di Giuliano Spagnul
Il 6 luglio alla Cascina Torchiera di Milano è stato presentato il decimo numero di Un’Ambigua Utopia, trentotto anni dopo l’ultimo della vecchia serie della rivista nata nel 1977 e cessata nel 1982. Un nuovo collettivo di giovani in una nuova era di un “pianeta infetto” (1) ancor prima che il Covid-19 manifestasse la sua riuscita performance globale. Se si confronta questo numero con i precedenti (2) sorge spontanea la domanda se vi sia o no una qualche continuità. Possiamo subito rispondere che il marchio, il logo UAU è rimasto lo stesso. E qui le assonanze finiscono. I temi, le discussioni, le passioni come gli incubi e le paure che animavano le decine e decine di soggetti che sono stati coinvolti in quella vecchia esperienza, nata sul finire di quel ventennio attraversato da quell’”orda d’oro” che aveva tentato di conquistare il cielo, vengono “risucchiati in fantascientifici cunicoli spazio-temporali da dove poi riemergono radicalmente mutati” (3) in questo presente dai caratteri sempre più, palesemente, distopici. E questo è tutt’altro che un limite; vuol dire che le vecchie contrapposizioni e discussioni, sale di ogni esperienza che si voglia considerare viva, si sono sciolte e trasmutate in un nuovo dibattito coerente con il nuovo esistente. L’acceso linguaggio settantasettino che voleva distruggere per liberare (distruggere anche la fantascienza per liberarne le potenzialità sovversive) (4) in contrapposizione a una visione militante di critica dell’esistente attraverso i temi e le immagini della fantascienza erano due modi differenti, e spesso in urto, di come concepire un fare culturale comunque non scisso, come spesso si vuole che sia, da quello politico. Vecchi problemi, interessanti come documenti per capire un epoca ma, per l’oggi, niente di più che documenti, appunto. Ma questa radicale mutazione non nasce solo per effetto del viaggio spazio-temporale in sé, è stata aiutata e resa possibile dal costante lavoro, nei decenni trascorsi, di Antonio Caronia, uno dei vecchi membri del collettivo di allora. Antonio non si è mai sottratto a rispondere alle richieste, che da più parti gli venivano sollecitate, sulla storia di quella strana e, per certi versi, quasi mitica esperienza fantascientifica. Così ha risposto alla richiesta dei compagni della rivista di ufologia radicale “Mir” (nata da una costola del Luther Blissett romano) di raccontare la storia di Un’Ambigua Utopia (5), come ha risposto alle domande dei suoi incuriositi studenti dell’Accademia di Brera, oltre che nei dibattiti e conferenze, fino al lavoro di ristampa integrale della rivista e, negli ultimi mesi della vita, la riedizione del libro Nei labirinti della fantascienza (6) oltre che il lascito dell’archivio di UAU ai compagni della Cascina Torchiera. Tant’è, che sia dipeso più da un’intrinseca volontà di riemersione piuttosto che dalla spinta personale di Antonio, la rivista è riuscita a filtrare fino a noi riemergendo con una propria fisionomia affatto originale. La tematica centrale del nuovo numero evidenzia proprio la cesura con il passato. Non il tema in sé, “la fine dell’uomo” ma la domanda che sottende. Ai tempi, ci saremmo chiesti: e se… l’uomo finisse, se ci fosse la fine dell’uomo? Come avverrebbe? Sarebbe la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro, migliore o peggiore che sia? Ancora guardavamo e pensavamo a un futuro. Oggi la fine dell’uomo non prevede più quel “se”, è già data per avvenuta, siamo tutti dei sopravvissuti, anche se non sappiamo, per certo, a cosa. Ciò che diversifica il lavoro di questo gruppo/collettivo UAU di oggi da quello di quarant’anni fa non è certo la caduta delle utopie, basta leggere il dibattito pubblicato nel secondo numero del 1979 per vedere quanto queste fossero già in crisi profonda. Il diverso e più gravoso impegno di oggi è, invece, nel capire quale evento catastrofico ci sia alle nostre spalle e quando questo si sia verificato. (7) Nel ‘77 dicevamo “la rivoluzione non è a venire, c’è già stata”, oggi dobbiamo dire che la catastrofe, la fine è già avvenuta, sta alle nostre spalle e noi dobbiamo fare i conti con il “dopo”. Ma il “dopo” cosa? È l’evento che ci sfugge, anche se lo sappiamo avvenuto. Lavorare per dare un nome a questo evento vuol dire partecipare, intervenire a una storia che altrimenti verrebbe costruita comunque e indipendentemente da noi. Un’Ambigua Utopia di oggi, non è solo questa pattuglia redazionale che insieme ai numerosi collaboratori ha prodotto questo numero unico ma idealmente comprende tutti quelli che fanno fantascienza per come la intende Donna Haraway, cioè usano il vecchio genere fantascientifico (per intenderci quello nato negli USA nei pulp magazines e morto con il no future dei cyberpunk, come giustamente diceva Antonio Caronia) un genere morto ma ancora ricco di un immaginario ancora da esplorare e poter sfruttare, insieme alla fantascienza femminista, ai “fatti” della scienza , o al gioco della matassa per usare un’immagine efficace che sta per le cose complicate che non necessariamente devono trovare una soluzione a tutti i costi, da imporre perché si ritiene sia quella giusta. Una fantascienza che non riguarda più quei singoli temi che una volta la identificavano come tale, ma che riguarda un diverso modo di vedere la realtà, per capire non tanto quello che potrebbe avvenire ma ciò che è accaduto e che le abitudini, i condizionamenti e le posture del nostro modo usuale di guardare le cose non ci permettono di vedere. “È un modo – ci dice Alberto Di Monte – diverso di parlare del presente, con un linguaggio diverso, meno assertivo di quello della politica, più onirico e legato all’immaginario, capace di raccontare quello che, con altre parole, non siamo in grado di esprimere. E quindi parlando di intelligenza artificiale e di un virtuale ovviamente diverso da quello degli anni’90, più distopico, meno sognato; parlando di sorveglianza e parlando di come l’uomo nella stagione del postumano e transumano si evolve biologicamente, geneticamente nei comportamenti sociali e nelle posture, nelle maniere che spesso ci spaventano (non soltanto le sogniamo, ma animano anche i nostri incubi) ma è un esercizio sempre necessario.” (8) E ci sono qui, nella nuova stagione di questo vecchio attrezzo dissotterrato dalla polvere del tempo, tutti quei nuovi sogni (molti ancora embrionali) che vorremmo ci potessero aiutare a orientarci nel nostro procedere in questa vita divenuta così insicura e precaria da sembrare dissolversi a ogni istante. E se le diverse risposte nel dossier sulla fine dell’uomo, come gli articoli sul cyborg o il cinema apocalittico di Herzog, o ancora il racconto ucronico/distopico “Alba di ruggine” che rimaneggia la storia deviandola in un percorso diverso a partire dalla famosa nevicata dell’inverno 1984 esemplificano le diverse modalità del fare fantascienza oggi, in forma ancor più immediatamente visibile la grafica, come il fotoromanzo, insomma quella parte figurativa che si mostra, ci mostra lo iato tra due diverse ere geologiche: quella tra un’ancora, per quanto fragile, certezza di futuro e quella in cui di certezza non si può parlare neanche per il passato. Giorgio Uboldi per l’ideazione dell’immagine di copertina ci racconta come si sia ispirato ai pattern di Turing (pattern di reazione e diffusione) che sono gli stessi che stanno alla base della morfogenesi, cioè di come le nostre cellule si strutturano in forme e, nel risultato ottenuto dall’effetto quasi psichedelico, scaturisca una sensazione un po’ da fine dell’uomo che si disintegra e torna ad essere un tutt’uno con il resto. E ancora Angeles Briones e Federica Bardelli per il fotoromanzo parlano del ruolo degli algoritmi che stanno alla base non solo di quel sistema di sorveglianza, e quindi di dominio, ma anche del nostro agire ludico, e quindi della nostra presunta creatività. “L’idea era quella di far vedere cosa sarebbe successo nel far incontrare due algoritmi provenienti da contesti differenti (un po’ come quando un incontro tra persone diverse può generare uno scambio, uno scontro o una nuova entità) e di verificare quindi se dell’umanità possa sussistere ancora in queste immagini che qui in questo esperimento visivo sono state prodotte esclusivamente da algoritmi. Il risultato è stato ‘ovviamente’ un fallimento e quindi l’esperimento può dirsi riuscito”. Siamo ormai stati tutti sputati fuori da quei cuniculi spazio-temporali e dobbiamo, in questa nuova realtà, fare i conti con problemi nuovi che conservano parole vecchie. Modificare queste parole per renderle responsive al nuovo che ci troviamo di fronte è quel “mondeggiare”, quella parola nuova che Donna Haraway ha inventato per noi in questo difficile compito. Un’Ambigua Utopia è un piccolo tentativo in questa direzione. Che sia riuscito o meno non spetta a noi dirlo.
Nota 1: come dal sottotitolo dell’ultimo libro di Donna Haraway, Chthulucene, Nero 2019
Nota 2: consultabili qui: http://archivio-uau.online/archivio.html (la digitalizzazione è stata fatta dallo stesso collettivo di Un’Ambigua Utopia 10).
Nota 3: Servendoci ancora del ricco immaginario di Donna Haraway (Testimone modesta, Feltrinelli 2000)
Nota 4: “Cronologicamente I’attività di Un’ambigua utopia è totalmente posteriore a quel movimento (che si può considerare concluso con il convegno nazionale sulla repressione del 22, 23 e 24 settembre 1977 a Bologna); ma I’atteggiamento del collettivo, le tematiche e lo stile della rivista, dei convegni e delle azioni, i referenti materiali e culturali, le preoccupazioni intellettuali e politiche che animavano il nostro agire, tutto insomma, riporta al terremoto che gli eventi e le pratiche del 77 avevano introdotto nel movimento, e che in quegli anni si riassumeva nella formula “crisi della militanza”. (Antonio Caronia) http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2014/12/antonio-caronia-quando-i-marziani.html
Nota 5: pubblicato sul n. 2 di Mir
Nota 6: Mimesis rispettivamente nel 2010 e 2012
Nota 7: Che altro è tutto il dibattito su quale nome attribuire alla nuova era in cui saremmo entrati; Antropocene o Capitalocene identificano eventi, e datazione di questi, diversi.
Nota 8: dall’intervista a Radio popolare di Alberto Di Monte il 6.7.2020.