Verso una democrazia della cura

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Photo credits: “Venezia panni stesi 5” by maresogno67 is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

di Marco Deriu (Associazione per la decrescita e Maschile Plurale)

Nell’ultimo anno, la pandemia di Covid-19 ha obbligato a riconoscere “la cura” come tema centrale della società e della politica, ovvero come questione fondante del nostro benessere e della qualità della vita, ma anche come determinante della salute e della sicurezza. Quindi come base e porta di accesso a tutto il resto: lo studio, l’economia e la produzione, l’arte e la cultura, lo sport e il divertimento, gli affetti ecc.  Non è stata però la pandemia, ovvero una situazione d’emergenza, a produrre tale “centralità”. Essa si è limitata a disvelarla. Potremmo addirittura rovesciare la cosa e dire che l’impatto della pandemia è il risultato di una sottovalutazione della centralità della cura nelle nostre società ed economie e di decenni di politiche pubbliche neoliberiste che hanno indebolito la medicina di base e più in generale quelle infrastrutture sociali che aiutano a sostenere la vita.[i]

La cura è sempre stata una dimensione fondante di qualsiasi comunità umana e politica. Ma questa centralità è storicamente occultata. Essa è stata considerata come uno sfondo sottinteso e invisibile sul quale potesse stagliarsi una certa immagine dell’uomo e del cittadino, attivamente impegnato nel lavoro produttivo o politico. Poco importa che questo mito nasconda fra le altre cose il fatto che ogni cittadino nasce da un grande lavoro di cura e di accompagnamento nello sviluppo, nella maturazione, nell’educazione, nei bisogni di sostegno e accudimento quotidiano.

Come sottolineava Carol Pateman nel suo classico testo Il contratto sessuale,[ii] la filosofia politica patriarcale ci ha trasmesso e consegnato fin dall’antichità un modello di società civile divisa in una sfera pubblica, luogo della libertà civile e della politica, e una sfera privata, legata alla cura e alla riproduzione “naturalizzata” e depoliticizzata. Dunque, la nostra immagine della politica e della libertà, come la nostra immagine dell’economia e della produzione, non contemplano veramente il lavoro di cura.

Se questa divisione ha una storia antica, d’altra parte l’avvento del capitalismo ha rappresentato uno spartiacque fondamentale. La stessa accumulazione capitalistica, come ha sottolineato Maria Mies, è in buona parte fondata sul lavoro invisibile delle donne e sul lavoro di sussistenza dei contadini e della cosiddetta “economia informale” assai diffusa soprattutto nel sud del mondo.[iii]

Il modello della crescita capitalistica ha dato valore e messo al centro della scena la produzione di merci, di oggetti, servizi, prestazioni economiche e finanziarie, purché utili alla creazione di profitti, mentre ha esternalizzato le necessità di riproduzione e di rigenerazione dei lavoratori e delle famiglie, e oscurato il complesso e articolato lavoro di mantenimento della qualità della vita, delle dimensioni relazionali di ricchezza, di condivisione e reciprocità, nonché l’importanza dello scambio di beni e servizi in una rete di relazioni al di fuori del mercato.

L’invisibilizzazione del lavoro di cura e di riproduzione ha significato la svalutazione del contributo femminile al benessere, alla società e all’economia, potremmo dire senza timore di esagerare, allo sviluppo della civiltà. Ha anche rappresentato un modello di integrazione sociale basato su una implicazione limitata e mutilante poiché presuppone comunque un’asimmetria sia economica che politica. In termini economici – ha sottolineato Maria Mies -, lo stesso lavoro produttivo femminile è meno riconosciuto pubblicamente ed economicamente (a parità di mansioni con gli uomini) perché in una logica di “housewifeisation” (letteralmente casalinghizzazione) è considerato ancora un’estensione dei “primari” compiti domestici delle donne e dunque semplicemente un reddito aggiuntivo, e un supporto al ruolo economico del maschio produttore.

Non solo il lavoro di cura non è contabilizzato nel Pil o negli altri indicatori macroeconomici o nei modelli di benessere e di sviluppo, ma esso non è mai stato qualcosa che ha segnato o indirizzato il senso della politica, della gestione degli affari pubblici, non ha mai informato il modello di governo democratico delle nostre società. Anche nella sfera politica la partecipazione delle donne è subordinata ad un adattamento a spazi, forme, tempi e logiche maschili, in gran parte svincolati da una responsabilità nell’impegno di cura quotidiano.

L’altra faccia di questo modello, dunque è che la svalorizzazione e la mercificazione del lavoro di cura producono una realtà economica e politica immiserita. Cosa ci perdiamo se non siamo capaci di trasferire nella nostra sensibilità e visione politica ed economica, un intero campo di esperienze psicologiche, relazionali, affettive e intellettuali di cura, legate alla condivisione della nostra interdipendenza, della nostra vulnerabilità, al riconoscimento e all’accoglienza di bisogni, desideri e aspirazioni? Ovvero tutto quel sottile e complesso tessuto di ascolto e attenzioni col quale si imbastisce e si annoda quotidianamente la trama della vita, dalla nascita alla morte?

Come ha notato Joan C. Tronto «essere un cittadino in una democrazia è prendersi cura dei cittadini e prendersi cura della democrazia stessa».[iv] La sfida è dunque passare dalla cura come un destino delle donne o dei precari a qualcosa che qualifica il nostro essere cittadini. Una sfida che interpella anche gli attivisti dei movimenti ecologisti, della decrescita, dell’economia solidale. Reinventare una partecipazione democratica significa immaginare cittadini/e che si impegnino a ricomporre, a partire dalla propria esistenza quotidiana, lo spazio e il tempo della cura dei bambini, degli anziani, dei malati, delle persone in generale, fino alle comunità e agli ecosistemi con i diversi esseri viventi che li abitano. Un impegno e una tensione che non è solo fatica, ma è anche compartecipazione appassionata e intelligente alla cura e alla rigenerazione della vita e delle relazioni. Una ricerca di integrità e complessità che riguarda anche una percezione diversa del proprio essere nel mondo in una fitta rete di relazioni sociali ed ecologiche. Mai come oggi – di fronte alla crisi sanitaria, climatica, economica e sociale, sentiamo che ambiente, salute, cura, lavoro, produzione e riproduzione sono tutti aspetti intimamente connessi. Prendersi cura del mondo attorno a noi, prendersi cura degli altri e prendersi cura di noi stessi, sono parte di un lavoro politico e comunitario.

«Ciò che è in crisi, da ben prima dell’arrivo del Coronavirus – ha scritto Giorgia Serughetti – è la capacità dei singoli e delle comunità di generare e crescere figli, di curare le persone disabili e anziane, di proteggere la salute propria e dei propri cari, di alimentare i legami personali e sociali, di partecipare alla vita della propria comunità».[v]

In questa situazione occorre dunque ripoliticizzare la cura. Per lungo tempo la democrazia è stata concepita – soprattutto da uomini – come ampliamento della partecipazione delle persone in termini di procedure decisionali e di meccanismi di distribuzione e controllo del potere. Negli ultimi anni diverse pensatrici femministe stanno invitandoci a ripensare la democrazia in termini di ampliamento della partecipazione delle persone, di coinvolgimento e distribuzione delle responsabilità e delle pratiche di cura.[vi]

Non che questi aspetti – democrazia, potere e cura – siano separati. Anche nell’ambito della cura c’è una questione di asimmetrie e di potere. Ma pensarli assieme permette di coglierne le implicazioni reciproche in un’ottica più complessa e non riduttiva.

Basta guardare a quello che è successo con il Covid-19 e le politiche sanitarie e di prevenzione, che hanno messo in luce profonde diseguaglianze rispetto al rischio, all’esposizione, alla protezione e all’impatto. Donatella di Cesare, per esempio, ha paventato il pericolo di una “democrazia immunitaria”: «La condizione d’immunità riservata agli uni, i protetti, i preservati, i garantiti, viene negata agli altri, agli esposti, i reietti, gli abbandonati».[vii]

Certamente in questa emergenza garanzie e sacrifici non sono stati equamente distribuiti. La pretesa di protezione e immunizzazione per una parte della popolazione implicava che altri continuassero a lavorare e a correre dei rischi proprio per assicurare la tranquillità dei primi. Anche nei momenti di lockdown e di quarantena più rigida, una serie di categorie di lavoratori – medici, personale infermieristico e sanitario, giornalisti, postini, riders, dipendenti dei supermercati e botteghe alimentari, braccianti agricoli, tecnici delle comunicazioni ecc. –, hanno dovuto continuare a lavorare e a rimanere maggiormente esposti al rischio per minimizzare l’esposizione di altri. Senza parlare dei rifugiati, degli homeless, degli sfrattati, di tutti coloro che non avevano assicurato nemmeno un rifugio dove isolarsi.

Ma queste diseguaglianze non sono solo indizio di cattive politiche o di errori di previsione. Rivelano un vulnus nel pensiero e nelle pratiche di democrazia e di cura. Abbiamo bisogno di una visione della cura che implichi in sé la questione della democrazia e di una visione della democrazia che implichi in sé la questione della cura. Occorre quindi spostare la cura da una dimensione privata o anche solo familistica a una dimensione politica di responsabilità pubblica e comunitaria. La costruzione di forme più cooperative di riproduzione – ha scritto Silvia Federici – è «la condizione non solo di una “vita degna di essere vissuta” – la rivendicazione oggi di vari movimenti femministi e non – ma anche della resistenza all’avanzare dei rapporti capitalisti e della creazione di una società non subordinata alla logica del profitto e del mercato».[viii]

Allo stesso tempo occorre ripensare la democrazia come un’istituzione di senso che si occupa di promuovere una distribuzione democratica delle cure e al tempo stesso una partecipazione di tutti non solo alle decisioni ma anche allo stesso lavoro di cura nelle sue più diverse forme ed espressioni.

[i] Mario Agostinelli, Coronavirus ed emergenza climatica, Castelvecchi, Roma, 2020, p. 40.

[ii] Carole Pateman, Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma, 1997

[iii] Maria Mies, Patriarchy & Accumulation on a World Scale. Women in the International division of labour, Zed Books, London, 1998, p. ix.

[iv] Joan C. Tronto, Caring democracy. Markets, Equality, and justice,  New York University Press, New York, 2013, p. X.

[v] Giorgia Serughetti, 2020, Democratizzare la cura / Curare la democrazia, nottetempo, Milano (e-book)

[vi] Joan C. Tronto, Who cares?. How to reshape a democratic politics, Cornell University Press, Ithaca, 2015, p. 13.

[vii] Donatella Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino, 2020 p. 34.

[viii] Silvia Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, Mimesis, Milano, 2018, p. 13.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 45 di marzo-aprile 2021:  “Recovery PlanET: per la società della cura

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