Veicoli in fiamme; laptop, iPhone, macchinari distrutti; dipendenti furiosi: questo è quanto mostrano i video clip del 13 Dicembre provenienti dalla fabbrica Wistron, fornitore di iPhone, nello stato indiano del Karnataka. La polizia ha represso i manifestanti e circa 160 persone sono state arrestate.
La forza lavoro ha mosso forti lamentele riguardo ai salari non pagati durante la crisi del Coronavirus. Lo straordinario non retribuito fino a 12 ore è diventato più la regola che l’eccezione.
Di recente, questi scioperi sono aumentati di numero. Nello stesso Stato, da novembre i lavoratori degli stabilimenti della Toyota Kirloskar, una joint venture indo-giapponese, hanno ripetutamente interrotto la catena di montaggio, causando un drastico calo nella produzione di veicoli.
Il governo del Karnataka si è visto costretto a diffondere una dichiarazione ufficiale. Secondo quanto riferito dai media, anche il primo ministro Narendra Modi si è detto «estremamente preoccupato» riguardo a questi eventi. C.N. Ashwathnarayan, ministro responsabile per gli investimenti, ha twittato: «è essenziale che nessuno prenda la legge nelle proprie mani. Esistono forum appropriati per risolvere tali problematiche senza scadere in questa violenza». Ma di quali “forum appropriati” stiamo parlando?
Dalla sua rielezione il partito di stampo nazionalista indù al governo, Bharatiya Janata Party (BJP), ha avviato una trasformazione completa della legislazione sul lavoro. L’anno scorso le riforme sui salari sono state le prime ad essere approvate, mentre tutte le norme di sicurezza sociale e i diritti sindacali sono stati modificati rapidamente durante il lockdown di quest’estate. In generale, non c’è un solo settore che non sia stato investito da una particolare riforma: di fatto, la più grande riorganizzazione di questo genere dai tempi dell’indipendenza. Non che la legislazione indiana non avesse imposto, già in passato, limitati margini di manovra quanto alle esenzioni per i datori di lavoro. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), circa il 92% di tutti i lavoratori indiani ha un impiego informale, il che significa che la maggior parte dei diritti del lavoro per costoro non trovano applicazione.
Quando, nel 1926, il dominio coloniale ha diviso per la prima volta i sindacati in “legali” e “illegali”, lo ha fatto non solo in un’ottica di controllo sulla fabbrica, ma anche in relazione al più ampio movimento di indipendenza indiana: tutti quei sindacati che riuscivano a mobilitare in massa i lavoratori venivano considerati un pericolo. Il governo indipendente indiano ha dato seguito a questa distinzione, estendendola all’economia, ora divisa in settori “organizzati” e “non organizzati”. Ciò ha avviato un processo che ha frammentato la forza lavoro, frazionando gradualmente l’accesso ai diritti sul posto di lavoro e alle aree politiche. A partire dalla Seconda guerra mondiale, ad esempio, i salari sono stati progressivamente suddivisi in tre diverse componenti: un salario di base, un bonus annuale e la “dearness allowance”, che può essere tradotta in compensazione d’inflazione – un concetto simile alla cosiddetta “scala mobile” italiana. Questa classificazione, che esiste ancora oggi, spesso contribuisce a grandi disparità di reddito, non garantendo inoltre un compenso complessivo per tutte le componenti.
Negli ultimi anni ci sono state richieste di standardizzazione da parte delle associazioni dei datori di lavoro, oltre che da parte dei datori di lavoro stessi. In un comunicato stampa relativo all’incontro del 5 Ottobre 2020 con la più antica business association indiana AIOE (All India Organization of Employers), il Ministro del Lavoro Santosh Gangwar ha promesso alle aziende un sistema standard semplificato che «consente relazioni industriali armoniose, garantisce una maggiore produttività e genera più posti di lavoro».
Finora, tuttavia, poco si è percepito di questa armonia. I dodici maggiori sindacati del paese si sono opposti a queste riforme, indicendo per l’ennesima volta, il 26 novembre, uno sciopero generale a livello nazionale. Anche il sindacato filogovernativo Bharatiya Mazdoor Sangh, che come il BJP nasce dall’organizzazione nazionalista indù di quadri paramilitari chiamata Rashtriya Swayamsevak Sangh, si è detto contrario. La critica è rivolta principalmente al particolare tipo di standardizzazione proposta dal ministro. Sebbene da un lato esistano ancora definizioni parallele di “dipendente”, così vaghe da lasciare spazio all’interpretazione, dall’altro vi sono state consistenti agevolazioni per i datori di lavoro. Ad esempio, le fabbriche con un massimo di 300 dipendenti sono ora considerate piccole imprese e possono essere chiuse senza preavviso. Diventa inoltre difficile l’accesso alla fabbrica per gli ispettori statali del lavoro, ora chiamati facilitators. Viene istituito un salario minimo nazionale, che ammonta però a 4.628 rupie (circa 50 euro), di fatto più basso rispetto al precedente limite minimo nei vari Stati.
Nonostante questi cambiamenti siano di vasta portata, il coinvolgimento pubblico rimane minimo. La politica di sinistra è caduta in discredito, in un’India sempre più controllata dai nazionalisti indù di Modi. Gli attivisti vengono denunciati come “antinazionali” e “terroristi”. Uno dei più noti speaker televisivi, Arnab Goswami, si riferì alle alleanze di protesta chiamandole addirittura “Pro-Collapse India Brigade”, suggerendo che i sindacati volessero a tutti i costi cacciare il primo ministro Modi, accettando persino la rovina economica del paese.
La diffusione dell’informalità nel mondo del lavoro viene così venduta come modello di sviluppo economico. Di questo sviluppo, però, non vi è ancora traccia.
* Questo articolo è stato originariamente scritto in tedesco, si ringrazia per la co-traduzione dell’articolo, insieme a all’autrice Catharina Charlotte Haensel, Enrico Chinellato.
Immagine di copertina Redfish.