di Gioacchino Toni
La messa in discussione, quando non direttamente la rimozione, dei diritti e delle conquiste sociali derivati da precedenti stagioni di lotta, la demolizione sistematica delle comunità, l’imposizione di un’esistenza sempre più precaria, lo sfruttamento selvaggio dell’ambiente naturale ed urbano, la sempre più marcata concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, l’impoverimento crescente della classe lavoratrice e lo sgretolamento progressivo della classe media, l’implosione delle forme democratiche tradizionali e della loro narrazione, hanno sempre più frequentemente messo settori sempre più allargati di popolazione di fronte al mero arbitrio del potere che ormai si rapporta con chi intralcia i suoi interessi esclusivamente attraverso l’esercizio della forza.
Molte delle proteste e delle lotte che si sono dispiegate negli ultimi tempi, al di là dell’elemento scatenante – che può essere l’ennesimo episodio di violenza poliziesca nelle periferie delle grandi città o un fenomeno di gentrificazione selvaggia nelle metropoli o di distruzione dell’ambiente ecc. – sembrano scaturire da un generale apriorismo economicista che non esita a soffocare ed eliminare tutto ciò che rallenta il suo cammino. Diversi episodi recenti di protesta sembrano essersi dati con una certa spontaneità, senza avere alle spalle una pianificazione vera e propria né un progetto di trasformazione ben preciso.
Come si è scritto nel volume dedicato alle crescenti forme di “guerra civile” che sembrano contraddistinguere l’epoca attuale e a venire, in uscita per Il Galeone Editore1, in un contesto segnato da una crescente proletarizzazione delle classe media e dalla diffusione di un proletariato marginale, appare limitativo guardare ai conflitti concentrandosi quasi esclusivamente sulla classe operaia tradizionale.
Se molte delle esplosioni conflittuali che si susseguono e si accavallano da qualche tempo da un lato palesano l’effettiva disgregazione di classe, dall’altro lasciano intravedere un reticolo di caratteristiche e iniziative dal basso che potrebbero costituire le fondamenta di una futura ripresa dell’antagonismo all’interno di fratture sociali che potrebbe dar luogo a inediti percorsi di iniziativa anticapitalista.
Al fine di comprendere meglio le dinamiche di alcune forme di rivolta urbana, che ormai da tempo si susseguo su scala internazionale, può essere utile ricorrere al recente volume di Vincenzo Ruggiero, Violenza politica. Visioni e immaginari (DeriveApprodi 2021) facendo riferimento in particolare al capitolo Folla e violenza di gruppo.
Secondo l’autore, l’analisi della violenza – condotta attraverso prospettive derivate dalla criminologia, dalla teoria sociale, dalle scienze politiche, dalla critica del diritto, dalla letteratura e, più in generale, dalle opere di finzione –, può contribuire a spiegare la formazione e la distribuzione sociali del potere nel corso del tempo. Nell’analizzare la violenza sistemica e istituzionale, i comportamenti delle folle, i tumulti, le sommosse e le rivolte, il terrorismo e la guerra, Ruggiero scorge nella violenza politica, oltre all’origine di alcuni dei pericoli che attraversano la contemporaneità, un potenziale di emancipazione e liberazione.
In alcuni momenti la mobilitazione collettiva, nel suo dar luogo a una nuova forma di comunione, permette la prefigurazione di un ordine sociale diverso rispetto a quello esistente. È possibile guardare all’effervescenza collettiva in una varietà di modalità che vanno dalla benevolenza all’avversione, con stati d’animo che variano dalla paura alla speranza. Si possono leggere i disordini con gli occhi di chi ritene le folle incapaci di produrre intelligenza, dunque di governare se stesse e la società. I criminologi positivisti, ad esempio, hanno visto nei combattenti della Comune di Parigi dei «criminali atavistici» in balia di una violenza irrazionale, mentre, da un’angolatura opposta, c’è invece chi ha colto nei comunardi il limite di essere stati fin troppo onesti e non sufficientemente criminali nei confronti del potere economico, e chi ha visto nel presentarsi sulla scena politica della folla un embrione di forma assembleare già di per sé significativa indipendentemente dalle richieste formulate.
Guardando razionalmente al ruolo della folla nella storia e ai motivi materiali che hanno dato il via alle rivolte, queste ultime possono essere lette come azioni propositive condotte da parte di chi intende migliorare la propria condizione di vita in un intrecciarsi di elementi derivati dall’esperienza storica e maturati durante l’azione stessa.
Guardando alle rivolte popolari occorre considerare tanto i fattori precipitanti che il malessere diffuso.
Le divisioni storicamente radicate danno origine a conflitti che sono cronici, legati ad esempio all’appartenenza a una classe sociale, un gruppo etnico o un credo religioso. Le rivolte, per questo motivo, diventano manifestazioni endemiche della vita sociale, anche se non producono necessariamente cambiamento. Le esplosioni collettive avvengono comunque con regolarità, si raggruppano nel tempo e nello spazio, e coinvolgono precisi gruppi sociali. Aggrediscono il terreno delle regole e quello dei valori, che mirano a proteggere, modificare o creare dal nulla. L’ostilità, tuttavia, può anche emergere dalle divisioni prodotte dagli stessi movimenti sociali, che separano la società in campi opposti e permettono a ognuno di attribuire all’altro la responsabilità per il proprio malessere. I valori si diffondono e i movimenti sociali si rafforzano soprattutto se sono disponibili dei canali comunicativi che preparano all’azione attraverso modalità informali o tramite la propaganda e l’agitazione organizzata. Il potere delle immagini e delle convinzioni è cruciale, come lo è l’efficacia della macchina comunicativa utilizzata. La presenza di “quadri dirigenti” è significativa, anche se queste figure un po’ tradizionali vengono spesso sostituite da reti ben funzionanti di attivisti. (pp. 53-54)
Il disagio e la rabbia delle folle possono esprimersi tanto attraverso azioni pacifiche quanto ricorrendo a devastazioni e saccheggi. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta alcuni indirizzi della criminologia hanno affrontato le rivolte a partire dalla convinzione che in ogni comportamento illegittimo sia individuabile un nocciolo politico; le violenze di massa esprimono bisogni politici e suscitano risposte a loro volta di natura politica. Nella violenza dell’azione collettiva è, inoltre, possibile vedere una pratica di autodifesa in risposta alle intimidazioni e alla violenza delle forze dell’ordine.
Nell’ambito della criminologia critica le rivolte tendono ad essere lette come atti prepolitici determinati dall’ingiustizia sociale. Altrettanto prepolitica sarebbe «la cultura consumistica rivelata dai saccheggi e dalla mancanza di strategie per il cambiamento che li denota. In questo caso, sebbene istigate dalla polizia, le rivolte vengono ritenute espressioni collettive di disperazione e nichilismo» (p. 54).
La rivolta di massa può anche essere vista come luogo di mutamento politico agito da chi non trova rappresentanza in ambito istituzionale. Ed è in strada che la folla agisce in nome di una causa o un’ingiustizia a cui desidera sia posto rimedio, così come è sempre in strada che si confronta con l’autorità statale.
In questa formulazione, lo scontro violento appare come prodotto secondario della lotta politica per il potere, mentre il rapporto tra folla e polizia definisce il profilo dello specifico contesto. L’azione collettiva, in questo modo, si adatta alle caratteristiche situazionali, mentre la scelta violenta dipende dai valori espressi, dall’autocontrollo, ma anche dalle dinamiche che si stabiliscono nelle interazioni tra gli attori coinvolti. (p. 55)
Al fine di verificare tale formulazione, Ruggiero passa in rassegna alcuni esempi di rivolte europee e statunitensi: Parigi 2005, Londra 2011 e da Ferguson a Minneapois 2020.
Tra ottobre e novembre 2005 la Francia è attraversata da una serie di rivolte scoppiate in seguito alla morte di tre giovani fulminati mentre tentavano di fuggire dalla polizia. La facilità con cui le rivolte dilagano facilmente, spiega Ruggiero, deriva, al di là dell’episodio scatenante, dall’accumularsi di episodi di brutalità poliziesca che colpiscono i sobborghi abitati soprattutto da migranti. Dopo alcuni giorni di disordini da parte di quella che l’allora Ministro degli Interni Sarkozy, con palesi connotati razzisti, definisce «feccia», si chiede ai prefetti di rispedire al proprio paese d’origine gli arrestati nonostante il loro essere in possesso del permesso di residenza in Francia e un inasprimento delle norme relative l’immigrazione. Gli agenti coinvolti nella morte dei tre giovani che ha dato il via agli episodi di ribellione vengono assolti dai tribunali francesi.
Nel novembre del 2011 a scatenare una rivolta condotta con incendi e saccheggi, dapprima a Londra, poi, grazie soprattutto ai social media, in diverse altre città inglesi, è l’uccisione da parte della polizia di un giovane nel quartiere di Tottenham. Il dibattito seguito agli episodi violenti si è concentrato sui problemi sociali, sui conflitti tra gruppi etnici e sul razzismo istituzionale dando luogo ad una serie di letture che vanno dal guardare alla condotta delle folle come espressione di «guasto morale collettivo» alla sottolineatura di come nei saccheggi non sia presente alcun elemento politico. Altre letture, pur condannando i saccheggi in quanto considerati atti di consumismo, preferiscono sottolineare come l’insistenza su tale aspetto finisca per celare il carattere espressivo e politico della violenza.
Nel 2014 è l’uccisione di un diciottenne afroamericano a Ferguson, Missouri, un sobborgo di Saint Louis, ad innescare le proteste di piazza a cui le autorità rispondono con reparti antisommossa e coprifuoco e, nuovamente con l’assoluzione degli uomini in divisa. Se la violenza poliziesca nei confronti degli afroamericani è un tratto permanente della storia statunitense, da qualche tempo gli episodi di brutalità ricevono però inedita attenzione e risonanza. Le proteste che si sono succedute sembrano avere modificato la percezione degli americani del razzismo radicato nelle loro istituzioni.
Ovviamente le recenti ribellioni di massa che hanno assunto carattere violento possono essere lette in diversi modi. In linea con la tradizione della criminologia critica gli insorti possono essere visti come attori prepolitici che necessitano di rappresentanti ufficiali e di una linea operativa, oppure è possibile vedere nel ricorso alla forza da parte della folla esempi di democrazia diretta, di autodifesa ecc. Certo è, sottolinea Ruggiero, che l’azione trasmette inquietudine e lo fa soprattutto quando a muoversi sono giovani esclusi in cui si ravvisa una certa «propensione al crimine». A preoccupare è «la loro apparente indolenza, la loro assenza dai mercati, la loro povertà relativa», queste appaiono come condizioni che possono spingerli alla rivolta.
Perennemente inattivi, alcuni individui e gruppi non posseggono i tratti rassicuranti del consumatore. Fare compere ha ormai raggiunto un valore non soltanto politico ma metafisico, poiché gli acquisti ci permettono di disegnare una sorta di mappa sociale e di stabilire, a volte inconsciamente, una gerarchia di identità e valori. Lo spazio del consumo, per altro, deve essere protetto e le cancellate devono essere visibili, mentre gli estranei vanno sfrattati. Tra questi ultimi, vi sono anche coloro che […] costituiscono una semplice minaccia estetica, tutte quelle minoranze che senza volerlo comunicano un senso di pericolo alla maggioranza che consuma, e che deve consumare senza essere disturbata. Non è un caso che la rigenerazione di centri urbani nel Regno Unito consista nella svendita degli spazi pubblici a chi li trasforma in spazi per il consumo, dove le catene dei dettaglianti non tollerano la presenza degli indolenti e dei poveri. Né stupisce che sia stato introdotto il delitto di “comportamento antisociale”, secondo cui i soggetti non desiderati vengono banditi da certi luoghi così come la sporcizia viene rimossa dalle strade. (p. 61)
Esclusi dal mercato e dall’agibilità dello spazio della strada, storicamente luogo di cambiamenti sociali per eccellenza, ai gruppi marginali è richiesto di
esprimere una sensibilità sociale che viene loro costantemente negata. Insomma, le percezioni della folla sono intimamente connesse alla paura del danno che può procurare agli esseri umani e alle cose, ma quello che principalmente si teme sono le conseguenze potenziali dello spaventoso aumento dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza alle quali la folla reagisce. (p. 62).
È possibile distinguere tra aggressività benevole e malevole; si fa riferimento al primo caso quando l’aggressività della folla è leggibile come risposta difensiva in reazione a soprusi, umiliazioni, ingiustizie o in reazione ad una limitazione della libertà.
Nel difendere interessi vitali, le folle mostrano di essere assertive e si rivelano in grado di perseguire obiettivi senza esitazione, dubbio o paura. La paura, al contrario, scaturisce dalle minacce di chi cerca di controllarle con la violenza, causando risposte aggressive o fuga. Quest’ultima rimane una scelta, quando rimane spazio per “salvare la faccia” ma, quando tale spazio viene annullato, la dignità viene obbligata a esprimersi attraverso modalità diverse. (p. 63)
Divenire aggressivi è una risposta efficace per liberarsi dell’estremo disagio che la paura comporta.
Innescata dalla polizia o dai dimostranti, questa violenza è di segno difensivo, come paradossalmente lo sono i saccheggi, spesso interpretati da chi li compie come difesa del proprio diritto al consumo. Non sono difensive né benevole, invece, le risposte istituzionali, che mettono in pratica un’ostilità nei confronti dei dimostranti maturata ben prima che questi diventino tali (p. 63)
Visto che i potenti possono vedere nella folla una minaccia ai loro interessi (privilegi), anche la loro violenza potrebbe per certi versi essere considerata di tipo difensivo. Allo stesso modo, continua Ruggiero, anche la folla può manifestare condotte «malevole» a partire dai rapporti che stabiliscono con altre forze sociali organizzate.
«Il potere sociale e l’attitudine al rischio delle classi privilegiate sono variabili centrali che determinano la loro criminalità. Queste classi abitano dei mondi generativi che si ispirano a valori antisociali come: concorrenza spietata, un senso di arroganza e un’etica del “dovuto”». (p. 63) Tali attori tendono a considerare legittimo il ricorso alla forza per difendere i propri interessi da chi osa metterli in discussione.
Affermare che la folla agisce con propositi politici, puntualizza Ruggiero, non significa sostenere che si è in presenza di un progetto politico. E se la folla può ignorare o promuovere uno specifico movimento sociale, questo ultimo ha invece bisogno della folla più di quanto questa ne abbia di lui. Nell’unirsi alle folle i movimenti sociali possono «presentarsi come portatori dei valori espressi nelle strade e incorporarli in un programma provvisorio ma organico» (p. 64).
Nel caso un movimento sociale operi nella sfera istituzionale, esso dispone di canali di comunicazione con le agenzie ufficiali e decisionali. In questo caso i nuovi reclutati e gli stessi attori più violenti apprenderanno la logica della contrattazione del movimento di cui fanno parte. I movimenti sociali non istituzionali tentano invece di assimilare a sé i soggetti più propensi all’azione diretta e meno inclini alla negoziazione. Le “avanguardie” di questi movimenti tenteranno di dare una finalità e un’organizzazione alla forza spontanea e disorganizzata delle folle, oltre che una crescente radicalità.
Da questo punto di vista, le forze esterne “soccorrono” le folle violente e le guidano in azioni più accortamente programmate. Allo stesso tempo, i gruppi politici violenti penseranno di godere di un mandato collettivo nell’uso della forza, e le daranno continuità, inscrivendo la violenza disorganizzata tipica delle folle in un progetto strategico di cui sono portatori. La violenza dei gruppi organizzati, allora, almeno nella razionalizzazione dei suoi membri, diventa un prolungamento della violenza delle folle che li legittima e implicitamente li sostiene. La violenza delle folle, tuttavia, può anche ricoprire un’altra funzione, ad esempio il rafforzamento dei sentimenti di conformismo tra coloro che la condannano. Questo accade quando la richiesta di criminalizzare le folle e i gruppi e i movimenti loro alleati si fa più insistente. Di conseguenza, lo spazio per l’azione collettiva si riduce e gli sconfitti cercheranno di individuare nuove procedure per raggiungere i propri obiettivi. (p. 65)
Quando le mobilitazioni dei gruppi sociali non riescono ad ottenere soddisfazione il meccanismo di criminalizzazione finisce per dividere il gruppo tra chi è disposto ad arrendersi alla sconfitta e chi è intenzionato ad una condotta più radicale passando da atti di violenza spontanea ad una programmata e strategica.
Questa traiettoria non viene determinata dalle carenze o dall’inefficacia delle istituzioni, ma dal tipo di interazioni che prevalgono tra le autorità e il dissenso. In altre parole, le agenzie del controllo sociale, nel rispondere alle esplosioni di ostilità, ne determinano l’ampiezza e la profondità. La repressione generalizzata, ad esempio, convince alcuni gruppi che i mezzi pacifici producono scarsi risultati. Fosse solo questione di forza, ogni forma di sfida all’autorità, probabilmente, potrebbe essere neutralizzata, vista la gigantesca disparità del volume di fuoco a disposizione delle forze in campo. La repressione, tuttavia, non neutralizza, ma distilla, seleziona: quando la folla, attraverso l’uso della violenza, non raggiunge alcun obiettivo, i gruppi sociali che la compongono adottano altre modalità d’azione. (pp. 65-66)
L’immagine di apertura è tratta dal film Les Misérables (2019) di Ladj Ly