Uno degli aspetti che questa pandemia ha reso più che mai evidente è che il diritto alla salute, il diritto alla vita non è più – qualora lo fosse mai stato – universalmente garantito.
Nei mesi che sono trascorsi, in tanti si sono finalmente accorti che anche il sistema sanitario nazionale è organizzato per garantire il diritto alla salute ai garantiti e limitarlo alle fasce sociali più fragili. Chi ha fior di quattrini da spendere può permettersi di curarsi; per tutti gli altri ci sono invece file interminabili, attese e disservizi.
La Sicilia, in quanto territorio marginale all’interno della nuova economia dei flussi, subisce lo sviluppo ineguale del sistema Italia anche nell’ambito della sanità. Nei paragrafi che seguono sono argomentate le ragioni che dovrebbero portarci a mettere in discussione una volta e per tutto il funzionamento del sistema sanitario nazionale.
Il sistema sanitario siciliano negli ultimi dieci anni ha subito una trasformazione graduale – a nostro parere decisamente peggiorativa – dovuta all’applicazione di riforme nazionali, concepite e progettate lontano dai territori e spesso contro di essi.
La conformazione geografica della Sicilia, con il suo portato di diversità e di specificità, si è scontrata su più fronti con i progetti di modernizzazione del centralismo statale ed europeo. Il tessuto sociale ed economico ha risentito più che altrove di una spending review concepita esclusivamente per accentrare i servizi presso le grandi aree urbane, consentendo un taglio deciso e costante alla spesa pubblica e rendendo più pervasivo il controllo statale sulle politiche per lo sviluppo locale.
La sanità è senza dubbio uno degli ambiti più delicati per la nostra isola. Tra carenze di personale e di mezzi, chiusure di ospedali e sovraffollamento, eccellenze che viaggiano verso il “fiorente” e “più virtuoso” Nord, molte sono le critiche e i commenti negativi da fare allo status del sistema sanitario regionale.
La riforma Balduzzi
Un passaggio cruciale è stato la riforma della sanità introdotta con il governo Monti dall’allora ministro Balduzzi – la legge n.189/2012. Una legge mai messa in discussione dai governi successivi, i quali anzi hanno rafforzato lo spirito apparentemente razionale del suo dettato normativo che si è così trasformato in un piano di ritiro dei presidi ospedalieri dai territori.
Questa legge è nota per aver predisposto un quadro per la “deospedalizzazione” delle cure primarie, in un contesto di tagli lineari operati su più fronti, che nel complesso – e unitamente alla legge n.135/2012, cosiddetta “Salva Italia” – ha comportato un taglio lineare per il SSN di 4,7 miliardi e la previsione di una riduzione di 20 mila posti letto tra pubblico e privato. I successivi interventi governativi, cosiddetti “patti per la salute” e il decreto ministeriale n.70/2015, recepito in Sicilia con il D.A. n. 1181/2015 e con il D.A. n. 62/2017 e in fine con il D.A. 22/2019, hanno prodotto la razionalizzazione auspicata dal Governo Monti e, contrariamente ai proclami dell’assessore Razza, un peggioramento dei servizi per le zone montane, le isole minori e le aree a rischio, oltre a una schizofrenica modulazione dei livelli assistenziali negli ospedali maggiori.
Nella divisione tra DEA di secondo livello, DEA di primo livello, presidi di base, pronto soccorso per le zone disagiate, pronto soccorso per aree ad alto rischio ambientale spicca una vocazione accentratrice che pone, ad esempio: ben tre DEA di secondo livello (su sette) all’interno della città di Catania; un declassamento di strutture di riferimento per bacini di utenza tra 60 e 100 mila abitanti come quelli di Barcellona (ME), Patti (ME) e Castelvetrano (TP) (per citare i più importanti); la parziale chiusura dei presidi sanitari delle comunità montante come quello di Mistretta (ME); la precarizzazione dei presidi per le isole minori come nel caso dell’ospedale di Lipari (ME) o di Pantelleria (TP), in cui non sono più garantiti molti servizi di base, nemmeno un punto nascita efficiente.
Sui punti nascita, la legge nazionale, a partire già dal 2011, prevede infatti che vengano dismessi queli con meno di 500 parti annui, criterio al quale si può derogare con interventi specifici nell’ambito delle cosiddette “zone disagiate”.
I Livelli essenziali di assistenza (LEA)
Facciamo riferimento a qualche dato per comprendere al meglio la situazione attuale. I LEA (Livelli essenziali di assistenza) sono le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini. Il comitato per la verifica si occupa di controllare la loro erogabilità e l’efficienza nell’utilizzo delle risorse per mantenere la corretta messa a disposizione dei finanziamenti. Nello specifico, il ruolo svolto da questo comitato si basa sulla certificazione dell’adempimento. Questa avviene con la rilevazione, attraverso degli indicatori, di dati riferiti a tre grandi livelli: prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale e assistenza ospedaliera. Dopo la rilevazione si traccia una griglia che consente di conoscere e cogliere nell’insieme le diversità e il disomogeneo livello di erogazione dei livelli di assistenza.
Secondo la valutazione finale per il 2017, la regione Sicilia ha un punteggio pari a 160 (vs 221 punti del Piemonte), risultando regione adempiente. Ciononostante registra valori non accettabili per indicatori quali assistenza sociosanitaria residenziale e semi-residenziale: numero di posti per assistenza agli anziani (1,41 vs 10), numero di posti in strutture residenziali che erogano assistenza ai disabili ogni 1000 residenti (0.29 vs 0.60) e numero di posti in strutture semi-residenziali che erogano assistenza ai disabili ogni 1000 residenti (0.34 vs 0.45). In breve, i LEA registrano gli andamenti e quindi la potenzialità di ogni regione ad accedere ai finanziamenti.
Secondo l’ultimo report di Bankitalia del 2019, nel 2018 si è registrato un aumento generale dei costi del servizio sanitario rispetto al 2017 per quel che concerne la Regione Sicilia. Ma, d’altra parte, dal 2010 sono stati introdotti limiti all’ammontare della spesa (blocco automatico del turnover) che hanno avuto un effetto diretto sulla dotazione del personale e sulla relativa età media. Da quel momento si assiste a una diminuzione esponenziale dei rinnovi contrattuali, l’andamento della spesa viene determinato solo dalle variazioni dell’occupazione e si assiste gradualmente a forti carenze nelle strutture, nella disponibilità di personale e nei servizi.
Tutto ciò contribuisce ad ampliare nel tempo il gap esistente tra regioni come la Sicilia e regioni come la Lombardia. Se si abbassa il tasso di occupazione, diminuiscono i servizi, quindi le prestazioni e l’accesso alle risorse. Già nel 2017 la dotazione di personale sanitario pubblico in Sicilia risultava inferiore al corrispondente dato nazionale (95,8 addetti ogni 10000 abitanti vs 109,9 addetti nel resto di Italia).
Insomma, il meccanismo che regola il sistema sanitario nelle singole regioni è concepito in modo da assicurare lo sviluppo del sistema sanitario di stampo aziendale di alcune aree del Centro-Nord, aggravando progressivamente le già precarie condizioni della sanità nelle aree più povere.
La mobilità sanitaria
Il meccanismo funziona così: il Servizio Sanitario Nazionale riconosce a ogni cittadino la possibilità di curarsi in regioni diverse dalla propria; a ciò si dà l’ambiguo nome di “mobilità”. È stato congegnato in modo che mentre la mobilità attiva finisce col rappresentare un credito delle regioni nei confronti del Fondo Sanità, quella passiva rappresenta un debito. Ciò che a prima vista sembrerebbe un privilegio offerto a ogni cittadino italiano, a cui è consentito di spostarsi verso regioni dove la sanità è più efficiente; nella realtà costituisce una condanna definitiva per le regioni meno efficienti e attrezzate. Conseguentemente, sulla base degli indici regionali ricavati dal rapporto tra mobilità attiva e passiva, nel 2019 la Lombardia risultava creditrice dal Fondo Sanità di 804 mln di euro, mentre la Sicilia ne era debitrice di 237 mln di euro (fonte: rapporto GIMBE 2019).
Per di più, i pochi siciliani che riescono ad approfittare della mobilità attiva, avranno da sostenere i costi degli spostamenti (aerei, treni, alberghi, eccetera). Alla fine le regioni con strutture più carenti finiscono con l’essere definanziate nei confronti di quelle dotate di strutture più efficienti; gli squilibri tra una regione e un’altra non solo non saranno mai risolti, ma sono destinati ad aumentare col passare degli anni. Solo per citare un caso specifico, nel 2018, a fronte di una spesa sanitaria media pro capite di 2.452, al Nord raggiungeva i 2.800 euro mentre in Sicilia si riduceva a 2.128.
Per completare il quadro: il costo dei ticket sanitari e farmaceutici è più alto in Sicilia che in Lombardia. Il superticket della sanità rappresenta una vera e propria tassa, in considerazione del fatto che il suo valore supera il costo del servizio che viene reso al malato. Ticket e superticket negli ultimi cinque anni sono cresciuti del 10%, con le conseguenze facilmente immaginabili sulle fasce più povere della popolazione, che di fatto non hanno più accesso ai servizi sanitari.
Abbiamo bisogno di una sanità a misura di territorio
Queste leggi nazionali e gli inefficienti piani regionali hanno portato e porteranno alla chiusura di numerosi reparti e ospedali proprio in quei territori dove la presenza di strutture sanitarie efficienti e accessibili sarebbe più urgente. Parliamo di quartieri popolari, isole minori e piccoli comuni. Interi territori – e quindi centinaia e centinaia di siciliani – minacciati dalla costrizione di dover percorrere chilometri per eseguire un’operazione, sottoporsi a cure mediche specialistiche o semplici visite. C’è chi è addirittura costretto a lunghi viaggi in mare per andare a partorire, come il caso delle donne di Pantelleria.
Viviamo un quadro di confusione e insoddisfazione diffusa proprio perché non esiste una strategia complessiva e autonoma né una contrapposizione vera alle direttive statali. La riduzione della spesa corrente, seppur contenga la possibilità di correggere anche le storture e gli abusi del sistema, è riferibile ideologicamente al progetto di precarizzazione dei servizi pubblici e del welfare che vuole plasmare un conteso in cui i cittadini siano sempre di più gli unici artefici dei propri successi e delle proprie disgrazie, in cui cioè la società e il contesto economico non sono responsabili verso i singoli. Peraltro una visione che sottende a tutto questo è l’abbandono dell’entroterra o delle isole minori (da lasciare esclusivamente ai turisti) e l’inurbamento, competitivo e compresso, della popolazione.
È dentro questo quadro che sono nati dei comitati territoriali – costituitisi in coordinamento regionale – per riaffermare il diritto alla salute e l’importanza della sanità territoriale.
C’è bisogno di rompere i meccanismi di aziendalizzazione economica e messa a profitto di un diritto fondamentale come quello alla salute (non numeri ma bisogni). Una condizione necessaria per realizzare un cambio di rotta, per costruire una sanità a misura di territorio.