico. A fianco di uno dei suoi disegni, l’artista ha incollato una serie di fogli bianchi, lasciando a chi passa la possibilità di scrivere i propri pensieri. È vero che il Libano è formalmente una democrazia e che durante le elezioni i cittadini hanno la possibilità di scegliere i loro leader. Ma il carattere fortemente clientelare del sistema politico e la capacità dei partiti tradizionali di fare ostruzionismo e impedire a nuovi partiti indipendenti di candidarsi rendono molto difficile un ricambio dei rappresentanti politici. 

Molti artisti hanno lasciato innumerevoli scritte in riferimento alla rivoluzione o alla caduta del sistema confessionale, in caratteri arabi o latini. Su una vetrina frantumata di un palazzo in costruzione si legge “In Caso di Rivoluzione, Rompere il Vetro”. 

libano_rompere il vetro

Qualcuno invece ha preferito il linguaggio senza filtri della volgarità, regalando sofisticati diti medi, spesso accompagnati da frasi di insulto. Molti hanno optato per lasciare un segno di speranza, come la fenice della giovane artista Hayat Nazer creata con il materiale dei gazebo istallati in piazza, poi distrutti dall’irruzione di un gruppo di oppositori delle proteste. La fenice è subito diventata il simbolo della resilienza e dello spirito del popolo libanese, in grado di risorgere più forte dopo ogni sconfitta. Alle sue spalle si erge il Pugno della Rivoluzione, una costruzione di legno alta più di nove metri, anch’essa ricostruita dalle ceneri del pugno precedente, a cui qualcuno aveva dato fuoco. 

fenice_libano

Il disegno era stato inizialmente ideato dal trentaduenne Tarek Chehab con il fine di riprodurlo in serie su polistirolo e di distribuirlo, in dimensioni ridotte, ai manifestanti. Ma a poco più di una settimana dallo scoppio delle proteste, Tarek ha trasformato il piccolo gadget rivoluzionario in qualcosa di molto più grande, che potesse rispecchiare la sempre più crescente portata delle manifestazioni. Oggi, l’enorme pugno di legno radicato al centro della capitale, con la sua scritta Thawra a caratteri cubitali, è diventato un’icona delle contestazioni ed è stato riprodotto in molte altre piazze del paese.

Non solo la protesta si è espressa attraverso l’arte, ma fare arte nelle strade di Downtown è diventato un atto rivoluzionario in sé. Negli anni Novanta, sotto l’insegna dello sfrenato neoliberalismo del dopoguerra, la pianificazione e la ricostruzione del centro della capitale furono appaltate a Solidere, una società pubblico privata di cui il primo ministro stesso deteneva gran parte delle quote. Le esigenti condizioni imposte dalla compagnia a chiunque intendesse mantenere la propria dimora costrinsero molti abitanti a trasferirsi in un quartiere più economico. Con gli anni, la zona è diventata sempre più inaccessibile ai libanesi, svuotandosi significativamente della sua popolazione originaria e lasciando il posto ad acquirenti stranieri più facoltosi. Il risultato che si può ammirare oggi è un contrastante paesaggio composto da modernissimi grattacieli accanto a cantieri abbandonati e ad antichi edifici ancora segnati dai colpi dei proiettili. Primo fra questi è proprio il Grand Théatre, le cui finestre si affacciano sull’orologio Rolex della piazza del Parlamento. Con l’obiettivo di riqualificare il centro in nome di una modernità del tutto estranea alla tradizione libanese, Downtown è diventata paradossalmente la zona meno autentica e popolata della città.

Oggi, a qualche metro dall’antico teatro si trova un lungo muro costellato di graffiti, battezzato The Revolution Wall. Il muro, che consiste in una successione di blocchi di cemento, è stato costruito in poche ore dalle forze dell’ordine per proteggere le sedi istituzionali che si trovano dall’altra parte, rendendo in questo modo ancora più evidente la distanza tra l’élite politica e il resto della popolazione. Qualcuno ha anche pensato di geolocalizzarlo su Google Maps, conferendogli una nuova dignità, al pari di qualsiasi altro luogo di interesse culturale. Il messaggio è esplicito: se nessuno ci offre lo spazio per esprimerci, ce lo procuriamo da soli. Nessuna barriera può fermare le nostre voci. 

libano_revolution_wall

Su uno dei blocchi è raffigurata un’immaginaria chat di un gruppo WhatsApp intitolato “Libano”. La conversazione mostra gli ultimi messaggi scambiati tra alcuni rappresentanti dei principali partiti prima che venissero rimossi dal gruppo uno dopo l’altro. I messaggi alludono alla tassa sulle chiamate effettuate attraverso applicazioni di messaggistica come WhatsApp, imposta dal governo nell’ultimo disperato tentativo di aumentare le entrate statali. La tassa fu ritirata il giorno stesso in cui venne annunciata, il 17 ottobre, ma ormai era troppo tardi e le strade si erano già riempite. 

Lasciando un segno visibile, i manifestanti hanno marcato il loro territorio, riprendendosi e trasformando quegli spazi asettici che non sentivano più loro. Il centro città è tornato ad essere uno spazio pubblico per davvero, un punto di incontro e di confronto, un epicentro naturale e non solo definito da un contratto aziendale. Un imponente murales bianco e nero ai piedi del Grand Théatre recita Beirut hakket, “Beirut ha parlato”. È questo il nuovo messaggio che trasmettono le strade del centro, non più quello dei cartelli “Vendesi”.

Adesso nella piazza del Parlamento neanche chi può permettersi una tata ha il permesso di entrare perché l’accesso è sbarrato da un muro in cemento armato. Il muro però lo vede solo chi arriva dal Parlamento, perché chi sta dall’altra parte vede due enormi mani, prodotto di una bomboletta spray, che aprono un varco verso una meta sconosciuta, si spera migliore di quella dove si trova il Libano oggi. 

** Benedetta Brossa è una studentessa magistrale di politica ed economia dei paesi arabi. Lo scorso ottobre si trovava in Libano quando sono scoppiate le proteste anti-establishment. 

** Pic Credit: Benedetta Brossa

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