Intervista a cura di Luca Baiada
So che si chiama Verdienstkreuz am Bande, croce al merito col nastro. Ha i bracci smaltati di rosso e un’aquila. È il secondo grado delle onorificenze al merito della Repubblica federale tedesca. Il più basso è la Verdienstmedaille; il più alto è la Grosskreuz, che ha il fiocco. Un momento, suonano alla porta.
Dicevo. La croce l’hanno data ad alcuni italiani. Sono persone colpite dalle stragi nazifasciste – come Marzabotto, le Fosse Ardeatine e tante altre, per decine di migliaia di morti – che insanguinarono l’Italia dal 1943 al 1945. Ci sono sopravvissuti a Sant’Anna di Stazzema; c’è anche qualcuno nato dopo la guerra, in una famiglia quasi annientata da un massacro.
I loro nomi? No, non è una questione personale. Ma è bene fare quello dell’avvocato Udo Sürer, figlio di uno dei tedeschi colpevoli. Credo al suo turbamento per aver scoperto questo, ma che vada alle commemorazioni, partecipi a prodotti culturali e riceva la cittadinanza onoraria, significa promozione di un uso obliquo della memoria. Che qualcuno scatti una foto di gruppo ponendosi a fianco delle vittime è un segno moralmente inquietante. Se si fossero fatti i conti col fascismo e il nazismo, i responsabili sarebbero stati puniti e i familiari risarciti. Il debito tedesco resta inevaso anche oggi, e se fosse pagato permetterebbe di affrontare il dolore con qualche sollievo, mitigando almeno le privazioni economiche dei superstiti, cresciuti nella povertà e invecchiati nei rimpianti. Anche i parenti dei carnefici ne avrebbero un beneficio etico. Se si considera questo, le controversie astratte sulla colpa eterna del popolo tedesco si rivelano fuorvianti.
È vero: le persone non possono essere sostituite dal denaro; ma questo non è un alibi per chi ne fa strage. Eppure chi perde un familiare prova, nel chiedere un risarcimento, un disagio ignoto a chi si dichiara contrario al pagamento di quello stesso denaro.
Poi guardi, le onorificenze sono una tappa di un percorso. Forse anche altri le avranno, e forse saranno esponenti delle istituzioni, storici o funzionari. Considerate se questi sono uomini, e meditate che questo è. Scusi un attimo, mi chiamano.
Eccomi. Verdienstkreuz, croce al merito. Dienen significa servire, Dienst servizio. Un cameriere è un Diener. Sono certo che i sopravvissuti abbiano sofferto, e ignoro quale servizio possano aver reso, oltre a quello involontario di aver avuto, forse, troppa pazienza.
Mi segua, perché gli equivoci hanno attori e scenari. Nel 1998 Luciano Violante e Gianfranco Fini si incontrano a Trieste nel segno della riconciliazione e della memoria condivisa. Non so se condividano anche l’ambizione al Quirinale. La Germania è riunificata da anni, Silvio Berlusconi ha accantonato la formula detta «arco costituzionale», è in atto la riabilitazione del fascismo. La tregua è già stata spezzata, gli atti ostili contro l’uguaglianza e la libertà sono evidenti.
Di nuovo a Trieste, nel 2008 c’è un vertice internazionale con Berlusconi e Angela Merkel, e alla Risiera di San Sabba si incontrano i due ministri degli esteri. In Europa la crisi economica rafforza la Germania, in Italia è aperta la questione dei risarcimenti per stragi e deportazioni. A Trieste si decide una politica di iniziative culturali, memoriali, editoriali. Con poca spesa Berlino dirà di aver fatto i conti col passato e i risarcimenti non ci saranno. In quel momento il ministro degli esteri è anche vice cancelliere: Frank-Walter Steinmeier.
Adesso, quando riceve applausi ammettendo la responsabilità del suo paese – come se si potesse negare – Steinmeier da presidente della Germania rivendica di aver avuto un ruolo, in quel frangente delicato. Ma nel 2008, quando per effetto di sentenze italiane la questione dei risarcimenti era venuta alla luce, si vide che il passato non è del tutto passato. C’è qualcuno, sotto; torno subito.
Dicevo. Lasciare senza conseguenze i crimini nazifascisti, anche questo è spezzare la tregua. Promuovere la narrazione a spese dello Stato responsabile, quindi mediante i suoi fiduciari, non cambia la sostanza. La ripresa delle ostilità comprende un’operazione sotto copertura. Dopo il 2008 intellettuali italiani, e fra loro più di cento storici, hanno lavorato a spese di Berlino per incontri, libri e siti, e da allora si ripete che la narrazione è «riparazione», «lenimento», «memoria attiva». Victor Klemperer ha chiamato Lingua Tertii Imperii il gergo deforme del nazionalsocialismo, ma non è questo il punto: c’è un vizio di forma che vanifica la memoria e la giustizia; ciò dimostra quanto siano intrecciate, benché ci sia chi esalta l’una per mortificare l’altra.
I loro trucchi, già. Lo sa che infiltravano spie nella Resistenza? Fucilavano un disertore, ma a salve: il soldato fuggiva e si univa ai partigiani per raccogliere informazioni. Sa che a volte si fingevano americani? Arrivavano nei paesi regalando caramelle; gli antifascisti li accoglievano e venivano uccisi.
Una tregua non finisce come è cominciata. Nel 1945 impiegai mesi per tornare a Torino; adesso miliardi di dati viaggiano in un secondo. Il dominio sulle risorse e sul lavoro passa sempre più da quello sulle coscienze, dal controllo sul passato, sul futuro, sul tempo. Anche per questo contano i simboli. Vuole un esempio?
Nel 1987 un ragazzo tedesco viola lo spazio aereo sovietico e atterra con un piccolo apparecchio sulla Piazza rossa. Dopo un periodo di prigione tornerà in Germania. Nel 2012 le Pussy Riot, ragazze russe, cantano una canzone in una chiesa moscovita. Resteranno più a lungo dietro le sbarre. La giustizia sovietica fu meno severa, con un intruso tedesco, di quella russa con cittadine contestatrici. Tenga conto che detiene il potere un poliziotto dell’apparato comunista che si è trovato bene nel capitalismo.
No, guardi, della lettera contro il commissario Luigi Calabresi – la firmai nel 1971 – non voglio parlare, e non c’entra che il figlio sia un giornalista. Se una tregua è spezzata, se si è inghiottiti dal vuoto – e non è solo il caso di Giuseppe Pinelli – vuol dire che c’è stata un’offesa alla vita, all’uomo, alla sua essenza. Dopo si dice suicidio, si dice malore attivo, vertigini o esaurimento nervoso. Per chi ti nega è comodo dire che sei tu a voler morire; perciò domandarsi cos’aveva dentro chi è morto, è solo un modo per costruire l’irresponsabilità di chi voleva il suo silenzio. A morire si impiega un attimo, ma l’assassinio può durare ore, anni, un’intera esistenza. Mi attenda, devo andare ad aprire.
Sì, è vero: le motivazioni diffuse insistono sulla riconciliazione, la memoria, l’Europa. Io sono un chimico: analizzo e distinguo per capire. Ho potuto leggere una sola lettera dell’ambasciatore tedesco al titolare dell’onorificenza, ed è chiara. Almeno per quel caso la croce è dovuta alle particolari benemerenze acquisite verso la Repubblica federale di Germania. È la motivazione tedesca, burocratica e sincera; il resto giace nelle contraddizioni italiane, che il giornalismo riassume. L’Italia vede intenzioni benefiche dove Berlino ha il suo tornaconto. Così, sotto occupazione, correva il mito del tedesco buono; così nel Lager le SS meno crudeli o più prevedibili, senza sbalzi umorali, partecipavano allo sterminio ma erano viste come umane.
Lei mi chiede se l’accettazione di croci tedesche, da parte di persone che hanno ricevuto parvenze di giustizia penale e rifiuti di quella civile, è una beffa? La questione è più profonda. Sono anziane, è stata fatta molta confusione e averle trascurate le ha rese fragili, quindi dobbiamo vietarci di bollarle con un marchio di infamia. Spettava all’Italia dare tutela, chiarezza e giustizia. C’è una responsabilità degli intellettuali. Verrebbe voglia di chiamarli traditori, se di questa parola non avesse abusato il fascismo, che ha offeso tanto il lascito risorgimentale.
A proposito. Ha fatto caso a chi in passato ha avuto la stessa onorificenza? Karl von Hohenzollern, il capo del famoso casato; non si apprezza abbastanza la vittoria della Repubblica nel ’46. Franz-Albrecht Metternich-Sándor, pronipote del principe di Metternich, così avverso all’Unità d’Italia. E poi, la Verdienstkreuz am Bande l’ha avuta Albert Speer. Le dice niente? Era figlio, con lo stesso nome, di quello Speer che al processo di Norimberga prese le distanze dal passato. Come se a lavorare per Hitler fosse stato un altro, e pensi che aveva fatto il ministro degli armamenti. Voglio convincermi che il figlio, architetto come lui, fosse differente dal padre, ma questa intercambiabilità degli Speer mi imbarazza. Un Albert Speer padre e un altro figlio, architetti, e il padre a Norimberga sembra un’altra persona da quella di prima, ma dopo aver espiato la pena scrive memorie per la curiosità dei nostalgici. Che strana, Norimberga. La città delle leggi naziste del 1935 è la stessa dei processi del dopoguerra ed è famosa per i giocattoli. Sento qualcosa, un momento.
Hanno messo un biglietto sotto la porta. Insomma, gli italiani con la Verdienstkreuz sono in una compagnia ambigua, non crede? Ma potranno portare quel distintivo nelle cerimonie o a passeggio. Un ornamento e un equivoco: si sa che non c’è stata giustizia, e la memoria del male, senza giustizia, insegna che a ripeterlo non si rischia. Così splenderà un In hoc signo vinces.
Jean Améry ha detto che la bandiera nazista è un drappo rosso sangue con il ragno nero in campo bianco. Viene da riflettere. Su un fondo di caos emozionale c’è un segno in cui si può vedere qualsiasi cosa, cerchiato da un candido nulla. Smaniare, ubbidire, non pensare. Rosso, nero, bianco. Solo il bianco è stato sostituito. Walter Abish della bandiera tedesca moderna ha scritto: colori che sono ora e da sempre essenzialmente tedeschi, Schwarz, Rot, Gold; nero è il nostro passato, rosso è il presente, d’oro è il nostro futuro. Effettivamente, se invece di pagare i debiti consegnano medaglie, c’è un innegabile profitto. C’è anche una certa somiglianza, ma questo non solo in Germania, col trattamento del lavoro: per esaltarlo si fa retorica, perché costa meno di un aumento di paga. Forse è la società del privilegio, a far sì che la produzione e il dolore abbiano qualcosa in comune. Ma solo la ragione e la comprensione umana possono venire a capo della violenza più invisibile: quella esercitata dalla vittima, anche su di sé; altrimenti, persino la scienza diventa una macchina della morte. Aspetti, devo aver lasciato la porta aperta.
Il sistema periodico? Esprime la nostra capacità di stare nella vita. Il conformismo avvilisce questa facoltà meravigliosa dell’uomo, e l’ottundimento passa attraverso tutte le violenze: il Lager, i libri mediocri, la cattiva televisione, l’uso puerile di Internet, la volgarità, la propaganda. Niente, su questo, è davvero al riparo.
Lei è una persona poco informata, limitata, irrisolta. Una persona, dunque. E in fondo, che io e Lei non ci siamo neanche simpatici, aiuta a prevenire i malintesi. È un motivo in più per cercare qualche tassello di verità, ed è bene che mi abbia cercato; almeno, Lei non tratta il Lager e i crimini nazisti con l’umiltà del perbenismo. Con questo non s’illuda: che Lei abbia scritto l’ultima sentenza penale italiana sullo sterminio degli ebrei, e abbia presieduto quel processo, non Le garantisce nulla, neppure di attingere a una migliore conoscenza dei fatti. Lei non ha croci tedesche di smalto, non ne cerchi neanche una italiana di carta.
Sono perplesso su questa intervista, e desidero che lo scriva. Sembra impossibile non cadere nei diversivi verbali, sfuggire alle banalizzazioni e agli accomodamenti. La narrativa deve aggirare gli ostacoli espressivi, non crearli. La saggistica deve guardarsi dal moralismo facile e dalla pretesa di dire tutto. Non tutto è dicibile, anche quando tutto deve essere gridato; ogni spiegazione giustifica, ma non spiegare appiattisce la realtà su elenchi, cataloghi, annalistica.
Adesso scusi, non posso restare al telefono. Magari mi richiami dopo. Sì, ad ora incerta. No, quando mi affaccio sulle scale so dove guardare. Altri devono scendere i gradini, uscire per riprendersi il mondo, e altri ancora salirli per uscire dalla melma. Se non ora, quando?