Un gruppo di motociclisti è entrato nelle aule di una elementare sparando all’impazzata.
La notizia del massacro nella scuola elementare di Kumbà, avvenuta poco più di una settimana fa, non è stata ritenuta sufficientemente rilevante dai nostri telegiornali che non gli hanno dedicato neppure due minuti di trasmissione. Anche i pochi quotidiani nazionali che dedicano qualche spazio alle notizie provenienti dall’Africa, hanno riassunto l’episodio in poche righe, riportando solo il luogo e il numero di bambini morti in un articoletto relegato nella parte pagina della pagina delle notizie internazionali.
Nelle redazioni, è opinione comune che le cose che accadono in Africa interessano solo a pochi, inguaribili romantici, lettori. Per lo più, si ritiene che chi compra il giornale sia interessato ad altre notizie, di quelle che lo riguardano più da vicino, e non abbia tempo da perdere per indagare cosa avviene in quello strano continente dove il sangue non cessa mai di scorrere. E, per dircela tutta, non sempre i lettori sono contenti di sentirsi dire che la responsabilità di quanto accade in quei Paesi, più lontani nell’immaginario che nella geopolitica, va ben oltre i loro confini nazionali.
In fondo, anche la strage di bambini di Kumbà, capoluogo del dipartimento di Meme, nel sud ovest del Camerun, altro non è che uno dei frequenti episodi di violenza che insanguinano i Paesi della fascia subsahariana della’Africa. Il 24 ottobre alcuni uomini in motocicletta hanno fatto irruzione nella locale scuola elementare, scorrazzando per le aule e sparando all’impazzata. Otto bambini sono stati uccisi. Un’altra dozzina è rimasta ferita dalle pallottole o ha riportato fratture gettandosi disperatamente dalle finestre per tentare di scappare dal massacro.
Il Governo ha dato immediatamente la colpa ai secessionisti dell’Ambazonia che a loro volta hanno accusato il Governo ed i terroristi islamici di Boko Haram. Chiunque sia stato a premere il grilletto, si tratta comunque dell’ennesimo episodio di violenza che ha come vittime innocenti dei bambini che avevano la sola colpa di andare a scuola. Ancora una volta, è la popolazione civile a versare sangue ed a pagare le spese di insurrezioni indipendentiste, terrorismi religiosi e interventi militari di un governo che con la democrazia a poco a che fare e che, proprio per questo, ha l’appoggio delle multinazionali straniere che devastano il Paese per estrarre di rapina le sue risorse naturali.
Perché, se c’è una cosa che ho imparato viaggiando in questi ultimi anni per il Burkina Faso, l’Algeria, il Niger, la Libia, il Senegal, il Gambia e la Nigeria è che, se sei un funzionario o anche solo un tecnico di una petrolifera, sei più al sicuro in questi Paesi che a passeggiare per piazza San Marco. Le vittime di queste guerre sono sempre gli altri.
In Camerun, l’ultimo di quella lunga serie di conflitti che lo ha accompagnato sin dalla sua nascita, è scoppiato nel 2016, quando le regioni anglofone occidentali situate al confine con la Nigeria, hanno intrapreso una guerra di indipendenza dalle provincie che fanno riferimento alla capitale Yaoundé, dove la popolazione parla la lingua francese. La guerra, tutt’ora in corso, ha portato nel 2017 alla proclamazione dello Stato indipendente di Ambazonia.
La risposta del presidente Paul Biya, ininterrottamente in carica dal 1982, non si è fatta attendere ed è stata una sola: militarizzazione della regione e repressione dura. Il risultato è stato l’inasprimento della guerra civile che ha già causato – stime ufficiali da intendere per difetto – più di tremila vittime, per lo più civili, ed ha creato oltre 70 mila profughi.
In questa situazione, vanno a aggiungersi le incursioni violente delle milizie di Boko Haram. Il primo attacco nei dipartimenti settentrionali del Camerun si è verificato nel 2012. Inizialmente, gli jihadisti si limitavano a sequestri di persona per chiedere un riscatto ma presto sono passati agli attacchi suicidi utilizzando giovani ed ignare, tutte ragazze appartenenti a famiglie disagiate, che vengono reclutate nelle moschee e nelle scuole coraniche per essere trasformate in bombe viventi. Le stime ufficiali del Governo parlano di 315 incursioni e più di 30 attacchi suicidi solo tra il 2013 e il 2017, con un bilancio di e 1098 civili, 67 soldati e 3 poliziotti uccisi.
Il Governo di Yaoundé ha cercato di metterci una pezza, varando speciali misure anti terrorismo. A partire dall’agosto 2014, sono state create unità speciali di polizia, commissioni di vigilanza per l’attuazione di misure di ordine pubblico specie nel Nord del Paese, come la chiusura dei bar dopo le 18, il dispiegamento di circa 8500 militari nelle aree più a rischio, e un severo controllo sulle moschee per prevenire il reclutamento di bambini da trasformare in kamikaze per la gloria di dio.
Ma tutto questo non è bastato. Così, nel 2012, lo stesso presidentissimo Paul Biya è stato costretto ad invocare un intervento internazionale al quale la Francia, tradizionalmente legata al Camerun, ha risposto con il Defense Partnership Agreement tramite il quale l’esercito francese è stato ufficialmente autorizzato ad addestrare unità di intervento specializzate nella lotta al terrorismo. Nel 2015, da Parigi, sono cominciati ad arrivare anche armamenti.
In tutto questo furore anti integralista, non poteva restarsene fuori la Russia che in quello stesso anno ha cominciato a inviare artiglierie pesanti, missili e altro materiale da guerra, oltre a dislocare in loco il personale atto ad addestrare all’uso di tali strumenti. Gli Stati Uniti hanno contribuito con azioni di intelligence e hanno investito in una modernissima base per droni Predator a Garoua, nel nord del Paese. Regno Unito e Germania hanno fornito pure loro un notevole contributo di armi e personale di addestramento.
La lotta al terrorismo in Camerun, in altre parole, è stata internazionalizzata. E siccome Boko Haram non colpisce solo in Camerun ma anche in Nigeria, in Chad e in altri Paesi sub sahariani, l’Unione Africana ha chiesto l’intervento delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea in termini di aiuti economici in questa lotta. Summit si sono tenuti, nel 2014 a Parigi, e nel 2016 in Nigeria per mettere a punto un piano regionale di contrasto al terrorismo e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 28 luglio 2015, ha chiesto l’intervento della comunità internazionale nel fornire fondi per fronteggiare un fenomeno considerato una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali.
Uno spiegamento internazionale di forze e di intelligence questo, che ha pochi pochi precedenti nella storia. Vien da chiedersi soltanto come mai gli jihadisti di Boko Haram siano ancora là a fare il bello e il cattivo tempo, e la battaglia contro il terrorismo islamico, pure se non ha più lo slancio di qualche anno fa, rimanga comunque ben lontana dall’essere vinta e continui a macinare stragi e profughi. E vien da chiedersi soprattutto, come mai a fare le spese di questo stato di guerra perenne sia sempre e soltanto la popolazione civile.
Il modus operandi degli interventi militari internazionali, è stato aspramente criticato da varie organizzazioni non-governative, prime fra tutte Amnesty International, che hanno denunciato la presenza di luoghi di detenzione illegali posti sotto il controllo delle truppe camerunensi che combattono Boko Haram. Tante persone, accusate di appartenere al gruppo terroristico, sarebbero detenuti in condizioni degradanti e senza un limite di tempo, oltre ad essere vittime di tortura in celle segrete. Tutto questo sarebbe stato documentato da immagini satellitari e riportato da diversi testimoni, chiamando in causa le forze governative dispiegate in circa venti luoghi di detenzione di questo tipo. In queste prigioni sarebbero detenuti, oltre a membri di Boko Haram, anche oppositori politici e semplici cittadini camerunensi, ingiustamente accusati, senza alcuna prova, di terrorismo.
“Amnesty International ha pubblicato dei rapporti su tali violazioni dei diritti umani, denunciano il fatto che, attraverso tali luoghi di tortura si inverte una certa narrazione, trasformando i carnefici in vittime – spiega l’avvocata specializzata nella difesa dei diritti umani Maria Stefania Cataleta -. La domanda è se questi episodi, che evidentemente non sono casi isolati, siano la dimostrazione di una falla nel sistema complessivo di contrasto al terrorismo islamista e se di questo possano essere considerati responsabili anche gli attori internazionali coinvolti, anche solo per culpa in vigilando”.