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di Marco Bersani
“L’infante senza la madre non esiste” [1] scriveva lo psicanalista inglese Donald Winnicott, per il quale, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione, e le sue possibilità di vivere e svilupparsi dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un’altra persona -solitamente la madre- che si prenda cura di lui e gli dia quel senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita.
L’uomo e la donna sono dunque animali sociali e l’esistenza di ciascuna persona è intrinsecamente caratterizzata dall’interdipendenza con l’altr* e con l’ambiente circostante.
Sembrano concetti di immediata comprensibilità, eppure da oltre cinquant’anni è un altro il paradigma che domina: “There is no such thing as society: there are individual men and women” (“Non esiste la società, esistono solo gli individui”) affermato dall’allora premier inglese Margareth Thatcher e divenuto dogma pervasivo del capitalismo contemporaneo.
Nel frattempo: “Non vengono da un altro pianeta e non nascono dal nulla. I responsabili della prossima pandemia sono già tra noi, sono virus che colpiscono gli animali ma che potrebbero da un momento all’altro fare un salto di specie -uno ‘spillover’ in gergo tecnico- e colpire anche gli esseri umani”[2] scriveva il divulgatore scientifico David Quammen e sei anni dopo ci siamo arrivati.
Un virus -Covid19- si è diffuso in brevissimo tempo sull’intero pianeta, costringendo quasi metà della popolazione mondiale all’autoreclusione per tempi più o meno lunghi e mostrando a ciascuna persona la precarietà dell’esistenza individuale: le nostre certezze, i nostri riti quotidiani, i nostri universi relazionali sono stati messi a soqquadro e abbiamo dovuto prendere atto della fragilità intrinseca della vita umana e sociale.
Uno stravolgimento che ha aperto faglie importanti dentro la narrazione dominante, la comprensione delle quali è l’unica possibilità che abbiamo per dichiarare l’insostenibilità dell’attuale modello economico-sociale e aprire la strada ad un’alternativa di società.
Il primo insegnamento riguarda la natura di questa epidemia. Nonostante la narrazione dominante lo descriva come un evento esogeno, precipitato da chissà dove sulle nostre vite -da qui l’uso della retorica del nemico invisibile e del linguaggio guerresco- il virus è un evento assolutamente endogeno a questo modello socio-economico e, nella sua virulenza, dimostra la rottura degli equilibri eco-sistemici provocata da decenni di relazione fra attività economica e natura basata sulla predazione, sull’estrattivismo, sulla negazione di ogni interdipendenza. Di fatto, il virus è una delle dimostrazioni della crisi climatica e ambientale in corso e ne mette in evidenza le drammatiche conseguenze.
Il secondo riguarda la relazione tra l’attività di produzione economica e l’attività di riproduzione sociale. Una società che ha sempre privilegiato la prima, misconoscendo il valore della seconda, storicamente affidata alle donne e mai retribuita, si è dovuta arrendere all’evidenza: senza cura delle persone, dell’ambiente e delle relazioni non è possibile alcuna attività economica e, dentro quest’ultima, sono proprio le attività socialmente meno considerate ad essersi rivelate essenziali e decisive dentro le fasi di lockdown, dagli operatori della sanità a quelli della scuola, dai rider ai lavoratori dei trasporti, fino alle relazioni sociali messe in campo autonomamente negli ambiti familiari, di vicinato e territoriali.
Il terzo riguarda la constatazione di come una società interamente fondata sul mercato si sia rivelata incapace di garantire la protezione ad alcuno dei suoi membri. Al contrario, i drastici tagli degli ultimi decenni di politiche liberiste e di austerità hanno drammaticamente evidenziato i loro effetti: il sistema sanitario, il sistema scolastico e la rete dei trasporti pubblici sono andati repentinamente al collasso, lasciando le fasce più fragili della popolazione prive di diritti e di reti di supporto.
Il quarto riguarda l’impalcatura ideologica costruita attorno all’economia. L’epidemia ha rotto qualsiasi narrazione artificialmente costruita sul tema del debito e dei vincoli finanziari, che, da Maastricht in avanti, come dogmi religiosi hanno governato la società. Se per curare le persone sono, infatti, stati sospesi il patto di stabilità, il pareggio di bilancio e gli algoritmi del deficit, non ci vuole Aristotele per dedurre come quei vincoli fossero contro la vita e la cura delle persone.
Il quinto riguarda la centralità dei territori. Il virus ha potuto diffondersi con tale velocità sul pianeta perché ha utilizzato i binari di un modello globalizzato che fonda il proprio valore economico unicamente sulla velocità di spostamento di merci, capitali e persone (quelle legate alla produzione di valore, non quelle costrette alla migrazione): l’epidemia si è infatti diffusa attraverso i corpi dei manager e dei tecnici specializzati, cosi come quelli dei lavoratori dei trasporti e della logistica, e dei turisti. Una iper-connessione dei sistemi produttivi, finanziari e sociali, che da decenni attraversa in maniera predatoria i territori estraendone valore è andata in tilt, scoprendo improvvisamente come il mito della velocità abbia come contraltare il blocco totale di produzione, commercio, infrastrutture e relazioni.
Sono cinque faglie aperte dentro la narrazione dominante che spingono ad un drastico cambio di paradigma: sostituire l’io con il noi, prendere atto dell’interdipendenza sociale e naturale, respingere l’orizzonte della solitudine competitiva per approdare a quello della cooperazione solidale.
In una parola, prendersi cura di sé, dell’altr*, del vivente e del pianeta e, su queste basi, porre collettivamente la sfida per un’alternativa di società.
Costruire la società della cura significa mettere la cura al centro di tutte le scelte di politica economica e sociale, assumendo la lettura femminile e femminista della società come indicazione di percorso.
Significa non separare più la produzione dalla società, favorendo la prima – il rilancio dell’economia – a discapito della seconda, bensì rifondare radicalmente i concetti di lavoro e di reddito.
Serve una riflessione collettiva sul “cosa, quanto, come, dove e per chi” produrre e un lavoro che sia svolto con tutti i diritti di dignità, senza precarietà, con una drastica riduzione dell’orario e la socializzazione del lavoro necessario.
Serve un reddito di base incondizionato per diversi motivi. Il primo è la necessaria redistribuzione di una ricchezza sociale che oggi è appannaggio dei pochi che detengono tutto e mettono a valore l’intera esistenza di tutti gli altri. Il secondo è che va interrotto il ricatto del reddito collegato al lavoro per garantire i diritti delle persone e per poter radicalmente trasformare la produzione. Il terzo è che, se consideriamo l’attività di ciascuna persona come il contributo individuale alla cura collettiva, il reddito garantito ne costituisce il riconoscimento.
Se l’obiettivo è la cura collettiva, occorre che sia l’ecologia, ovvero l’interdipendenza tra le attività umane e la natura, a guidare le scelte in merito all’agricoltura e alle filiere del cibo, alla tutela e manutenzione del territorio, alle opzioni energetiche, alla tutela dell’acqua, al ciclo dei rifiuti, alla mobilità. Tutti beni da qualificare come comuni e da consegnare alla gestione partecipativa delle comunità territoriali, associate e federate fra loro.
Così come vanno sottratti al mercato i servizi pubblici fondamentali, dall’istruzione, formazione e ricerca alla sanità, dalla casa alla sicurezza sociale, fino alle infrastrutture materiali e immateriali senza le quali ogni altra produzione non sarebbe possibile.
E serve una finanza pubblica e sociale al servizio dei diritti e della vita, che parta dalla radicale rimessa in discussione della trappola del debito e dei vincoli finanziari, per mettere in campo la progressiva socializzazione del sistema bancario e finanziario, il controllo dei movimenti di capitali, la messa a disposizione delle risorse per la conversione ecologica, sociale e culturale della società.
Questa è la posta in palio dentro il bivio che ci ha posto di fronte la pandemia.
“O la borsa o la vita!” intimavano secoli or sono i briganti ai passanti che per sventura incappavano nella medesima direzione di marcia. “O la Borsa o la vita!” intimano oggi i ben più feroci filibustieri del capitale finanziario internazionale.
Si tratta semplicemente di scegliere la vita.
Tutt* insieme, la vita.
[1] D. W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1974[2]D. Qammen, Spillover, Adelphi Edizioni, Milano, 2014
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 45 di marzo-aprile 2021: “Recovery PlanET: per la società della cura”