Irraccontabili di Pedro Lemebel

Edicola Ediciones, Ortona 2020, pagg 112, € 15

[Per la prima volta in Italia vengono pubblicati questi racconti del cileno Pedro Lemebel (Santiago del Cile 21/11/1952 – 23/01/2015), autore, artista, militante libertario nel movimento queer internazionale. Scrive Pía Barros nella prefazione: «Scrisse poemi, racconti, un romanzo e microracconti; disegnò, costruì immagini da bruciare in piazze pubbliche, mise il suo corpo e la sua vita in strada e nelle parole […] ma soprattutto ogni secondo che respirò fu un creatore politico e impegnato come pochi».
Non aspettatevi una prosa rassicurante, in linea con le moderne suggestioni social, frasi brevi coi bravi a-capo: alcuni racconti, con la loro scrittura funambolica, spericolata, sembrano poemetti in prosa, frasi lunghe, funk in apnea (e non possiamo che fare i complimenti alla traduttrice Silvia Falorni). Qua e là ricordano I sotterranei, o certi fluxus joyciani. Di seguito pubblichiamo il racconto Monsenor: l’autore, come un neurochirurgo letterario, scoperchia l’intimità di un membro della gerarchia ecclesiastica che appoggiò la dittatura di Pinochet, mettendone a nudo la morbosità, la viltà, la violenza. MB]

MONSENOR

Le ore si sono accumulate nella stanza del vescovo, l’ambiente è scosso dalla tensione dell’attesa. Sul muro tappezzato di immagini, la fiamma del Santissimo lo fa sperare in un epilogo cristiano, ma fuori la violenza della sovversione arde con molta più forza: lo accecano le esplosioni di fuoco che fanno tremare i vetri, le pietre preziose dei santi, le nappe e gli scapolari che adornano l’ufficio ecclesiastico. Poi, il silenzio assoluto e l’odore rancido della polvere da sparo che entra dalla finestra. Approfittando di un momento di quiete, rincalza la sottana talare per non inciampare e cammina accucciato, facendo attenzione alza la testa e riesce a vedere dal secondo piano il cielo gelatinoso dell’Apocalisse; neri obelischi di fumo si innalzano dai tetti vicini, e più lontano il bagliore di un incendio imbavagliato dall’aria pesante come il piombo. La città è una caldaia che ribolle sul punto di scoppiare.

Era stato tutto così precipitoso: il telefono che aveva suonato a quell’ora del mattino, quando lui ancora non si era liberato delle braccia femminili e delle cosce intorno al collo che corrompevano il suo celibato. Il telefono squillava lontano e lui fra le nuvole lottando con la carne rosa dei seni nella sua bocca, si era coperto, si era tappato le orecchie, i glutei lo costringevano a letto, nella sua enorme barca di seta e baldacchini. Lo inseguivano le vergini che si spogliavano delle loro tuniche, scendevano dagli altari e andavano a cercarlo nel deserto della notte; tutti quei lunghi anni di solitaria astinenza a dirigere la diocesi dal pulpito (lassù in alto l’incubo non poteva raggiungerlo), perciò Luzbel prendeva vita con le dame in verde, in rosso, in giallo, dorate al fuoco dei ceri. Quel turgore meraviglioso delle mogli dei militari, sempre sorridenti e dedicate con abnegazione al servizio sociale e all’eleganza, attente a qualsiasi richiesta del vescovo perché sanno che la sua fede nella tradizione è irremovibile. Per questo ha benedetto le armi della brigata antisovversiva, tutto vestito d’oro e rubini accanto al Capitano Generale della Repubblica che gli stringe la mano e gli chiede un Te Deum in ringraziamento per la morsa di anni, rispetto e ordine nella quale il governo ha mantenuto i cittadini; con tutti i cori di supporto eccetera, la voce del mandatario gli fa richieste, con tutti i denti in vista… quella stessa voce congestionata che ormai quando alza la cornetta non gli fa più richieste, gli esige di farsi carico della situazione:

“È anche un problema suo, signor vescovo.”
“Ma io non posso prendere un’arma e perseguitare i terroristi.”
“Proprio per questo: un messaggio come pastore può contenere questa rivolta. Non si tratta più di terroristi, monsignore.”

Gli faceva male la testa quando aveva riattaccato il telefono. Il retrogusto di carne dolce di donna lo aveva fatto sputare varie volte nel lavandino. Aveva inforcato gli occhiali sul suo naso di marmo ed era ritornato in camera senza pensare a niente; semplicemente non era d’accordo, ormai era tanto che succedevano queste cose. Ma guarda un po’, svegliarlo a quell’ora del mattino per una cosa così ordinaria come un discorso. Masticando le parole e facendo smorfie di fastidio, si era seduto alla scrivania e aveva preso in mano la penna d’oca.

Tutto ciò era successo quel giorno, qualche ora prima; la sua voce via radio aveva letto il messaggio di calma e pazienza a tutto il paese, il popolo che era uscito in strada e marciava in silenzio verso il centro. Da ogni parte arrivavano uomini, come serpenti che traboccavano nelle strade. Le parole concilianti causarono un momento di esitazione nella folla, che molto presto riconobbe l’accento clericale e lo associò a quella sottana viola accanto al dittatore. L’odio traboccò in un rumore cieco di tormenta, si alzarono i pugni colpendo l’aria e le bandiere della rivoluzione sfilarono fino al palazzo di governo. Una pattuglia lo lasciò in salvo a casa sua, dove per lungo tempo rimase steso sul velluto di un divano.

È lì adesso, affacciato sulla strada senza ancora riuscire a credere a ciò che vedono i suoi occhi, quando l’esplosione lo solleva dal pavimento, gli cadono accanto le statuine di gesso e rotolano per terra gli occhi di vetro, le croci e i quadri: lo scontro a fuoco è ricominciato. Un urlo di donna lo fa affacciare millimetrico al davanzale e lì la vede, sola in mezzo alla confusione, che osserva disperata; allora il suo vecchio cuore si stringe dal dispiacere, la vede così giovane, morta di paura in mezzo al disastro, la deve proteggere, coprirla con il suo mantello porpora; deve scendere tremante le scale e darle fiducia. “Vieni qui, figliuola”, le dice “entra, veloce, in questa casa i proiettili non potranno toccarti, non c’è più nessuno, sono andati via tutti i segretari, ma non importa, non ti preoccupare: l’esercito risolverà questo problema.” E così, mentre lui le parla con quel tono paterno e affettuoso, la giovane riesce a controllare la respirazione e sale le scale dietro di lui, appoggiandosi al muro quando le cariche della ribellione scuotono la casa, quando qualunque preghiera sembra inutile, “perché Dio è ordine”, le dice il prete, mentre lei attaccata al pavimento della stanza, riceve in ventre i colpi delle esplosioni. “Dio è un mare calmo”, le ripete, e trascinandosi accanto a lei le prende le mani; galleggiano insieme nella marea della corte celestiale fatta a pezzi, così orizzontalmente aderente alla paura, la carne sembra più tenera, palpita in quella vergine di carne e ossa salvata dal disastro. “Dio è un oceano senza limiti, figlia mia”, le mormora tremante mentre lei non riesce a sentirlo per il rumore, e lo vede muovere la bocca piegata dalle rughe a solo pochi centimetri. “È amore”, le sussurra avvicinando a lei il suo autunno concupiscente. “Amore”, dice bavoso l’anziano, mentre fuori la sparatoria si accende ancora di più e lui paraplegico le fruga i vestiti, palpa le cosce e chiude gli occhi per non pentirsi, perché ormai il fuoco si arrampica sulle scale e tutto potrebbe finire da un momento all’altro, con un campanello, un proiettile o una telefonata, a letto, stringendo la pelle rosa che si farà spuma tra le sue mani come tante altre volte, e lui per nessun motivo al mondo vuole svegliarsi solo, sulla sua nave senile che minaccia di naufragare in questa tormenta, perché la barca brucia sui quattro lati e tutto finirà molto presto, quando la casa si disintegrerà, perciò strizza gli occhi per non piangere, per sigillare il bacio beatificante e dimenticarsi del tatto gelido, del sapore di gesso bruciato di fronte a quegli occhi di vetro che lo guardano inteneriti dal fumo. “Dio è un oceano di latte, figlia mia”, dice alla statua, mentre un altro Dio avanza per le strade, si innalza a ondate di fronte alla casa e scoppia in fiamme, gettando le alghe celestiali in una lingua di sabbia e cenere.

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