La “nostra” risposta
Il 23 settembre, Padova ha risposto all’aggressione omofoba ricevuta da Mattias e Marlon. Centinaia di persone da tutta la regione sono scese in piazza per affermare che episodi di quel tipo non devo mai più succedere. Questi due ragazzi sono stati aggrediti solo per essersi scambiati un bacio in pubblico. I padovani hanno dimostrato, con i propri corpi, di ripudiare la trans-lesbo-omofobia.
Proprio in questi giorni, invece, il preside del liceo Tito Livio di Padova ha deciso di rifiutare di cambiare il nome di uno studente sulla scheda per la votazione dei rappresentanti di classe. Alla richiesta di cambiare il nome anagrafico con quello in cui lo studente si riconosce, il preside ha reagito con un “no” secco. Studenti e studentesse hanno dimostrato con presìdi e assemblee il loro punto di vista, riuscendo a ottenere le scuse dello stesso preside e generando una discussione pubblica molto interessante.
A partire da questi due episodi, cercheremo di fare una riflessione sulla diffusione dell’odio nella nostra società.
La risposta degli/delle omofob*
Apparentemente nessuna persona o realtà politica ha risposto all’episodio di Mattias e Marlon rivendicando l’aggressione omofoba. Nessun fascista omofobo ha avuto il coraggio di lanciare un presidio in solidarietà agli aggressori, nessuna organizzazione si è sognata di scrivere sui propri canali di comunicazione (siti, pagine Facebook, Twitter …) di essere apertamente contraria a effusioni non etero-normate nelle piazze della nostra città. Lo stesso vale per il caso dello studente del Tito Livio.
Questo può forse sembrare ovvio, anche se non bisogna dimenticare che, solo nell’ultimo anno, abbiamo risposto a manifestazioni pubbliche contro l’aborto e altre assurdità simili contro la libertà di autodeterminazione promosse, ad esempio, da Forza Nuova. Essere favorevoli ad aggressioni del genere sembra veramente troppo, perfino per loro.
Allora però viene da chiedersi: dove nasce quel sostrato culturale omofobo o in generale intollerante alle diversità in grado di legittimare un gruppo di persone apparentemente non militanti di nessuna organizzazione politica, a compiere aggressioni come nel caso di Mattias e Marlon? Se siamo tutt* contrari, se siamo tutt* d’accordo, il problema è forse risolto? Dove e come vengono legittimati questi comportamenti?
La verità è che non c’è stata nessuna risposta di piazza in grado di schierare corpi fisici a favore delle aggressioni omofobe, ma purtroppo ci sono state tantissime legittimazioni dell’aggressione che hanno schierato corpi “digitali” in favore della violenza omofoba.
Lo stesso vale per per quanto successo al Tito Livio. La marea di commenti di odio che hanno ricevuto su Instagram sono stati forse più brutti dell’episodio in sé.
In generale l’odio online e offline vanno spesso a braccetto: simbolo ne è l’attentato a Samuel Paty, il professore francese ucciso per aver mostrato in classe una vignetta di Maometto. L’attentatore, venuto a sapere dell’episodio tramite gruppi online, ha decapitato il professore e poi, per prima cosa, ha postato la foto su Twitter.
Un altro caso celebre è quello del Myanmar dove durante le elezioni del 2016 l’odio su Facebook è stato determinante nell’incitare al genocidio verso la popolazione Rohingya, una minoranza musulmana.
Trans-lesbo-omofobia online
Ma quali sono le caratteristiche di questa forma di discriminazione online?
Forse, dieci anni fa, un numero di persone simile a oggi avrebbero pensato solo nella propria testa “si bacino a casa loro” o “se la sono cercata”, o forse ne avrebbe parlato al bar. Oggi, però, questi pensieri sono diventati commenti pubblici e post che hanno inquinato le discussioni sui social network. Sotto alcuni post di testate giornalistiche che hanno ripreso la notizia sembra addirittura che questa idea sia maggioritaria.
In quest’ottica, possiamo fare almeno tre considerazioni che ci aiutano a comprendere l’odio verso la diversità per capire meglio come combatterlo:
1) L’odio esiste (on e off line), ed è legittimato ogni giorno.
Se mettessimo insieme tutti commenti e messaggi di odio che ogni giorno vengono postati sui social, ci troveremmo davanti a un’ondata di odio difficile da concepire ed accettare. Risulta però quasi impossibile avere accesso a tutti questi contenuti sparpagliati sul web.
La trans-lesbo-omofobia è presente nella nostra società, ed è un pensiero purtroppo ancora troppo diffuso, che non si può ricondurre a un gruppetto di militanti o di “bulli”, ma che deve essere inteso come un problema culturale trasversale. Questo ci ricorda una volta di più quanto siano necessarie le iniziative culturali ed educative per combattere questo tipo di odio, che non possono ridursi solo alla repressione di alcuni individui protagonisti delle aggressioni fisiche (anche considerando che sono molte di più di quelle di cui veniamo a conoscenza).
2) L’odio online va combattuto.
Se siamo in grado di combattere questi episodi con i nostri corpi fisici, dobbiamo essere in grado di farlo anche con quelli digitali. Queste idee non possono essere bandite dalle piazze per poi trovare legittimità sui social media, altrimenti ci sarà sempre qualche sprovveduto che, senza neanche accorgersene, passa dai post alle aggressioni in strada.
3) L’odio online va analizzato.
A differenza di dieci anni fa, abbiamo potenzialmente accesso a tutte queste esternazioni trans-lesbo-omofobiche, che possiamo studiare per capire meglio come combatterle. Il fatto che questo tipo di insulti siano di dominio pubblico è principalmente un problema per le persone che diventano gli obiettivi di questi attacchi. Allo stesso tempo, però, abbiamo la possibilità di capire meglio quale sia il target degli haters (generalmente maschi, bianchi, di mezza età), in che contesti è maggiormente portato a compiere atti del genere: gruppi Facebook di soli odiatori, post di giornali con un audience trasversale, ma anche, e questi sono i più nocivi, profili privati di persone esposte mediaticamente per qualche motivo che diventano veri e propri bersagli di azioni di squadrismo digitale.
4) L’odio online è contrastato troppo poco.
Purtroppo questi fenomeni non vengono sanzionati quasi mai. In alcuni casi scatta la censura algoritmica di Facebook: un’azienda privata scrive e applica le regole sulla circolazioni delle informazioni, in quella che anche a detta del suo proprietario è una “town square”. Più raramente il contenuto di odio viene segnalato da chi subisce l’aggressione alla piattaforma stessa che poi, sempre a sua discrezione, prende provvedimenti. Rimane il fatto che la stragrande maggioranza delle volte è necessario che chi riceve gli insulti li rimuova da sè dalla propria pagina, spesso dovendo compiere operazioni molto lunghe e svilenti, cioè leggere tutti gli insulti che gli sono stati lanciati da sconosciut*. Non è divertente leggerli da esterno per questioni di ricerca, figuriamoci per i/le dirett* interessat*.
Per capire meglio il contesto online e la diffusione dell’odio prevalentemente sui social network commerciali più usati bisogna analizzare almeno due aspetti: la diffusione di contenuti che in questi ambienti avviene tramite algoritmi, e le più generali differenze tra odio online e odio offline che vedremo a partire proprio da quanto accaduto a Marlon e Mattias e al liceo Tito Livio.
Gli algoritmi e luoghi digitali
1) La bolla
Negli ultimi anni si è discusso molto dell’esistenza o meno di echo chambers e filter bubble.
In breve, la filter bubble è uno degli effetti degli algoritmi social network commerciali (Facebook, Twitter, Instagram…): questi algoritmi, selezionando i contenuti che vengono esposti a ogni singolo utente sulla base dei suoi interessi (impliciti ed espliciti), finiscono per rafforzare le credenze già presenti nell’individuo, fino a “polarizzare” la sua opinione o addirittura a “radicalizzare” la sua posizione spingendolo nel “rabbit hole” dell’estremismo. Al di là delle conseguenze, sulle quali ci sarebbe molto da discutere, la personalizzazione che avviene sui social media ha sicuramente l’effetto di esporci maggiormente quello che ci piace chiudendoci in una “bolla”, appunto.
2) I post pubblici
Dall’altra parte è interessante notare come alcuni contenuti possano diventare punto d’incontro (e scontro) tra posizioni antitetiche, fungendo, alla fine, per diventare piazze pubbliche in cui ci si confronta con chi la pensa anche in modo molto diverso. Alcuni contenuti infatti “rompono” la filter bubble e diventano “virali” in entrambi gli “opposti schieramenti”.
Un classico esempio sono i post delle pagine dei quotidiani nazionali e locali, che durante tutto il giorno condividono i link degli articoli pubblicati sul loro sito. Benché la maggior parte dei quotidiani abbia disabilitato i commenti sul proprio sito, dimostrando i limiti del “web 2.0” inizialmente visto solo in modo positivo, quasi nessun quotidiano disabilita i commenti su Facebook. Le interazioni con i post sono infatti fondamentali per rendere virale un contenuto e farlo apparire nei feed (bacheche) a più persone. Se per i giornali i commenti sui loro siti sono ingestibili e in-moderabili, su Facebook gli stessi commenti, spesso di odio, diventano necessari per far circolare la notizia.
Questo ci fa capire meglio perchè alcune testate cerchino titoli ad effetto quando condividono i propri articoli sui social: solo generando discussioni tramite affermazioni palesemente provocatorie si riesce a generare interazioni sufficienti per far circolare adeguatamente i propri contenuti.
D’altronde questo non è un fenomeno nuovo, il fatto che si tenda a prestare maggiore attenzione ai messaggi negativi è un fenomeno studiato da ben prima della nascita dei social e viene ricondotto addirittura a una funzione adattativa: essere attenti ai pericoli in generale aumenta le probabilità di riuscire ad evitarli (in psicologia il fenomeno è chiamato Negativity Bias).
3) I profili privati che diventano pubblici
Un terzo tipo di luogo, a metà tra la propria “bolla” e il dominio pubblico delle pagine di informazione, è quello dei profili privati che diventano pubblici per un qualche motivo. In questo gruppo rientra il “doxing” ovvero quando le informazioni personali di un soggetto identificato come target di attacchi vengono esposti sulla rete affinché si generino azioni di squadrismo digitale. Lo stesso discorso vale quando una persona/profilo che fino a quel momento è stata chiusa nella sua “bolla” diventa rilevante per un dibattito pubblico, quando, ad esempio, denuncia una discriminazione.
I due casi padovani
Proprio quest’ultima trasformazione da privato a pubblico è avvenuta al profilo di Mattias e Marlon e sulla pagina instagram del collettivo studentesco del Tito Livio. Con grande coraggio, in entrambi i casi, questi giovani hanno deciso di denunciare quanto gli fosse successo direttamente dai loro profili, mettendoci la faccia (e l’immagine di copertina) pubblicamente. Benché loro fossero supportati da una comunità che di certo non la manda a dire, questa iniziativa li ha inevitabilmente esposti a una marea di commenti d’odio, che si sono concentrati innanzitutto sul post in cui hanno denunciato il fattaccio.
I profili dei due ragazzi e quello del collettivo erano già pubblici, questo vuol dire che potenzialmente tutte/i avrebbero potuto insultarli per il loro orientamento sessuale e politico esplicitato in diverse foto e post, anche prima dell’episodio che genera dibattito pubblico. Quando però la denuncia assume rilevanza cittadina, regionale e poi nazionale, il loro post (e i loro profili) bucano la loro filter bubble di amici che non hanno pregiudizi sull’orientamento sessuale e diventano luogo di incontro-scontro di diverse opinioni sul tema dell’omosessualità, per poi degenerare nello sfogatoio di tutto l’odio omofobo possibile immaginabile.
Giustamente il collettivo e i due attivisti hanno provveduto a cancellare i commenti più indecenti. Rimane il fatto che essere esposti a frasi del tipo “Io condivido che sono gay,ma certe porcate in pubblico no non le accetto” oppure “Liberi di manifestare il loro amore dentro le mura domestiche. In pubblico fanno ribrezzo” sono affermazioni intrinsecamente violente che non sempre fanno meno male delle aggressioni fisiche e che, di fatto, scoraggiano chi ha ricevuto un’aggressione a denunciare pubblicamente.
Attacchi di gruppo sui profili personali, azioni spesso organizzate scientemente, finisco per diventare lo squadrismo del ventesimo secolo. Si viene prima aggrediti fisicamente dal branco, e poi una volta denunciato l’accaduto si viene aggrediti online da un branco ancora più vasto. Si viene discriminati da un sistema patriarcale, che poi, anche dopo le scuse del preside in questione, continua a discriminare e insultare sui social.
Esporsi e denunciare questi episodi, se possibile, è diventato ancora più rischioso di prima.
Aggressioni fisiche vs online
Mattias e Marlon, dopo essere stati aggrediti da 6 persone in un Paese che non fa abbastanza per proteggere la libertà di tutte/i, hanno chiamato a una piazza pubblica per difendersi collettivamente da quello che era successo, dimostrando ad esempio che Padova è una città che non discrimina.
Mattias e Marlon, dopo essere stati aggrediti da centinaia di persone su una piattaforma digitale che non fa abbastanza per proteggere la libertà di tutte/i, hanno dovuto, da soli, fare pulizia degli insulti ricevuti, facendo emergere che ci sono molti utenti che non discriminano.
Gli studenti e le studentesse del Tito Livio hanno lottato per ottenere un trattamento diverso all’interno della loro scuola, ottenendo delle iniziali aperture da parte della scuola, la stessa cosa non si può dire degli attacchi che hanno ricevuto online.
Per riassumere: quali sono le differenza tra aggressione online e offline?
1) Offline, fisicamente, nessuno ha sostenuto la posizione degli aggressori, sul web invece si. La legittimità dell’odio trans-lesbo-omofobico non è uguale nel mondo online e in quello offline.
2) È possibile denunciare le aggressioni fisiche, ma è molto più difficile farlo per quelle online. In generale non c’è una coscienza collettiva diffusa sugli effetti devastanti che la violenza di questi commenti d’odio può portare.
3) L’aggressione fisica ha fatto “scandalo”, tutte quelle online purtroppo no. Si è indetta una manifestazione per rispondere collettivamente all’aggressione fisica, ma i commenti di sostegno ai due compagni aggrediti online sono stati a titolo personale e non collettivo, e, per lo più, si riferivano all’aggressione fisica, non a quelle online.
Quali sono invece alcuni punti in comune tra aggressione online e offline?
1) A entrambe è necessario rispondere in modo collettivo. I due attivisti, senza una piazza piena di persone, senza le decine di commenti di solidarietà, si sarebbero trovati soli e non sarebbero riusciti a difendersi nel modo adeguato. Lo stesso vale per il presidio studentesco del Tito Livio.
2) In entrambi i casi non abbiamo fatto abbastanza, come società, per evitare che episodi di odio simili accadano. Sia l’odio online che quello offline sono sintomo di un paese che deve ancora lavorare tanto per raggiungere la giustizia nel trattamento delle differenze.
3) Entrambi i casi sono basati sullo stesso sostrato di fascismo, razzismo e trans-lesbo-omofobia. Questa cultura di fondo presente in diversi ambienti è il nemico da combattere.