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di Monica Di Sisto (Fairwatch)
“Senza il digitale non sarà possibile realizzare ‘la nuova normalità’ che ci ha consegnato questo periodo di convivenza con il Covid-19. Il distanziamento sociale ha portato il digitale nella vita di tutti, volenti o nolenti, se si vuole lavorare, studiare, fare la spesa, vedere gli amici, vivere momenti essenziali della propria quotidianità. Il digitale non è più una scelta, il digitale è una necessità”[i]. Questo periodo, che in varie versioni è stato ripreso, rielaborato e comunicato in diverse versioni e abbiamo visto fiorire sulle labbra di numerosi interventi di decisori politici nazionali, è il cuore delle richieste dell’Associazione Italiana per l’Information and Communication Technology (ICT) – aderente a Confindustria e socia fondatrice della Federazione Confindustria Digitale – presentate al Governo in vista dell’elaborazione del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, cioè la strategia italiana di accesso ai fondi europei di sostegno ai Paesi membri per la ripresa post-Covid. Nel Pnrr, in effetti, la parola “digitale” ricorre almeno 107 volte mentre, ad esempio, “agricoltura” solo 16.
Fin dalle premesse il Pnrr chiarisce che “La sfida della crescita inclusiva riguarda tutta l’Europa, che deve trovare un nuovo ruolo nella competizione tecnologica e nella riorganizzazione delle catene del valore” e che “consenta all’Unione di recuperare terreno nella corsa tecnologica globale, di creare lavoro buono mantenendo e rinnovando il modello sociale europeo”.[ii] Questo è un tema così sentito che la Commissione stessa ha vincolato almeno il 20% delle risorse che verranno concesse a ogni Stato attraverso la Recovery and Resilience Facility alla digitalizzazione. “Come ha mostrato l’accelerazione impressa dalla pandemia, la capacità digitale sarà sempre più un fattore cruciale di inclusione – sottolinea ancora l’introduzione del Piano. Solo un investimento capillare nel digitale, su infrastrutture, competenze e cultura, potrà liberare il potenziale di tutti i territori italiani”, continua diligentemente il Governo italiano, che rivendica che “la digitalizzazione e l’innovazione di processi, prodotti e servizi, caratterizzano ogni politica di riforma del Piano, dal fisco alla pubblica amministrazione. E coinvolgono il rafforzamento delle infrastrutture sociali e delle infrastrutture critiche, oltre alla ripresa delle attività culturali e turistiche”[iii].
Italia fanalino di coda digitale
Secondo studi recenti, il valore dell’economia dei dati europea può aumentare fino a oltre 1 000 miliardi di euro entro il 2025, dal 2,4% nel 2017 a circa il 6% del PIL[iv]. Che l’Italia abbia molto da fare in questo ambito lo dimostra il fatto che nella classifica annuale redatta dalla Commissione Ue sull’Indicatore Desi (Digital economy and society index) si colloca al quart’ultimo posto tra i Paesi membri[v]. Tuttavia, in Italia nel 2020 è stato fatto un primo passetto verso una delle prime Web tax introdotte nel mondo, e si stima che consentirà ingressi per lo Stato italiano per circa 700 milioni di euro all’anno. La tassa prevede il 3% sui ricavi dei servizi di società tecnologiche che fatturano oltre 750 milioni di euro a livello globale, di cui 5,5 milioni in Italia. Una “sunset clause” prevede che questa tassa sarà presente fintanto che non verrà trovato un accordo internazionale per l’introduzione di una tassa standardizzata, che era prevista per fine 2020[vi].
Ma la “cura digitale” che si prospetta per l’Italia, a parte i potenziali benefici per l’erario di questa ultima operazione, è davvero un’azione di cura? Basta, inoltre, un’iniezione di fondi europei, pur straordinaria, negli ammodernamenti strutturali delle reti e dell’accessibilità, senza un quadro di regole e condizioni specifiche e innovative, a curare il nostro futuro grazie all’accelerazione digitale?
Le misure previste dal Pnrr
I progetti per la digitalizzazione del Paese per i quali si chiede il sostegno alla facility europea Next Generation Eu (Ngeu) rientrano nella prima missione del Pnrr “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, che ha come obiettivo generale “l’innovazione del Paese in chiave digitale, grazie alla quale innescare un vero e proprio cambiamento strutturale”, e investe alcuni ampi settori di intervento: digitalizzazione e modernizzazione della pubblica amministrazione; riforma della giustizia; innovazione del sistema produttivo; realizzazione della banda larga; investimento sul patrimonio turistico e culturale. Le linee di intervento della missione si sviluppano attorno a tre componenti progettuali: digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA; digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; turismo e cultura 4.0.
Le risorse complessivamente destinate alla missione 1 sono 46,3 miliardi di euro, pari al 20,7 per cento delle risorse totali del Piano, di cui 10,11 miliardi già in essere, 35,39 chiesti alla Facility e 80 milioni in capo ai fondi di coesione riorganizzati nello strumento React-Eu.
Di questi 11,75 miliardi vanno alla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione mentre ben 26,55 alla Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo, ossia ai privati.
Altri interventi di digitalizzazione sono previsti anche nei programmi riguardanti: la scuola nei suoi programmi didattici, nelle competenze di docenti e studenti, nelle sue funzioni amministrative, nei suoi edifici (missioni 2 e 4); la sanità nelle infrastrutture ospedaliere, nei dispositivi medici, nelle competenze e nell’aggiornamento del personale (missioni 5 e 6); l’aggiornamento tecnologico nell’agricoltura, nei processi industriali e nel settore terziario (missioni 2 e 3).
Per la Pubblica amministrazione si propongono investimenti in infrastrutture digitali e cyber security, di cui parte già stanziata per un cloud pubblico; investimenti in dotazione infrastrutturali per garantire l’interoperabilità e la condivisione di informazione tra le PA, molti dei quali già in essere; investimenti per lo sviluppo di servizi digitali in favore dei cittadini e delle imprese: lo stanziamento totale per questo investimento è di 5,57 miliardi di euro, di cui circa 4,77 miliardi già stanziati per il progetto Italia Cashless, messo a punto dal Governo per incentivare l’uso di carte di credito, debito e app di pagamento.
Per le imprese più contributi, zero visione
Per quanto riguarda, invece, gli oltre 26 miliardi destinati al settore privato, 21,55 miliardi sono destinati a progetti nuovi e solo 4,20 miliardi a progetti in essere. 75 milioni, tutti di nuovi progetti, sono investiti per l’innovazione dei microprocessori, 80 milioni tra digitalizzazione per le Piccole e medie imprese e fondo di garanzia, 4,20 miliardi di cui 3,10 in nuovi investimenti per banda larga, 5G e monitoraggio satellitare. Alla Transizione 4.0, il capitolo più sostanzioso, vengono attribuiti 18,8 miliardi, di cui 15,7 per progetti nuovi. Il progetto si basa su un credito d’imposta articolato per spese in beni strumentali (materiali e immateriali 4.0), e per investimenti in ricerca e sviluppo, nonché in processi di innovazione e di sviluppo orientati alla sostenibilità ambientale e all’evoluzione digitale, con un’estensione, a partire dal 2021, ad un bacino più ampio di beni strumentali immateriali agevolabili, meccanismi semplificati e accelerati di compensazione dei benefici maturati per le aziende con fatturato annuo inferiore ai 5 milioni di euro. A queste misure potranno accedere anche le imprese editoriali per le attività di digitalizzazione e per gli interventi a sostegno della trasformazione digitale dell’offerta e della fruizione di prodotti editoriali.
Il fatto, però, che il finanziamento si presenti come un credito di imposta non risolve due problemi sostanziali: la liquidità, che in una fase come quella post-Covid risulta essere tra i problemi principali soprattutto per le Pmi “follower”, cioè quelle che più avrebbero bisogno di questi fondi perché arretrate [vii]. Soprattutto, però, come per il precedente piano Industria 4.0, i finanziamenti non sono soggetti a specifiche valutazioni d’impatto economico, sociale e ambientale, non si prevede di calcolare quanto incideranno sull’occupazione e nessuna verifica ex-post è in programma che non sia quella della prova dell’effettivo acquisto/realizzazione dei beni o dei servizi finanziati. Una visione miope e anacronistica, già evidenziatasi con il programma Industria 4.0 dei Governi precedenti, incomprensibile in una fase che si vorrebbe di completo cambiamento di prassi e esiti.
La Wto e la svendita che non s’ha da fare
Su questo quadro già denso di problematiche incombe un fallimento – culturale e legislativo – che ci trasciniamo dal secolo scorso: la compulsione fideistica verso la liberalizzazione commerciale. Come ha denunciato anche in un suo recente rapporto la Federazione internazionale dei sindacati dei lavoratori dei servizi, Psi,[viii] i giganti Big Tech come Google, Amazon, Facebook e Apple – i cosiddetti GAFA – stanno usando la retorica (e gli accordi) di libero scambio in essere per proteggersi da qualunque livello, anche minimo, di regolamentazione pubblica. L’idea di un Internet “libero e aperto” suona liberatorio. Ma un mondo in cui le società private potenti e non regolamentate controllano il dominio digitale da cui tutti, dai governi alle famiglie, sono arrivati a dipendere, si mostra come paradigma della privatizzazione spinto ai suoi esiti più paradossali.
Con la pandemia ci è stata resa più evidente la nostra crescente dipendenza da queste aziende private. In realtà nel loro arbitrio siamo immersi in misura crescente da tanti, troppi anni. Creano gli algoritmi che decidono chi ottiene un lavoro o viene licenziato, chi riceve un prestito o entra all’università, è l’intelligenza artificiale che fa il lavoro di medici, tecnici e agenti penitenziari. Appaltatori privati gestiscono le operazioni IT e le banche dati delle agenzie governative, archiviando i nostri dati sui propri server o nel “cloud”, il che di solito significa che sono controllati negli Stati Uniti. Questo elenco di servizi “sensibili” si espande ogni settimana, poiché i Governi diventano sempre più dipendenti dalle tecnologie digitali e dalle aziende che controllano le informazioni e i sistemi che le gestiscono. Ogni settimana ci sono più prove di come è abusato questo potere attraverso l’evasione fiscale, le violazioni dei diritti umani mediante la profilazione di immigrati e dissidenti e lo sfruttamento dei cosiddetti lavoratori “autonomi”.
Nei giorni in cui eravamo tutti confinati in casa per la prima volta, a Ginevra queste stesse aziende hanno fatto una pressione fortissima perché i Paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio approvassero, su iniziativa di 80 tra di loro tra cui, in prima fila, Unione europea e Stati Uniti, un trattato di liberalizzazione commerciale coperto da riservatezza – irrituale per i testi Wto – che interviene su raccolta dei dati, responsabilità, diritti di accesso al mercato, non discriminazione, divulgazione del codice sorgente, tasse, sicurezza informatica e altro ancora, in molti casi direzione ostinata e contrari rispetto a quanto prevedono, ad esempio, la legislazione italiana e europea attuali. Quando il negoziato è stato lanciato, nel 2017, la rete internazionale Our world is not for sale che lavora su questi trattati fin dai giorni di Seattle, di cui Fairwatch fa parte, ha cercato di far emergere che le proposte contenute nel testo presentato alla ministeriale Wto di Buenos Aires andavano ben oltre il semplice e-commerce[ix].
Problemi e nuove proposte
Le associazioni e i sindacati hanno da subito sostenuto che l’accordo consoliderebbe in modo permanente lo status di “primi arrivati” e il controllo monopolistico delle imprese high-tech dei Paesi sviluppati sul mercato globale, in particolare attraverso il controllo dei dati. Abbiamo sottolineato la necessità di una regolamentazione della rete e degli scambi in rete nell’interesse pubblico, e norme più rigorose sui diritti umani, compresa la privacy, e che le nuove norme Wto avrebbero dato alle multinazionali i diritti di accesso a questi mercati limitando, al contempo, il ruolo degli Stati nella regolamentazione. Abbiamo sostenuto che tutte queste concessioni sarebbero state fatte ignorando le esigenze dei Paesi meno sviluppati, e delle aree meno sviluppate anche in quelli più ricchi, in termini di chiusura del divario digitale, delle infrastrutture, dell’accesso all’elettricità e alla banda larga, il potenziamento delle competenze.
Tutti prerequisiti la cui necessità ci è stata evidente anche in Italia in questo anno di pandemia, e di cui anche il Pnrr prende atto, me che non sono assolutamente considerati nella discussione del trattato: chi li paga? Con quale livello di proprietà/responsabilità? Com’era prevedibile, Big Tech vuole un diritto garantito e illimitato di raccogliere dati e archiviarli, trasferirli, elaborarli, utilizzarli, venderli e sfruttarli in qualsiasi parte del mondo o di vietarli quando vengono descritti come “localizzazione forzata” dei dati nel paese di origine. Vogliono, inoltre, che il commercio digitale sia esentasse, regolato e normato in modo del tutto specifico rispetto al resto del commercio e alle normative europee/nazionali, e che il trasferimento di prodotti digitali tra Paesi – musica, film, contenuti digitali i più vari – continui a essere libero da tassazione, regolazioni e limiti – eccettuata la protezione dei diritti di proprietà intellettuale – come è oggi.
Mai come alla luce della pandemia, però, emerge l’importanza dei dati come bene pubblico. La pubblica amministrazione, scuola compresa, ha fatto scarsissimo ricorso al software libero, nell’emergenza. La sconnessione delle aree non metropolitane, e delle fasce più povere della popolazione, è emersa con prepotenza come variabile dipendente dalla disponibilità economica di amministrazioni locali e persone anche in un recente rapporto “Auditel Censis”[x]. Eppure si oscilla tra luddismo e petizioni di principio al grido “banda larga per tutti”, senza alcune previsione di pianificazione, o di misurazione dell’inquinamento elettromagnetico connesso – pur necessaria -, o di riflessione su quanto sia necessaria la ripubblicizzazione della rete delle reti, e delle infrastrutture di connessione, e quanto sia indispensabile una valutazione politica pubblica e partecipata su che cosa sia davvero necessario digitalizzare e che cosa no, su che cosa sia necessario proteggere come diritto alla privacy e alla disconnessione.
Una Società che voglia mettere il paradigma della cura al posto del profitto non deve soltanto chiederselo, ma tessere alleanze con le forze già in campo per imporre il tema come discussione pubblica, ampia, informata e partecipata, coinvolgendo i media e i decisori politici. Per una nuova piattaforma politica da “Recovery Planet”, che sappia prevalere – in ragione di diritti e bisogni condivisi – sugli interessi protetti dalla politica delle piattaforme.
[i] https://www.agendadigitale.eu/infrastrutture/ripartenza-post-covid-gay-i-sette-assi-per-una-vera-politica-industriale-per-il-digitale/
[ii] Pnrr, testo approvato il 12 gennaio dal Consiglio dei ministri, P. 10
[iii] Ivi, p. 17
[iv] https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/blogposts/european-dimension-digital-economy
[v] https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/desi
[vi] https://www.wired.it/economia/business/2020/01/23/web-tax-europa-stati-uniti/?refresh_ce=
[vii] https://www.industriaitaliana.it/recovery-fund-ict-daveri-incentivi-trasformazione-digitale/
[viii] https://pop-umbrella.s3.amazonaws.com/uploads/83f0b3b9-516e-49d7-8753-8c668d4f8c95_2020_-_ASIA_DIG_REPORT__1_.pdf
[ix] https://ourworldisnotforsale.net/o/en/node/24715.html
[x] https://www.newslinet.com/web-societa-terzo-rapporto-auditel-censis-35-mln-di-famiglie-senza-uno-smartphone-totalmente-isolate-durante-il-lockdown/
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 45 di marzo-aprile 2021: “Recovery PlanET: per la società della cura”