Questa mattina attivisti e attiviste hanno fatto una conferenza stampa davanti alla sede di Confindustria Venezia – al VEGA – per smontare e ribaltare la narrazione menzognera messa in moto dall’ente degli industriali e dai sindacati di categoria dopo il blitz alla Bioraffinera Eni di Porto Marghera avvenuto lo scorso 12 settembre. L’iniziativa, che aveva la partecipazione di centinaia di attiviste e attivisti climatici provenienti da tutta Italia e tutta Europa, ha suggellato la seconda edizione Venice Climate Camp. Evento che ha sancito la nascita di RiseUp4ClimateJustice nuovo spazio politico nazionale per la giustizia climatica e sociale.
In un comunicato congiunto, in pieno stile “anni di piombo”, industriali e sindacati chiedono al Prefetto «di intervenire duramente con una ferma condanna verso queste forme di protesta a tutela delle aree industriali e delle migliaia di lavoratori che ogni giorno sono impegnati a garantire la sicurezza propria e dei cittadini».
Dichiarazioni che non solo distorcono i fatti – visto che l’iniziativa si è svolta senza arrecare danni agli impianti e a lavoratori e lavoratrici presenti – ma legittimano di fatto i crimini commessi da multinazionali come Eni e Shell e le politiche estrattive che sono alla base della crisi ecologica che stiamo vivendo. Non è certo un mistero che ENI sia tra i principali responsabili del global warming e del degrado del pianeta: basti vedere come la stessa agisce in territori come la Nigeria, il Congo e il Mozambico, devastando territori, cambiando gli equilibri di sussistenza di intere popolazioni costrette, in alcuni casi, alla guerra civile per accaparrarsi mezzi di sostentamento; basti comprendere il ruolo che ENI ha avuto e ha tuttora all’interno degli equilibri politici libici; basti osservare, avvicinandoci, gli scandali legati ad ENI in Basilicata.
Nel corso della sua storia quasi settantennale, sono cambiati Consigli d’Amministrazione, manager e Amministratori Delegati, ma il modus operandi della principale multinazionale italiana, è rimasto immutato.
Lo sanno bene gli abitanti del Delta del Niger, una regione africana dove vivono 30 milioni di persone. Qui Eni opera sin dagli anni ‘60 ed estrae circa 35 milioni di barili di petrolio e gas ogni anno che le hanno consentito di accumulare enormi profitti. A quale costo?
Oltre 50 anni di attività estrattive hanno trasformato il Delta del Niger in uno dei luoghi più inquinati al mondo. A causa della mancata manutenzione degli oleodotti, ogni anno si verificano fuoriuscite di petrolio pari a 40 milioni di litri, che hanno avvelenato l’acqua e la terra che un tempo fornivano il sostentamento alle comunità. Decine di migliaia di persone sono costrette a bere acqua contaminata e a respirare aria inquinata, per mano dell’azienda di Stato italiana.
Recentemente, Eni ha realizzato una maxi scoperta nel Nord del Mozambico: 2.400 miliardi di metri cubi di gas. Un vero e proprio eldorado per la multinazionale italiana, che si è rivelato un incubo per le comunità mozambicane. Interi villaggi sono stati spazzati via per far spazio all’industria del gas, lasciando migliaia di persone senza più una casa e una terra da coltivare.
Le operazioni offshore hanno reso impossibile l’accesso al mare, privando le comunità di pescatori del loro principale mezzo di sostentamento. La corsa al gas ha riacceso un conflitto violentissimo, che negli ultimi due anni ha causato oltre mille morti. Questo ha portato a sua volta ad una totale militarizzazione della regione, con diversi attivisti e giornalisti arrestati o scomparsi senza lasciare traccia. In molti parlano di “un nuovo Delta del Niger”.
Ma non è necessario guardare così lontano. Anche in Basilicata, dove Eni opera dagli anni ‘80, la logica estrattivista di Eni rimane la stessa. Nel 2016, nel Centro Olio Val D’Agri (COVA) di Eni si è verificato uno sversamento di 400 tonnellate di petrolio, causando la contaminazione delle falde acquifere. Un’indagine epidemiologica condotta sul territorio da un ricercatore del CNR ha mostrato eccessi di mortalità in Val d’Agri per tutte le cause, dalle malattie del sistema circolatorio, ai tumori del polmone e dello stomaco.
Cosa sia e come operi Eni ce lo raccontano anche le carte giudiziarie. Attualmente, l’azienda di stato è a processo a Milano con l’accusa di corruzione internazionale. Avrebbe pagato una tangente da 1 miliardo di euro per acquisire una licenza petrolifera in Nigeria. Oltre alla società, sono imputati anche l’attuale amministratore delegato, Claudio Descalzi, recentemente confermato dal governo italiano, ed il suo predecessore Paolo Scaroni. La stessa Eni si trova inoltre a processo in Basilicata per disastro ambientale.
Oggi Eni afferma di voler cambiare, di voler diventare pulita e sostenibile. Ma dietro il greenwashing, settant’anni di storia della principale multinazionale italiana parlano chiaro.
Se si dà un’occhiata, in un giorno qualsiasi, all’homepage del sito di Eni quasi non c’è traccia di petrolio. Allo stesso tempo le fonti fossili restano il core business dell’azienda: nel 2018 gli investimenti nellʼupstream costituivano il 74% del totale, con un incremento costante della produzione dal 2016 e un ulteriore picco previsto per il 2025. È evidente, di conseguenza, che una delle principali aziende italiane – che opera in 66 Paesi, conta 32mila dipendenti, produce 1,871 milioni di barili di greggio al giorno, vende 73 miliardi di metri cubi di gas all’anno – ha scelto di puntare, nel racconto di sé, su quelli che di fatto possono considerarsi aspetti marginali del business aziendale: progetti sperimentali o piccole produzioni.
Sentire quindi parlare di sostenibilità e di transizione energetica, non solo nelle convention di settore o nelle occasioni di lobbying, ma direttamente nelle scuole di tutta Italia, risulta estremamente preoccupante ed ipocrita.
Allo stesso modo, è quantomeno bizzarro sentire invocare a piena voce la sicurezza quando sia nel territorio italiano che globalmente, l’ENI si è resa protagonista di alcuni dei casi di nocività e rischio per la salute più gravi degli ultimi decenni.
Osservando dunque questo panorama: possono veramente essere le attiviste e gli attivisti climatici, che mettono in gioco i loro corpi giorno dopo giorno per salvare il Pianeta, il vero problema? La risposta in merito è chiara e diretta: «noi siamo la soluzione, lo smantellamento totale del sistema capitalista è la soluzione». Lo spazio RiseUp4ClimateJustice ha un unico grande obiettivo, sintetizzabile nello slogan «cambiare il sistema per non cambiare il clima»; l’occupazione del 12 settembre è stata solo l’inizio!