L’anno del dragone

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Foto: Per una società della cura

di Marco Bersani, Attac Italia 

Il governo Draghi si è insediato in un tripudio di sostegno politico, istituzionale e massmediatico, trasversale e senza precedenti. Tra la spasmodica ricerca da parte di ciascuna forza politica del passo del suo discorso inaugurale da poter segnalare come propria impronta e la corsa all’agiografia degli opinionisti di ogni schieramento, pochi si cimentano su cosa questo passaggio significhi e vada a determinare per il futuro del Paese, preferendo disporsi in file ordinate ad eseguire il “dovere dell’unità”, richiesto, senza se e senza ma, dal nuovo Presidente del Consiglio.

É cambiato tutto? Non è cambiato nulla? E, soprattutto, per chi?

Proviamo ad enucleare alcune riflessioni in merito.

Un primo elemento di cambiamento, maturato durante la pandemia ma divenuto centrale con l’incarico a Draghi, è il passaggio da una fase rigidamente liberista del modello capitalistico ad una fase nella quale il capitalismo ha necessità di politiche espansive.

Vanno lette in questa direzione tanto la sospensione dei vincoli legati a patto di stabilità e pareggio di bilancio, quanto la fine dell’impedimento agli investimenti pubblici e alla spesa in deficit.

Si è, di conseguenza, chiusa la fase liberista del capitalismo ed è iniziata una stagione neo-keynesiana, dove l’austerità è sepolta e il problema sarà solo la destinazione della spesa, per cui avrebbe ragione chi dice “aspettiamo a giudicare, facciamolo lavorare”?

Non è così. Siamo in una fase spuria, tanto è vero che il telaio liberista è stato solo sospeso e il quadro con cui è iniziata la fase di spesa viene sottolineato come temporaneo e collocato in un orizzonte di futura ripresa della gabbia del debito e dell’austerità.

Ne fanno fede, tanto le dichiarazioni di totale collocazione all’interno di questo orizzonte europeo -considerato dunque immutabile- da Draghi, quanto il fatto che il via libera alle risorse per gli investimenti si accompagni a stanziamenti insufficienti, forti condizionalità, nuova enfasi sul problema del debito pubblico e un ruolo dello Stato concepito unicamente come leva finanziaria per il rilancio delle imprese.

Per dirla con una metafora, se la pandemia ha mandato in cortocircuito il pilota automatico dei mercati, Draghi è il pilota umano con il compito di spendere oggi per ripristinare il pilota automatico domani.

Questo non significa che tutto sia uguale a prima, perché è evidente l’ingresso in una diversa fase: che siano soldi italiani o europei, ordinari o aggiuntivi, frutto di trasferimenti o sotto forma di prestiti, con maggiori o minori condizionalità, è iniziata una stagione di spesa e di investimenti, un periodo nel quale alle rivendicazioni sociali non si potrà più rispondere con il mantra “c’è il debito e il patto di stabilità, non ci sono i soldi”.

La domanda diventa la seguente: per farne cosa?

I peana sui termini usati da Draghi nel discorso d’insediamento si sono sprecati: coesione sociale, transizione ecologica, formazione, parità di genere, mezzogiorno e via cantando. Ma se dalle enunciazioni scendiamo ai fatti concreti -la composizione del governo- la realtà diviene più chiara.

Va in primo luogo notato come si sia in presenza di due governi in uno: da una parte ci sono i ministri “tecnici”, scelti direttamente da Draghi e chiamati ad occupare tutti i posti chiave della gestione dei fondi del Next Generation Ue (Economia, Transizione Ecologica, Digitalizzazione, Infrastrutture, Istruzione, Università, Giustizia), dall’altra i ministri proposti dai partiti, in un’accozzaglia che va dai rimasugli del recente governo Conte agli “a volte ritornano” dei Brunetta, Carfagna, Gelmini.

Una sorta di gioco delle parti, nel quale sono riservate alla tecnocrazia le scelte di destinazione dei fondi (Recovery Plan), mentre è delegata ai partiti (Recovery Clan?) la gestione degli effetti delle stesse (lavoro, salute, servizi sociali).

 Quale messaggio si manda con questa composizione? Che le scelte saranno oggettive perché basate sulla competenza e validate dal mercato, mentre sarà compito del “pubblico” gestirne le conseguenze sociali.

Ciò è tanto più vero, se consideriamo l’inequivocabile direzione che il governo Draghi intende dare a questi investimenti. Scorriamoli brevemente.

Lavoro

Qui entra in campo la cosiddetta “distruzione creativa”, secondo la quale non tutte le aziende vanno salvate, bensì solo quelle redditizie e in grado di competere sui mercati internazionali. Saranno il mercato e il sistema bancario-finanziario (opportunamente sostenuto da risorse e garanzie pubbliche) a decidere chi salvare e chi buttare dalla torre, perché sono gli unici a possedere l’expertise necessaria a giudicare. Quanto alle persone che in questo processo perderanno il posto di lavoro, il massimo che si potrà mettere in campo saranno percorsi che ne intensifichino l’occupabilità (leggi: obbligo ad accettare qualsiasi impiego a qualsiasi condizione).

 Transizione ecologica.

Nel nuovo governo spicca la creazione -molto massmediatica- del Ministero alla Transizione Ecologica. Ci si aspetterebbe una rivoluzione, perché non ci vuole un fisico (bestiale?) per sapere che “transizione” significa passaggio di un elemento da uno stato ad un altro, processo che comporta una radicale trasformazione. Senza questo approccio trasformativo, il tutto si riduce ad un semplice adattamento/modernizzazione dell’esistente.

Come reso evidente dagli incarichi assegnati per questo e per altri posti-chiave (Cingolani alla Transizione Ecologica, Colao all’Innovazione Tecnologica, Giovannini alle Infrastrutture), nessuna conversione ecologica della società è all’ordine del giorno, bensì una modernizzazione in chiave green e digital dell’attuale predazione della natura. Un programma di governo nel quale, in direzione ostinata e contraria a quanto sarebbe necessario, l’ecologia sarà messa al servizio dell’economia.

Giustizia sociale.

Nel discorso di Draghi si nomina più volte l’intollerabilità della diseguaglianza sociale, esacerbata dagli effetti della pandemia, ma le linee guida di una riforma della fiscalità, oltre che grossolanamente fotocopiate dall’ultra-liberista Francesco Giavazzi, hanno del surreale, in quanto finalizzate all’obiettivo della riduzione della pressione fiscale basata su una doppia azione: l’abbassamento dell’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito e l’innalzamento della soglia di esenzione (modello danese). Nuovi favori ai ricchi (ancora?), qualche elemosina ai poverissimi, dentro un contesto di riduzione generale delle entrate fiscali a disposizione dello Stato.

Istruzione e formazione

Aldilà dell’enfasi sull’importanza delle giovani generazioni, della loro crescita educativa e culturale, la soluzione prospettata è interna al binomio digitalizzazione-impresa: ammodernamento e tecnologizzazione dei percorsi educativi, con un aggancio diretto dei bisogni formativi alle esigenze delle aziende.

 Mezzogiorno.

In una compagine di governo che conta 18 ministri provenienti dal nord (13 solo da Lombardia e Veneto) su 23 complessivi è evidente su quale piatto della bilancia sia stata posto il peso. Il Mezzogiorno, enunciato a più riprese come questione centrale, viene liquidato con un’analisi che dire obsoleta è un eufemismo. L’unico impegno politico dichiarato dal nuovo governo è il contrasto alla criminalità organizzata, come se solo in quello si riassumesse la questione meridionale e come se non fossero ormai decenni che colletti bianchi e capitali finanziari hanno sostituito, in tutta la penisola, tanto la coppola quanto la lupara.

Approccio di genere

Non manca il riconoscimento del problema e anche alcune critiche ad una finta parità algoritmica, ma se la soluzione è cercata nelle “pari opportunità di competere” significa non aver compreso nulla di decenni di sguardo femminile e femminista sulla società, cui la pandemia ha dato drammaticamente ragione.

Da ultimo, ma non per importanza, vale la pena riflettere sull’ulteriore vulnus alla democrazia rappresentato dal governo Draghi e dalla subalternità quasi unanime raccolta dall’arco parlamentare, dalle parti sociali e dalle istituzioni di ogni ordine e grado.

Giunge all’ultimo stadio una crisi politico-istituzionale in corso da decenni e una trasformazione del “pubblico” a tutti i livelli, da garante dell’interesse generale a facilitatore della penetrazione degli interessi forti dentro la società; il cosiddetto partenariato pubblico-privato, nel quale al primo toccano tutti gli oneri e al secondo tutti gli onori (profitti).

I segnali di una gestione ancora più autoritaria dei conflitti sociali ci sono tutti e richiederanno più di una particolare attenzione.

In definitiva, ciò che Draghi e l’insieme dei variegati interessi che lo sostengono continuano a non comprendere è la profondità delle faglie aperte dalla pandemia nella narrazione dominante.

Dentro la strage della generazione anziana, dentro l’autoreclusione e il distanziamento come modalità di relazione, dentro il precipizio collettivo nella precarietà è stata messa irreversibilmente a nudo l’assurdità di teorie basate sull’economia come motore del benessere sociale, sulla predazione come attività di relazione con la natura, sulla competizione come dimensione esistenziale.

Oggi, forse per la prima volta, diviene manifesto come il diritto alla vita e al futuro richiedano la rivoluzione della cura, della redistribuzione e della democrazia, invece del potere di profitti, accentramento e oligarchia.

É giunto il momento che le decine di migliaia di persone già oggi attive dentro nuove pratiche  pongano collettivamente la sfida per l’alternativa di società.

C’è troppo poco tempo per essere moderati.

 

 

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