di Antonio De Lellis, Attac Abruzzo-Molise*
Le rivolte di questi giorni trovano terreno fertile nel malcontento diffuso e nel dramma di molti che stanno subendo misure illogiche di restringimento. Da una parte gli interessi particolari, dall’altra l’impossibilità di far fronte alla sopravvivenza. Che cosa sta succedendo? Dove finiremo? Come affrontare il tempo che verrà?
Dice Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri) in Il tempo della rivolta:
“La rivolta anarchica viola le frontiere statuali, denazionalizza i presunti cittadini, li svincola e li estranea, li rende provvisoriamente apolidi, li invita a proclamarsi stranieri residenti”.
Emarginata dalla riflessione, presentata come un evento caotico e fosco dal racconto mediatico, la rivolta è un tema incandescente nello scenario globale. Se i movimenti che occupano le piazze, sottolineando il declino della rappresentanza, chiedono il diritto di apparizione e l’ingresso nello spazio pubblico, la rivolta va oltre: anziché accettare il conflitto interno, mette in discussione le cornici stesse di quello spazio. I protagonisti sono molti: dai nuovi disobbedienti a coloro che praticano l’anonimato nel web, dai segnalatori d’illeciti a quanti si dichiarano «invisibili». Il tempo della rivolta fornisce un’interpretazione politica della maschera e parla di «zone d’irresponsabilità»; nascondersi per mostrarsi è una sfida allo Stato che condanna ogni maschera che non sia la propria, al potere finanziario senza volto, all’economia disincarnata, noncurante dei propri effetti; si svela così l’enorme dissimmetria, si mette allo scoperto la disparità di forze, si denuncia la sorveglianza planetaria. La rivolta non è un evento effimero, bensì un passaggio anarchico che si compie nel disimpegno dall’architettura politica.
E papa Francesco chiarisce:
Fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice.
Cosa è accaduto con il Covid? A quale biforcazione stiamo assistendo? “La tempesta Covid-19 e la turbolenza del mercato accelerano la divergenza delle fortune”, cioè aumentano le disuguaglianze (nell’ultimo report di due importanti società svizzere, Ubs e Pwc, che si occupano di consulenza finanziaria, tra l’altro, si legge: “Al 31 luglio 2020 il numero di miliardari era 2.189. La popolazione miliardaria è cresciuta di 131 unità. C’erano 2.058 miliardari quattro mesi prima).
Con Thomas Piketty diremmo:
Ogni comunità ha bisogno di giustificare le proprie disuguaglianze: l’uomo deve trovare le ragioni di queste disparità per non rischiare di vedere crollare l’intero edificio politico e sociale. In questa chiave, anche molte ideologie del passato non appaiono più così irragionevoli, se paragonate al nostro presente.
Ma l’epoca delle grandi narrazioni si è chiusa. Siamo passati in questi ultimi decenni dalla cultura del collettivo a quella del connettivo. Sullo sfondo nuovi poteri sembrano affermarsi: il capitalismo della sorveglianza dei Big Data, soprattutto dopo la paventata minaccia terroristica globale (attentato alle torri gemelle); la debitocrazia e la Finanza speculativa causa della grande crisi del 2008, con ripercussioni mondiali; la società strumentalizzante e i Big Pharma che controllano le grandi organizzazioni sanitarie e le agenzie del farmaco, e impongono nuovi modelli di comportamento, per lo più di dipendenza, causando in parte la mancata prevenzione rispetto ad eventi pandemici, i cui vantaggi economici sono a loro appannaggio. In questo contesto, una nuova accelerazione di processi sociali, già in atto, sembrano coagularsi intorno a una idea di società della cura del vivente. Dice Pino Cosentino:
“La società della cura” è un’affermazione valoriale, ma nello stesso tempo squisitamente politica.
Come può essere utile la società della cura nell’attuale contesto di rivolte? La società della cura è un campo di idee e valori che va nella giusta strada, e questo é il punto, non è solo una strada, ovvero non è un pensiero unico, ma una grande visione dentro la quale possiamo riscoprirci meno condizionati e liberi di costruire una identità poliedrica.
Se stiamo costruendo una visione del mondo che era solo di gruppi frammentati, e che ora appare a molti di più come una possibilità, qual è lo stile da assumere o da seguire per la costruzione della società della cura? Come possono essere utili i contributi e documenti, come l’ultima enciclica di Francesco, nella costruzione di uno stile della società della cura?
Proviamo a ragionare su due livelli: amicizia sociale e conflitto. Qual è il contesto per papa Francesco? Siamo dentro la privatizzazione universale di tutto l’esistente, compresi i diritti ormai assimilati al denaro. Si hanno tanti più diritti quanto più denaro si possiede.
Con Silvio Piccoli diremmo:
La libertà e l’uguaglianza senza la fraternità genera le disuguaglianze sociali. Lo stile potrebbe essere quello di mettere insieme i saperi al servizio di un pensiero sparso e ampio e farsi movimento perché sebbene ci sia una cultura ragionata e siano stati prodotti dei documenti giuridici il percorso sulla fraternità e la sorellanza è in stand by.
L’amicizia sociale. Secondo Bergoglio
… il Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici.
Il noi di cui parla Francesco è una relazione di amicizia sociale, una cultura diversa, che ci orienti a superare le inimicizie e a prenderci cura gli uni degli altri. Nei momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo dire che, in questo momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o sta portando sulle sue spalle qualche ferito. Non rassegniamoci a vivere chiusi in un frammento di realtà. La promozione dell’amicizia sociale implica non solo l’avvicinamento tra gruppi sociali distanti a motivo di qualche periodo storico conflittuale, ma anche la ricerca di un rinnovato incontro con i settori più impoveriti e vulnerabili. Siamo chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di piccole individualità. Rinunciamo alla meschinità e al risentimento dei particolarismi sterili, delle contrapposizioni senza fine. Smettiamo di nascondere il dolore delle perdite e facciamoci carico dei nostri delitti, della nostra ignavia e delle nostre menzogne. Come non c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”. Occorre riconoscere nella propria vita che «quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio». Di fatto, «il numero sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per i fragili, e la fraternità (e la sorellanza) sarà tutt’al più un’espressione romantica. In questi momenti, nei quali tutto sembra dissolversi e perdere consistenza, ci fa bene appellarci alla solidità che deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri cercando un destino comune.
La società della cura è agli inizi di questo percorso dell’amicizia sociale soprattutto con il metodo delle convergenze. Nonostante provenienze da diversi percorsi non è l’unità che ci interessa, ma la convergenza che può rappresentare un passaggio verso una costruzione di amicizia sociale.
Tra la società del profitto e la società della cura c’è il conflitto. Così si esprime Roberto De Lena, sottolineando il ruolo centrale del conflitto. E sempre con papa Francesco:
«È vero che le differenze generano conflitti, ma l’uniformità genera asfissia e fa sì che ci fagocitiamo culturalmente. Quando i conflitti non si risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel passato, ci sono silenzi che possono significare il rendersi complici di gravi errori. Invece la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto. È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della del mondo. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano. Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro».
In un momento storico così delicato, dice Renato Di Nicola, i movimenti dovrebbero essere cerniere gli uni degli altri. Se le nostre proposte ricalcano il modello individualista faremo tante cose, ma non modificheremo la realtà, saremo come poteri che fanno le stesse cose. Cosa abbiamo dentro e che cosa fogliamo fare? Oggi l’organizzazione della paura e la sorveglianza hanno imposto attraverso vari lockdown un distanziamento sociale e la rivoluzione della cura delle relazioni ne è proprio l’antidoto. È molto interessante questo processo di convergenza, una rivalutazione del nostro agire. Forse non possiamo cambiare nei tempi e nei modi che vogliamo, ma c’è un ideale orizzonte. Stiamo già costruendo la società della cura.
*L’articolo è il frutto di una riflessione promossa all’interno di Attac Abruzzo-Molise