di Sandro Moiso
Telmo Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 280, 16,00 euro
La finitudine ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. (Telmo Pievani)
Non vi può essere alcun dubbio che l’attuale situazione di confusione pandemica abbia spinto molti a riscoprire la necessità di confrontarsi con la morte e la finitudine di tutte le cose. Riflessione che a molti potrà sicuramente sembrare deprimente, triste e rabbuiante, ma che invece Telmo Pievani, in questo romanzo filosofico costruito intorno ad un dialogo immaginario e mai avvenuto tra il genetista Jacques Monod e lo scrittore Albert Camus, riesce a trasformare in un autentico inno alla vita e alla sua specificità nel contesto di un universo che non è sicuramente adatto ad ospitarla.
L’autore immagina che Camus non sia deceduto nell’incidente d’auto che pose fine alla sua vita il 4 gennaio 1960 e che l’amico Jacques Monod si rechi ripetutamente in ospedale per portargli conforto e dare vita, insieme a lui, ad un testo dedicato appunto alla finitudine e, paradossalmente, alle enormi potenzialità di “liberazione” che tale coscienza può portare con sé. Testo che, all’occhio attento del lettore che anche solo conosca in parte le opere dei due premi Nobel (assegnato al primo nel 1957, per la Letteratura, e al secondo nel 1965, per la Fisiologia e la Medicina) risulterà costituito proprio dall’essenza delle opere dei due intellettuali. In particolare, per il libertario Camus, tratte da L’uomo in rivolta e Il mito di Sisifo e per lo scopritore del controllo genetico della sintesi delle proteine (insieme a agli amici e colleghi di una vita François Jacob e André Lwoff, tutti e tre uomini della Resistenza francese contro l’occupazione tedesca e il nazifascismo) da Il caso e la necessità. Testo pubblicato nel 1970 che, dopo L’origine delle specie di Darwin, ha suscitato uno dei più importanti dibattiti scientifici e filosofici.
I due, inoltre, al momento della morte avevano lasciato incompiuti gli appunti per due possibili testi 1, cosa che permette a Pievani di immaginare un loro ulteriore testo a quattro mani, completato nella finzione narrativa al momento della morte di Camus, posticipata al 26 giugno 1960.
Telmo Pievani, professore di Filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, può essere considerato come una sorta di fuorilegge del sapere italiano. Da anni, infatti, il suo lavoro disobbedisce alla regola che informa la scuola, l’università e i pensieri che in quelle si sono formati: la regola secondo cui da una parte (e più in alto) ci sarebbero le discipline umanistiche, dall’altra ci sarebbero quelle scientifiche.
Proprio per abbattere queste barriere, oggi decisamente superate, ha studiato fisica, poi filosofia della scienza e, infine, biologia evoluzionistica, finendo per applicare la filosofia della scienza alla biologia e creando così un sapere che in Italia non c’era, Un sapere e una concezione della scienza che lo accomuna ai due grandi “eretici” protagonisti del dialogo intellettuale contenuto nel romanzo. Un sapere mai precluso, però, agli avvenimenti del mondo circostante e sempre conscio dell’obbligo alla rivolta contro l’ingiustizia compreso nel ruolo dello scienziato autentico e degli intellettuali degni di questo nome (oggi in Italia piuttosto scarsi, se non assenti del tutto).
Lo scienziato è un sovversivo a tutto tondo. Si rivolta contro le conoscenze acquisite, contro il sapere dell’epoca, contro ogni conservazione, pagandone il prezzo. Lo scienziato sfida necessariamente le autorità precostituite, comprese quelle interne alla scienza. Lo scienziato si rivolta contro le ipotesi dei colleghi e dei pari, contro le correnti di pensiero dominanti, contro le tradizioni di ricerca alternative […] Lo scienziato si rivolta contro le sue stesse concezioni, le rimette continuamente in discussione, si tormenta e infine le modifica.
Lo scienziato è un contestatore nato che tradisce i suoi maestri […] Lo scienziato disobbedisce
ai suoi mentori e ai suoi mecenati, oggi diremmo ai suoi finanziatori […] Quale migliore interprete
della rivolta?
[…] Si rivolta per mestiere, per etica della conoscenza, per competenza professionale, e questo lo rende un eretico di una specie particolare. Lo scienziato, infatti, non deve confortare né rendere felici gli esseri umani [ma] deve dire la verità, che a volte – anzi, spesso– è scomoda, spiazzante, controintuitiva. Sfida la percezione comune [poiché] suo unico nemico è la menzogna2.
Sulle moderne tracce di Lucrezio e del suo De rerum natura e, perché no, anche di Leopardi e delle sue riflessioni poetico-filosofiche, ecco allora che il discorso scientifico sulla finitudine di tutte le cose (dell’universo, della Terra, delle specie, di ognuno di noi). ci rivela, fin dalle pagine iniziali del libro che non solo la Terra è vecchia:
per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia. Eppure, basta far di conto.
Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle della nostra galassia, brilla da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo.
[…] In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali […] Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo […] Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nell’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita.
Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro). Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica.
Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri3.
Si chiede poi ancora l’autore Pievani/Monod/Camus:
Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca
3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, peri cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens4.
Nulla rispetto alla, soltanto presunta, eternità del cosmo, ancor meno se riferito soltanto alla nostra specie.
A questo punto il senso di insignificanza del tutto, del vuoto che ci circonda e che ci attende, così come attende l’Universo in tempi appena più lunghi, potrebbe schiantare qualsiasi speranza o velleità, precipitandoci nel nichilismo più assoluto. Eppure, eppure…
Pievani immagina che Monod e Camus leggano e discutano le bozze praticamente sul letto di morte dello scrittore francese mentre, allo stesso tempo ricordano le avventure durante la Resistenza a Parigi oppure commentano i tragici fatti che hanno accompagnato la rivolta d’Ungheria, pochi anni prima, e le sue conseguenze sulle vite di amiche e amici conosciuti. Oppure commentano le infinite casualità in cui la possibile morte, per mano del nemico o per scherzo del destino, è stata evitata per un soffio. Ed è altamente simbolico il fatto che le bozze siano completamente lette e approvate un soffio di tempo prima che Camus si addormenti per sempre (e per davvero).
Perché l’uomo, forse l’unico animale simbolico del pianeta e quindi, probabilmente, dell’intero universo, porta con sé la grande capacità di aver saputo concepire, allo stesso tempo, la propria finitudine e immaginare il modo di vincerla. In questo secondo aspetto sembrano infatti risiedere l’emergere sia del desiderio che della rivolta, purché questo, ammonisce il testo, non si lasci abbindolare dalle illusioni religiose: siano queste di carattere monoteistico, politeistico o animistico.
Cogliere il miracolo autentico della momentanea esistenza della nostra specie e delle nostre brevissime vite non può essere un fatto religioso, ma piuttosto l’assunzione della piena coscienza della durata di questo attimo, proprio perché unico e irripetibile.
«Come onde del mare, ci siamo sollevati per un momento ad ammirare il resto dell’oceano e poi ci immergeremo di nuovo nel tutto»5. Compreso ciò, ci sarà probabilmente dolce naufragare in questo mare, anche se l’inquietudine continuerà ad animare e pervadere il nostro modo di essere effimere creature volte alla ricerca di un senso delle cose.
Ma, una volta coscienti dell’istantaneità del tutto, una volta divelte le illusorie paratie della potenza del destino manifesto dell’Uomo, tutt’altro che al centro dell’Universo, non potremo e non dovremo dedicarci ad altro che alla rivolta contro tutto ciò che vuole ridurre questo breve istante di eternità, vissuto da ognuno e dalla specie nel suo insieme, a miserabile commedia di potere, violenza, sfruttamento, ricerca della ricchezza e consumo smoderato e senza scopo. Solo in tal modo sarà possibile, pur nei limiti del tempo concessoci, godere pienamente della vita, ben consci che «anche se ognuno di noi finirà, anche se la vita finirà, anche se la Terra finirà, anche se le galassie si raffredderanno, anche se l’universo in un gran botto finirà, anche se tutto cadrà in una notte perpetua, nulla potrà cancellare il fatto che, in un angolo marginale del cosmo, è esistita una specie in grado di comprendere la propria finitudine e di sentirsi libera di sfidarla»6.
Una concezione esclusivamente utilitaristica della Scienza la ritiene
un’attività esclusivamente costruttiva e creativa, oltre che utile. Si dimenticano così le enormi potenzialità distruttive, in senso culturale, del metodo scientifico, che ha reso indifendibili uno dopo l’altro i concetti tradizionali che avevano dato un significato alla vita umana. Non c’è dogma, non c’è aristocrazia colta che possa reggere, dinanzi a un ribelle del genere. Ha i fatti dalla sua parte. E i fatti, certe volte, sanno essere implacabili. Come disse nel 1923 il biologo John B.S. Haldane in un discorso non a caso rivolto alla Heretics Society di Cambridge, coloro che, come gli scienziati, trovano “nella ragione la maggiore e la più terribile delle passioni” sono “i distruttori di civiltà e imperi in declino, disintegratori, deicidi, cultori del dubbio”7.
Così, nella sua essenza, al di là dell’illusione di vincere la morte contenuta nelle religioni o nel suo uso meramente “tecnico”, ci ha insegnato che
Ci siamo, potevamo non esserci, siamo capitati: questo è tutto, questo è meraviglioso. Non siamo
più schiavi di una posizione privilegiata nel cosmo. Non siamo più schiavi di un radioso avvenire da tradurre in realtà. Non siamo più schiavi di un’attesa che vanifica il presente. Siamo circondati da due oceani di inesistenza, ma nel dirlo esistiamo. Non c’è nulla di disperante, quindi, nel dispiegarsi della finitudine di tutte le cose, perché non c’è vita che, almeno per un attimo, non sia stata immortale.
Avere coscienza della finitudine ha inoltre un grande valore umanistico, perché ci dona non solo il senso della nostra appartenenza alla natura, esseri fragili tra creature fragili, in piedi su una Terra vagante che pure condivide questo destino, ma ci dona anche la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali e in cerca di un senso. La finitudine è il fondamento della nostra comunità di destino, della solidarietà tra disperati, una solidarietà che nasce tra le catene. Siamo mortali, ma non siamo soli. Lo siamo tutti. Siamo uniti nella sofferenza, nello sforzo eroico di Sisifo, partecipi della medesima sorte: noi, gli altri esseri viventi, il pianeta e l’universo. Rivoltarci contro la finitudine ci stringe insieme8.
Nel restituirci il “senso” della fine ultima e della rivolta come strumento di emancipazione non solo sociale ma umana e vitale, il libro di Pievani, da leggere e rileggere proprio nei momenti difficili e apparentemente più disperanti, si rivela un autentico livre de chevet destinato ad accompagnare il lettore per molto tempo, rivelandogli ad ogni successiva lettura come il confine tra vera scienza e autentica poesia sia, talvolta, assai sottile.