Il 4 aprile scorso avevamo calendarizzato il Venice Climate Meeting. L’arrivo del Covid19 ci ha costretti a sospendere l’incontro. Abbiamo solo rimandato, non rinunciato. Anzi, passati tre mesi e mezzo, siamo ancora più convinti dell’urgenza di dare vita a un percorso collettivo (di raggio nazionale ed europeo) in grado di rispondere a quello che sempre più si palesa come il capitalismo della catastrofe.
Il Climate Meeting si svolgerà sabato 12 settembre al Lido di Venezia, all’interno del Venice Climate Camp.
Il Covid 19 cartina di tornasole dell’attuale regime ecologico
È proprio guardando al Covid che pensiamo sia corretto e urgente interpretare il capitalismo come un vero proprio regime ecologico. Non è forse la pandemia in corso un sintomo di una più vasta crisi ecologica? Epidemie e pandemie rischiano di esplodere con maggiore frequenza poiché l’estrazione di valore dalla natura umana e non umana non accenna a diminuire. I virus viaggiano più velocemente attraverso le linee della logistica globale, focolai si accendono nei wet market e siamo tutti più vulnerabili a causa dell’inquinamento, della devastazione ambientale e di un’industria alimentare che assomma l’utilizzo di OGM, l’allevamento intensivo e la perdita di ogni legame con le specificità territoriali (sia a livello di produzione che di consumo).
Altro che “disgrazia”. In quest’ottica il Covid palesa il suo legame con l’irrazionalità del modello capitalistico attuale, pronto a distruggere la vita sul pianeta per salvare se stesso.
Ma la pandemia non ha significato solo interruzioni. Anzi, nel caso del movimento Black Lives Matter, essa ha funzionato da detonatore. È evidente che al centro di quel movimento ci sia il tema della razza e della razzializzazione di una società in cui le odierne subalternità sono ancora figlie delle tratta degli schiavi. Al tempo stesso, però, le rivolte statunitensi hanno assunto i tratti attuali anche in risposta alle asimmetrie razziali e classiste emerse con il diffondersi del coronavirus. Non è un mistero che la comunità afroamericana sia tra quelle più esposte alla malattia e meno tutelata da un sistema sanitario largamente privatizzato, così come non è un mistero che la stessa comunità sia tra le più soggette ai danni della devastazione ambientale e dell’inquinamento. Quel movimento è dunque leggibile anche come la rivolta di chi è costretto a sostenere i costi più ingenti della crisi ecologica globale.
I movimenti nella crisi sistemica
Allora, mentre gli effetti della crisi climatica si propagano con velocità e intensità inaudite, crediamo sia utile stabilire alcuni criteri interpretativi che siano in grado di qualificare una prospettiva “di movimento” e “in movimento”.
Mai come in questa fase, la ricerca di un’alternativa sistemica è una necessità storica, funzionale a garantire la stessa riproduzione biologica della vita sul pianeta. Non c’è nulla di millenaristico in tutto questo, poiché la crisi climatica non è un mantra capace di archiviare tutte le contraddizioni prodotte da secoli di capitalismo, ma piuttosto un paradigma in grado di interconnettere una pluralità di crisi che si collocano nel breve, medio e lungo periodo: quella economico-finanziaria, quella dello Stato di diritto e dei modelli di Welfare, quella del lavoro materiale e immateriale. Allo stesso tempo, la crisi climatica interconnette, senza mai sintetizzarle, le quattro linee fondative che si sono sedimentate nel processo di sviluppo storico del capitalismo: la classe, la razza, il genere e la natura.
L’attuale pandemia ha reso manifesti questi intrecci, ma allo stesso tempo può aprire le porte a una nuova fase della lotta tra capitale e vita stimolando, allo stesso tempo, nuove prospettive – organizzative e strategiche – per tutti coloro che collocano la propria azione politica in un terreno non “settoriale”, ma complessivo.
Lo scopo è quello di evitare di farci travolgere da una narrazione che tende ad avere accenni “catastrofistici” e che comprime sia le responsabilità storiche che hanno condotto a questa situazione, sia le possibilità reali di sovvertirla. A essere in gioco è la fine del capitalismo, più che la fine del mondo. Non solo la fine del negazionismo, della sua visione identitaria e reazionaria che continua a distruggere la rete della vita in nome dei profitti privati e dell’ideologia della crescita; ma anche la fine del capitalismo green, dietro cui (vedi le compagnie petrolifere, ENI in testa) si celano violente politiche neocoloniali e la volontà di perseverare nella estrazione di combustibili fossili. Anzi, è proprio dietro lo schermo “green” che si celano le principali tendenze che hanno segnato la “ristrutturazione” capitalista avvenuta negli ultimi decenni, grazie alle quali lo stesso concetto di “limite” della natura e della vita è diventato motore di accumulazione.
Questo nuovo “paradigma della crescita” si è basato sull’idea di identificare i soggetti della riproduzione sociale come infiniti e gratuiti. Stiamo parlando in particolare del lavoro di cura, di quello servile e razzializzato, di quello legato alla natura, inteso come lavoro-energia della biosfera. La pandemia ha accelerato la crisi di questo paradigma, creando un corto circuito evidente all’interno di un sistema economico che ha sempre traghettato ricchezze dal basso verso l’alto.
L’assenza di liquidità monetaria, che sta interessando una larga fascia di popolazione a livello globale in seguito al lockdown, ha rimesso al centro del dibattito pubblico il tema del reddito e della redistribuzione della ricchezza. Un tema che, però, va letto oltre la sua dimensione “emergenziale” e collocato all’interno del grande processo di “transizione ecologica” che è in atto da alcuni anni.
A livello europeo il cosiddetto green new deal si intreccia inesorabilmente con le misure eccezionali che la governance sta varando per fronteggiare l’attuale crisi. Nell’attuale contesto, la “transizione verde” rischia di tramutarsi in un’occasione storica per il capitalismo finanziario, in assenza di conflitti reali che mettano al centro la necessità di un reddito universale. La “riconversione” non deve quindi guardare solo alle fonti energetiche, ma all’intero modello produttivo e riproduttivo che ne è alla base. L’unica transizione ecologica possibile è quella della chiusura, dello smaltimento e della bonifica delle piccole e grandi centrali dell’inquinamento, della riconversione del salario in reddito, della rottura dei dispositivi di valorizzazione che da decenni interessano tutta la sfera della riproduzione sociale.
Contraddizioni e possibilità
È dentro questa costellazione di contraddizioni che scorgiamo le possibilità di un reale mutamento dei rapporti di forza tra capitale e vita. Certo, non pensiamo che questa rivoluzione sia a portata di mano, ma siamo convinti che sia più che mai l’orizzonte verso cui orientarsi e che sia necessario porsi il problema di dotarsi degli strumenti necessari per costruirlo.
Siamo inoltre convinti che il movimento abbia bisogno di esprimersi in forme nuove, forme che assumano da subito un orizzonte di mobilitazione europeo e globale, ma che inizino ad organizzarsi seriamente a partire dalla scala nazionale.
I movimenti giovanili per la giustizia climatica hanno giocato, prima della pandemia, un ruolo fondamentale. Hanno riempito le piazze del mondo, fornendo un megafono alla voce di un’intera generazione che ha avuto il merito di rompere il silenzio e la rassegnazione sulla questione climatica, ma anche di invertire bruscamente quella tendenza verso l’atomizzazione sociale che la forma di vita neoliberale andava imponendo con sempre maggiore invasività. Oggi bisogna scommettere sul fatto che questo tessuto sociale possa trasformarsi e soggettivarsi, essere parte di progetto comune anticapitalista e optare per campagne politiche e sociali, coordinate tra soggettività molteplici, che considerino il blocco, il sabotaggio e l’azione diretta come pratiche legittime e necessarie nei confronti di coloro che aggravano la crisi climatica.
L’esplosione di Fridays for Future, dei “Climate Strike” va inoltre letta in un contesto caratterizzato da mobilitazioni radicali e non congiunturali, che stanno sedimentando contropotere, che pongono con forza il tema di nuove istituzioni democratiche, della redistribuzione della ricchezza, dell’emancipazione da qualsiasi forma di subalternità.
In questo quadro si collocano anche la moltiplicazione delle forme di resistenza all’industria estrattiva, che assumono forme differenti a seconda delle aree geografiche, ma che riterritorializzano una battaglia il cui claim è intrinsecamente globale.
In Italia, i comitati contro le grandi opere sono portatori di una storia lunga e nobile. Indicano al movimento alcuni nessi territoriali del cambiamento climatico. Sono cioè fondamentali nel chiarire la via italiana all’estrattivismo: una via fatta di devastazione ambientale, biocidio, corruzione, misconoscimento delle comunità, repressione e spreco di risorse pubbliche che dovrebbero invece essere impiegate nella messa in sicurezza di un territorio già soggetto al cambiamento climatico (dalla circoscritta, ma grave, acqua alta straordinaria a Venezia, fino alla tragedia degli incendi che nei mesi scorsi hanno devastato l’Australia e la Siberia e alle temperature record recentemente registrate intorno al Circolo Polare Artico). Se, da una parte, pensiamo che i comitati debbano rafforzarsi e radicarsi localmente, dall’altra pensiamo che ciò non basti, che essi debbano (come in parte hanno già fatto) riconoscere come proprio terreno comune quello della giustizia climatica e sociale ed organizzarsi di conseguenza.
Un invito aperto
È dunque con uno spirito ambizioso che abbiamo organizzato il Venice Climate Meeting, con l’obiettivo di dare vita a uno spazio politico aperto i cui lineamenti, non definiti a priori, maturino nel corso di un percorso sulla giustizia climatica e sociale, in chiave anticapitalista. L’invito di Venezia è dunque aperto a chi, come noi, senta la necessità di questo spazio e voglia confrontarsi su come esso debba funzionare e sui primi passi che debba intraprendere.
L’incontro è aperto a organizzazioni, movimenti, comitati e singol*, a chi inquadra la crisi climatica nel suo inestricabile nesso con il neoliberismo globale, promotore di una logica estrattiva che si manifesta come distruzione della natura umana e non umana e come ricaduta di enormi costi sociali sulle spalle delle soggettività subalterne, dei poveri, delle donne, delle popolazioni indigene e del Sud Globale. L’invito è aperto a chi è convinto che un green new deal non sia sufficiente, che in assenza di lotte radicali, esso sarà nient’altro che una foglia di fico per lo status quo; a chi pretende che siano i ricchi a pagare la transizione ecologica e non i lavoratori e le lavoratrici precar* che hanno già fin troppo pagato negli ultimi decenni. L’invito è aperto alle ecotransfemministe, a chi smaschera la struttura patriarcale dell’Antropocene, a chi vuole demolire il binarismo uomo-natura, a chi di fronte ai popoli in fuga dalle macerie prodotte dal capitalismo sostiene il loro diritto a muoversi, a chi promuove nuovi modelli di cura, non solo tra umani, ma anche tra umani ed altre specie. L’invito è aperto infine a tutti i percorsi conflittuali che stanno ponendo con forza il tema del reddito e della redistribuzione della ricchezza, ma anche alla miriade di realtà che hanno praticato forme di solidarietà e mutualismo durante la crisi sanitaria.
A tutt* quest* va il nostro invito, con la speranza di incontrarci al Venice Climate Meeting.