di Sandro Moiso
Diego Gabutti, Il grande Sly. Film e avventure di Sylvester Stallone, eroe proletario, Milieu edizioni, 2021, pp. 174, 1,90 euro
Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 1931, i membri della Workers Film and Photo League potevano scrivere su “Experimental Cinema” (una rivista redatta da Jan Leyda, David Platt e Seymour Stern e ricollegabile al Partito Comunista degli Stati Uniti) che: «Movie must become our weapon (il film deve diventare la nostra arma)». Nel frattempo quel cinema e quei film che gli autori del vecchio articolo avrebbero voluto virare in chiave di rivendicazione proletaria hanno cambiato più volte colore e non soltanto per il passaggio dalle pellicole in bianco e nero a quelle in technicolor e, per finire, al digitale.
Anche il cambiamento dell’eroe proletario non è stato di poco conto. Da Tom Joad a Rambo il salto non era facilmente prevedibile ai tempi della grande crisi, anche se il secondo sarebbe uscito dritto dritto dalle pagine di First Blood, un romanzo di David Morrell pubblicato in America nel 1972 e in Italia, da Feltrinelli, nel 1973. Una vicenda destinata a simboleggiare il dramma di una generazione di reduci che, alla fine di un allucinante apprendistato durante la guerra in Vietnam, si ritrovò carica di medaglie e disturbi mentali, ma priva di diritti reali.
Non solo, però, poiché il libro scritto da Diego Gabutti, con la solita arguzia ed ironia, e pubblicato da Milieu, con un ricco e spesso divertente apparato iconografico, ci ricorda come proprio intorno alla e dalla figura di eroe proletario dipinta nei film che hanno visto Sylvester Stallone (Sly) sia come interprete che come ideatore abbia avuto inizio ciò che è attualmente definibile come action movie. Se qualcuno, poi, si scandalizzasse davanti alla definizione di eroe proletario qui, e nel libro, utilizzata a proposito dei personaggi interpretati da Sly val forse la pena di ricordare che la migliore cinematografia americana degli anni ’70 produsse sì una gran quantità di film dallo spirito nettamente antagonista, ma anche che in quei film “di contestazione” quasi sempre i protagonisti erano studenti oppure drop-out ed emarginati di vario genere, più facilmente riconducibili al proletariato marginale che non a quello (bianco) di fabbrica. L’unico ad avere al suo centro tre figure di operai piuttosto incazzati è il celebre Blue Collar (1978) di Paul Schrader, con Richard Pryor e Harvey Keitel, liberamente tratto dalla crime story Across 110th Street di Wally Ferris (1970)1, in cui le “scelte” proletarie bianche e nere danno il via a una girandola di violenze, inseguimenti, tradimenti e fughe verso impossibili lidi di benessere. In qualche modo, quindi, ad un primo action movie, in questo caso vagamente politicizzato, in cui il fondamento è dato da una insoddisfazione “di classe” accompagnata da una scelta irreversibile, destinata a sfociare nella violenza e nell’azione.
In fin dei conti il trucco stava già nel fatto che, a differenza del romanzo di David Morrell, nel film di Ted Kotcheff del 1982 Rambo non sarebbe morto. Permettendo così quella trasformazione dell’eroe di origini proletarie in eroe seriale che poi avrebbe costituito uno degli aspetti più noti della carriera di Sylvester Stallone. Rambo, Rocky (e ci scusiamo qui di aver fatto sì che il reduce sembri precedere il pugile, considerato che il secondo fu il protagonista del film di John G. Avildsen già nel 1976) e il Barney Ross de I mercenari (The Expendables 1, 2, 3, 4…) che, però, già rimette iconoclasticamente in discussione, quasi distruggendolo dall’interno, lo stesso genere.
Con il suo solito stile, irridente e irriverente, Gabutti ci guida dai gangster, eleganti e raffinati, in smoking del cinema muto a quelli “con la faccia sporca” del cinema di James Cagney e Edward G. Robinson degli anni della Grande Depressione, quando il codice Hays2 vietò, in un momento storico in cui i rapinatori di banche alla Dillinger erano vissuti negli Stati Uniti come autentici eroi3 dal proletariato e dai piccoli agricoltori caduti in disgrazia, la realizzazione di film nelle cui vicende i gangster potessero essere i vincitori oppure gli autentici eroi.
Quei proletari e piccoli farmer che, come i personaggi di Steinbeck (il cui romanzo sulle conseguenze sociali della grande crisi e delle tempeste di polvere fu pubblicato nel 1939) portati sullo schermo da John Ford nel 1940, erano sempre e comunque bianchi, così come il volto di Henry Fonda destinato a diventare quello di Tom Joad, il protagonista di Furore. Inutile non vederlo oppure ricordarsi che in altri due romanzi dello stesso Steinbeck, Pian della Tortilla (1935) e Vicolo Cannery (1945), ai poveri emarginati bianchi della California si sarebbe aggiunto qualche immigrato o vecchio residente messicano.
Le vicende che porteranno Sly, che poco o nulla aveva di proletario nella sua storia personale, da un cinema di serie Z blandamente pornografico, che lo rese celebre come Italian Stallion, oppure in cui si narravano le vicende di un confuso hippy- terrorista, alla celebrità sono ricostruite dall’autore, che non manca mai di sottolineare la novità rappresentata comunque dalla cinematografia “stalloniana” nella reinvenzione del cinema destinato al vasto pubblico del consumo di massa.
Niente di raffinato o sperimentale, per carità, ma una narrazione molto vicina al cuore profondo di un’America bianca, spesso lontana dal potere reale ma ancora illusa da sogni di grandezza ormai morti e sepolti, di cui, anche dopo l’assalto a Capitol Hill nel giorno della Befana, ci sfuggono i contorni (e la storia). Ma che nei suoi film l’attore ha saputo benissimo interpretare o, almeno, ha saputo dare un volto riconoscibile e in cui riconoscersi.
Forse il miglior riconoscimento per Stallone e il suo cinema potrebbe essere quello di aver costituito, prima dell’avvento di Donald Trump con il suo Make America Great Again, il grande premio di consolazione per “una classe operaia che fu”, anche se non sono pienamente convinto che Diego possa accettare tale definizione per l’oggetto della sua indagine.