di Sandro Moiso
Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro
Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.
E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di ripercorrere le tracce di Hannah Arendt nel perseguire, illustrare e portare alla luce quello che l’autrice di origini ebraiche aveva definito, in una delle sue opere più celebri, “la banalità del male”. E Sara ha potuto farlo nei confronti di Daeş e dello Stato Islamico non soltanto grazie alla ricca bibliografia e alla sitografia consultate e citate nell’opera, ma anche, e soprattutto, al rapporto diretto stabilito sul campo, nel corso della primavera e dell’estate 2020, attraverso le sue interviste, tanto con rappresentanti dell’intelligence e combattenti delle forze YPG (Unità di protezione popolare) – YPJ (Unità di difesa delle donne) curde quanto con imam, foreign fighters e donne un tempo, e in alcuni casi ancora attualmente, riconducibili all’ideologia e alle pratiche dell’Isis.
E’ importante poi, dal punto di vista di chi scrive queste brevi note, che a farlo sia stata una donna (in realtà ci sarebbe da dire “ancora una volta una donna”) poiché una parte cospicua del libro è dedicato proprio alle condizioni delle donne dell’Isis, sia che si tratti di volontarie, convertite straniere oppure rapite nel corso delle operazioni di occupazione territoriale. E non sempre questa condizione rinvia ad un modello unico di comportamento, di sottomissione o adattamento alle condizioni imposte dalla pretesa legge islamica imposta dall’organizzazione religiosa, politica e militare riconducibile a Daeş.
L’analisi di Daeş o Isis, qual dir si voglia, richiede però, secondo l’autrice, nuovi schemi interpretativi, capaci di decifrarne la novità e la complessità. Dichiararne la scomparsa, a seguito soltanto della sconfitta militare subita sul campo di battaglia nel 2018, non serve a nulla, anzi rischia di nascondere il fatto concreto della sua riorganizzazione e del suo rafforzamento. Occorre cogliere la sua capacità di penetrazione culturale e ideologica che avviene su più piani e, soprattutto, grazie all’ignoranza dei fattori che lo hanno causato e giustificato agli occhi di tanti diseredati. Nelle metropoli occidentali come nel Medio Oriente e in altre parti del mondo.
L’aspetto religioso, il piano giuridico-politico, la storia e i conflitti interni, le differenze tra le diverse etnie, tribù e minoranze, l’aspetto sociale proprio di questi luoghi e della società tutta (d’altronde 40.000 foreign fighters sono più che sufficienti per dimostrare che si tratta di un fenomeno globale), assieme ai traffici illeciti, alle relazioni con le mafie nostrane e internazionali, intrecciati con le forme di sciovinismo e nazionalismo implementate e alimentate nell’ultimo secolo, sono tutti pezzi di un puzzle e parte integrante di questo grande mosaico. I riferimenti agli intrecci con il regime Baathista di Saddam Hussein, la prigione di Camp Bucca, i collegamenti con i servizi di intelligence di altri paesi sono dati di fatto. Bisogna essere consapevoli, inoltre, che la politica nostrana (dagli armamenti alla politica energetica di idrocarburi, dagli investimenti delle banche italiane alla gestione migratoria, dalla libertà di culto alla costruzione di moschee, e questi sono solo alcuni esempi) ha degli effetti che si riverberano in altri luoghi e su altre popolazioni1.
Perciò, è da queste considerazioni che occorre procedere a ritroso per cogliere tutti gli aspetti di quella che è ancora corretto definire come la banalità del male. Perché Daeş non è un cane nero sbucato dall’Inferno e i suoi militanti ed esponenti e le loro azioni, per quanto efferate, non sono solo il rigurgito di una o più menti malate. Costituiscono invece l’immagine capovolta di una società e di un modo di produzione che della violenza sulle minoranze, i generi, le etnie e i diseredati e della loro completa sopraffazione e sottomissione ha fatto il suo pane quotidiano.
Una modernità che nei peggiori sostenitori di un ritorno a un mitico passato (Erdogan, Turchia e Arabia Saudita) trova i suoi migliori alleati. Ognuno con le sue strategie geo-politiche, economiche e militari. Ognuno coinvolto in una guerra spietata rivolta sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Ognuno attento a costruire o rafforzare un proprio domino o Califfato sulle aree di interesse strategico. Sempre più lontane dai confini nazionali, come succede in Libia, Africa sub-sahariana o alcune aree asiatiche.
Una partita in cui la risorsa energetica simbolo dello sviluppo di marca occidentale, il petrolio, riveste comunque una posizione centrale tra gli interessi che la animano, così come ben dimostrano l’interesse dell’Isis e dei suoi alleati tutt’altro che nascosti e i loro traffici milionari attraverso le frontiere. Ma in cui anche i migranti, più che un pericolo come quello sbandierato dai difensori dei confini occidentali, diventano autentica carne da vendere e macellare, in vista di un maggior profitto, nel mercato mondiale della miseria, dell’emarginazione e dello sfruttamento (sia lavorativo che sessuale o militare).
Ma è proprio da questa sua nascita dalla modernità, al di là dello sventolamento utopico di un mitico Califfato ispirato ad un passato sempre travisato, a rendere attualmente l’ideologia dell’Isis e la sua pratica così irriducibili alla mera sconfitta militare.
Nell’Isis e nelle sue pratiche organizzative, nella sua violenza sistematica e nelle sue politiche di dominio si rispecchia la “nostra” società egoista, solitaria, sessista, razzista, classista ed escludente. Il mostro, se così vogliamo chiamarlo anche se con un tal genere di definizione si rischia sempre di cadere nella retorica e nelle semplificazioni, l’abbiamo partorito noi. Certo non, o non soltanto, la millenaria, e troppo spesso travisata, tradizione dell’Islam.
Le complesse burocrazie che governano ogni atto e ogni amministrazione territoriale dello Stato islamico, compreso un complesso sistema di welfare, così ben descritte da Sara Montinaro nella prima parte del suo testo, ricordano le burocrazie complesse non soltanto delle dittature ma anche degli stati sedicenti democratici come quello in cui viviamo. L’uso indiscriminato e abile delle risorse della Rete per arruolare, coinvolgere, convincere i futuri adepti di ogni nazionalità e quello dei social di ogni tipo per permettere loro sia di ritrovarsi in una comunità o umma virtuale che di contattarne le strutture clandestine attraverso Face Book, Instagram, Twitter e, oggi, anche TikTok, non rinvia ad altro che all’uso che oggi viene fatto quotidianamente, e con gli stessi obiettivi formali, non solo dai disseminatori di fake news, ma anche da opinionisti, influencer e capi di Stato.
Sono le abitudini a governare il male, non una forma specifica di devianza culturale e soggettiva. E sono spesso i soggetti deboli a cercare un appagamento nell’esercizio di un potere e di una violenza che per un attimo, forse i famosi quindici minuti di cui parlava Andy Warhol, li rende super-uomini oppure super-donne. Pienamente giustificati e motivati nel loro agire meccanico dal potere della norma abitudinaria. Proprio come sostenne Hannah Arendt a proposito dell’imputato e delle sue azioni scellerate durante il processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 19612.
Se così non fosse, come spiegare la condizione e le convinzioni delle “spose di Daeş” che l’autrice ha potuto indagare da vicino, all’interno dei campi profughi e di detenzione di Al-Hol e Roj. Condizioni che se da un alto vedono lo sfruttamento sessuale delle donne yazide, letteralmente tratte in schiavitù dall’Isis con l’unico fine di trarre vantaggio dalla vendita e dall’uso dei loro corpi, dall’altra vedono la convinta partecipazione al ruolo di spose dei combattenti e madri dei loro figli di migliaia di donne, spesso straniere. Donne che spesso, come i e le kapò di ogni campo di concentramento che si rispetti, diventano le peggiori aguzzine delle loro simili e, talvolta, anche degli uomini rinchiusi insieme a loro.
Al-Hol è un campo profughi che si trova lungo il confine siriano iracheno tra le montagne calde e steppose del deserto; […] Diviso in otto sezioni, al momento ospita circa 69.000 persone: il 65% sono bambini, il 30% donne e il 5% uomini. Delle otto sezioni, tre sono dedicate a famiglie irachene, quattro ospitano famiglie siriane e euna è un mix tra le due nazionalità. Accanto a queste sezioni vi è l’Annex, che ospita le famiglie [dei combattenti dell’Isis] provenienti da tutto il mondo. Al momento della mia visita nell’Annex si potevano contare cinquantaquattro diverse nazionalità provenienti, per la maggior parte da Europa, Africa (paesi maghrebini), India, Turchia e Russia (in particolar modo dal Kazakistan)3.
E’ considerato uno dei luoghi più pericolosi al mondo come spiega una comandante YPJ che ne supervisiona il servizio di sicurezza.
«Dopo la campagna militare avviata dalla Turchia a Serê Kaniyê, la situazione è peggiorata; come se si fossero risvegliati. Gli omicidi avvengono per lo più nella zona irachena, mentre all’interno dell’Annex bruciano le tende di chi pensano voglia collaborare con noi. […] Nella parte irachena è ancora più complicato. Lì ci sono pochi uomini e hanno paura delle donne. Fanno quello ch edicono loro».
All’interno del campo c’è un problema di sicurezza reale. Queste donne non hanno paura di niente e sono in attesa del ritorno del Califfato. Ne sono convinte e te lo dicono senza alcuna remora […] Le donne straniere, in particolare, sono le più pericolose: con un’istruzione superiore, sono consapevoli del proprio status e dei diritti di cui godono: “Sono una rifugiata di guerra come tutte le altre, quindi devo aver accesso ai miei diritti”, mi diceva Abd Almanya, una donna tedesca tedesca che si trova all’interno del campo. I suoi occhi azzurri e la carnagione chiara non lasciavano spazio a fraintendimenti sulla sua nazionalità: “Ho studiato alla Business School in Germania poi sono venuta qui con mio marito. La Germania che dice di esere un paese democratico, che cosa fa? Non voglio rientrare lì, non potrei seguire il mio credo religioso. Ma sono una rifugiata come tutte le altre e rivendico i miei diritti”.
«Loro arrivano da Hajin e da Baghouz,» mi spiega Amina, la comandante, «mentre chi aveva perso fiducia in Daeş aveva iniziato già ad arrendersi dopo la battaglia di Raqqa, queste sono persone che hanno continuato a combattere fino all’ultimo! Queste sono le più pericolose perché ci credono davvero. Si sono riorganizzate all’interno del campo, proprio come se fossero nel Califfato. C’è la hisbah, la loro polizia religiosa […] I bambini a nove anni sanno come costruire un rudimentale esplosivo utilizzando il materiale che c’è nel campo […] Sono disposte a tutto. Adesso le donne, quelle più carismatiche, passano tenda per tenda, fanno lezione di Corano ai bambini e insegnano loro l’ideologia di Daeş.»4
La questione dell’istruzione rivela poi ancora un altro aspetto, non secondario, degli aderenti e dei combattenti dello Stato islamico, poiché un buon numero di questi ha un livello di formazione scolastica superiore o universitario. Alcuni sono ingegneri, altri medici (cosa che ha permesso il funzionamento degli apparati amministrativi del Califfato) e questo deve suggerire la necessità di una battaglia che non può essere condotta soltanto sul piano militare, ma anche culturale.
Nel corso degli ultimi anni i confini della “Fortezza Europa” si sono stati raccontati come qualcosa da difendere a tutti i costi, ma ciò che la storia ci narra è che i confini sono limiti dei popoli e l’unica cosa da difendere è l’umanità tutta. E non per una semplice questione di solidarietà, ma per un amore comunitario basato sul principio di coesione, dignità e libertà. L’essere umano è l’animale più debole sulla Terra. E’ l’unico animale che, sin dalla sua nascita, ha bisogno della cura di qualcuno per poter sopravvivere […] Questo ci insegna che siamo in grado di sopravvivere solo in una forma di cooperazione e solidarietà reciproca. In un mondo in cui avanza una politica dell’odio e una politica della barbarie, è arrivato il momento di rimettere al centro l’essere umano in quanto tale e costruire relazioni in cui l’amore diventi uno strumento per resistere a chi ci vuole indifferenti, individualisti e soli 5.
Un bel sogno? Un’utopia? Un mondo in cui le donne possano sfuggire alle logiche del patriarcato e fondare un nuovo modo di intendere i rapporti sociali sta forse già nascendo con il confederalismo democratico del Rojava, utopia concreta che potrebbe contribuire alla sconfitta dell’Isis e del mondo che lo ha reso possibile. Esattamente come ci suggerisce l’autrice di questo agile, coinvolgente e ben documentato saggio.