“I centri di detenzione nel nord dello Yemen? Il personale delle organizzazioni internazionali con cui ho parlato li descrive come dei posti inumani, dove i migranti sono tenuti come bestie e dove sono continuamente vittima di estorsione. In alternativa, gli viene offerta la possibilità di diventare carne da macello”. Per la rubrica Schegge di Yemen, proponiamo un’intervista ad Andrea Carboni, ricercatore alla School of Global Studies della University of Sussex e Armed Conflict Location & Event Data Project. Un’occasione per capire meglio i tasselli della crisi umanitaria yemenita, soffermandosi sulla questione migratoria e sulla gestione degli aiuti umanitari. La crisi – spiega Carboni – potrebbe peggiorare ulteriormente se l’escalation del fronte più caldo del conflitto, la battaglia per Ma’rib, dovesse portare ad un esodo di sfollati senza precedenti.
FC: Un report di Human Rights Watch racconta che il 7 marzo i migranti detenuti in un centro a Sana’a, in mano agli Houthi, hanno deciso di organizzare uno sciopero della fame come protesta contro le condizioni di detenzione, tra cui il sovraffollamento del centro e l’insufficienza di cibo e acqua. Gli Houthi, secondo le testimonianze dei sopravvissuti, hanno reagito allo sciopero sparando esplosivi all’interno del centro. L’incendio che ne è conseguito ha portato alla morte di decine di migranti. Cosa puoi dire sulla questione migratoria in Yemen?
AC: Nel paese arrivano tantissimi migranti, soprattutto etiopi, che vi transitano per cercare di andare in Arabia Saudita. Basta prendere in mano una mappa per capire che il Gibuti e lo Yemen sono vicinissimi. Arrivano in Yemen facilmente ma non riescono mai a passare il confine saudita perché vengono bloccati prima. Finiscono nelle mani di milizie tanto nel sud quanto nel nord del paese. Nel nord, al confine con l’Arabia Saudita, sono gli Houthi che hanno preso in mano l’agenzia che prima della guerra si occupava di migrazione e ora, sotto questa autorità, gestiscono i centri di detenzione.
Fonte: Organizzazione Internazionale per le migrazioni. Preso da https://migration.iom.int/reports/yemen-%E2%80%94-flow-monitoring-points-non-yemeni-migrant-arrivals-and-yemeni-returnees-january-2021
FC: Come sono questi centri?
AC: Il personale delle organizzazioni internazionali con cui ho parlato li descrive come dei posti inumani, dove i migranti sono tenuti come bestie e dove sono continuamente vittima di estorsione: se vogliono essere liberati devono pagare cifre pari a 200-300 dollari. E visto che i migranti sono migliaia, gli Houthi possono guadagnare diverse centinaia di migliaia di dollari ogni mese. Come alternativa, ai migranti è offerta la possibilità di combattere per gli Houthi, il che vuol dire morte certa dal momento che vengono usati come carne da macello impiegata nel conflitto per sfinire gli avversari. Quando infine gli Houthi non trovano più alcuna utilità nell’averli, li rispediscono al sud. A quel punto, entrano nelle mani del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, che li prende e li rimpatria. Oppure è anche successo che i migranti venissero spinti al confine con l’Arabia Saudita, dove sono stati uccisi dai proiettili degli stessi Houthi, che se ne volevano sbarazzare, ma anche dei sauditi, che non volevano farli entrare nel paese.
FC: Eppure non arrivano molte notizie nei media italiani.
AC: Le notizie arrivano raramente perché questi migranti non vengono in Europa, per cui tutta la copertura mediatica che è nata ad esempio per i siriani, non si è replicata per gli yemeniti né per gli etiopi che cercano di transitare in Yemen.
FC: La situazione dei migranti è uno dei tasselli che compongono il puzzle della crisi umanitaria yemenita. In una recente intervista pubblicata su Globalproject, Helen Lackner è stata molto critica sui tagli che molti paesi hanno fatto agli aiuti internazionali per lo Yemen. Potendo confrontarti anche con le organizzazioni internazionali attive nel paese che elementi puoi aggiungere a questo quadro?
AC: Il taglio dei fondi internazionali è una delle cause che incidono sulla crisi umanitaria. Questa però è anche, forse soprattutto, un effetto della crisi economica. Nel senso che in alcune parti dello Yemen non c’è un problema di approvvigionamento di beni; il problema è che, più spesso, le persone non hanno i mezzi per acquistarli. Il Riyal, la moneta yemenita, si è indebolita considerevolmente durante la guerra per vari motivi. Tra questi, il fatto che la banca centrale è stata divisa, le riserve monetarie sono diminuite, come sono diminuite anche le rimesse degli yemeniti all’estero o i salari che non vengono pagati. Quindi molte persone sono senza soldi oppure i soldi che hanno non valgono molto a causa dell’inflazione.
Nel nord controllato dagli Houthi la crisi umanitaria ha poi ulteriori dimensioni. Gli Houthi hanno infatti imposto uno stretto controllo su come vengono utilizzati gli aiuti umanitari allo scopo dichiarato di combattere la corruzione e gli sprechi. In realtà, la gestione e distribuzione degli aiuti umanitari è in primo luogo una fonte di potere sulle organizzazioni umanitarie e sulla popolazione locale. Diverse inchieste hanno portato alla luce, ad esempio, che gli Houthi distribuiscono gli aiuti umanitari a fasce della popolazione a loro vicine, o comunque non ostili, oppure in cambio di soldati da mandare sul fronte. Oltre a ciò, controllare gli aiuti umanitari nel nord dello Yemen significa controllare una delle più ingenti entrate economiche dopo le rimesse degli yemeniti dall’estero.
FC: E il blocco navale imposto dalla coalizione saudita come influisce sul flusso di aiuti umanitari?
AC: La coalizione a guida saudita ha imposto un blocco aereo, navale e di terra con il fine principale di ostacolare il commercio di armi verso il nord dello Yemen. Il blocco è stato allentato a partire dal 2018, ma comunque fa sì che alcuni beni – come la benzina, farmaci e derrate alimentari – arrivino effettivamente in Yemen con grandi ritardi e difficoltà.
Gli Houthi accusano quindi la coalizione a guida saudita di essere la responsabile principale della crisi umanitaria in Yemen. La questione però è meno netta di come la descrivono gli Houthi. Esiste sicuramente il blocco, ma a questo bisogna aggiungere il fatto che gli Houthi spesso impongono tasse extra per accedere a quei beni. Senza contare la corruzione dilagante nella distribuzione di questi prodotti che fa sì che molti yemeniti non possano nemmeno accedere agli aiuti.
FC: Nel nord quindi le organizzazioni lasciano gli aiuti nelle mani degli Houthi senza controllarne l’utilizzo e la distribuzione?
AC: Alcune organizzazioni umanitarie hanno dovuto accettare un compromesso, e cioè che per operare nel nord dello Yemen bisognasse lasciare la gestione e la supervisione degli aiuti agli Houthi, pena una catastrofe umanitaria di proporzioni ancora più grandi. Ci sono alcuni casi, come quello di World Food Program e di USAID, in cui queste organizzazioni hanno parzialmente sospeso le proprie attività anche perché gli Houthi non accettavano di lasciare il controllo sulla distribuzione degli aiuti.
FC: Questo vuol dire che le organizzazioni non sanno quello che succede sul campo?
AC: Vuol dire che le organizzazioni umanitarie in Yemen lavorano in un contesto di grande complessità. Non solo si trovano a fronteggiare una crisi umanitaria di enormi proporzioni in un contesto di conflitto attivo, ma le autorità tanto nel nord quanto nel sud impongono ostacoli amministrativi che rendono il loro lavoro ancora più difficile.
In certi casi, esiste anche un problema di raccolta dati. Alcune aree del paese sono tutt’oggi difficili da raggiungere per cui conoscere con esattezza quante persone abbiano bisogno di aiuti, quante siano a rischio di malnutrizione o quanto sia ampia la diffusione di malattie come il colera o il Covid-19 è spesso impossibile.
FC: La distribuzione nel sud è più facile?
AC: Sia nel nord che nel sud, il numero di restrizioni che le organizzazioni internazionali e locali devono fronteggiare è enorme. Se nel nord il territorio, e quindi gli aiuti, è sotto lo stretto controllo degli Houthi, nel sud prevale la frammentazione. Far arrivare gli aiuti è quindi più difficile perché dopo aver raggiunto un accordo di massima con il governo devi avere a che fare con una miriade di attori locali per le questioni più operative. Nel sud però il governo riconosciuto internazionalmente è più ricettivo alla cattiva pubblicità legata agli aiuti umanitari. Se qualcosa va male, le organizzazioni internazionali hanno più margine di manovra per esercitare pressione. La distribuzione e l’utilizzo degli aiuti è quindi più controllata.
Al di là di tutto questo c’è poi un’altra questione, che potrebbe peggiorare in modo molto grave la situazione umanitaria.
FC: Quale sarebbe?
AC: Le possibili conseguenze dell’escalation militare di quello che è il fronte più importante del conflitto, ovvero la battaglia per la città di Ma’rib. La presa della città da parte degli Houthi potrebbe portare ad un esodo di persone mai visto prima nel paese. Bisogna infatti capire che Ma’rib è una città che è cresciuta tantissimo negli ultimi anni soprattutto per l’afflusso di sfollati yemeniti provenienti da altre province del paese. Per effetto di questo afflusso, il numero di abitanti nella provincia di Ma’rib è cresciuto in modo esponenziale. Questa è passata dai circa 300.000 abitanti del 2014 a 3 milioni e solo la città da 30-40.000 a 1.8 milioni. Già ora, con il conflitto alle porte della città, decine di migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni.
FC: Qual è la situazione ora a Ma’rib?
AC: Premetto che al momento è il fronte più caldo ed importante della guerra. La battaglia è esistenziale per il governo internazionalmente riconosciuto. È iniziata lo scorso anno, quando gli Houthi hanno iniziato a prendere la provincia di al-Jouf al nord, sul confine con l’Arabia Saudita. Successivamente si sono mossi verso sud, verso la provincia di Ma’rib. Inizialmente hanno preso i distretti occidentali, per poi iniziare un’offensiva anche da sud. Dopodiché si è arrivati ad una situazione quasi di stallo, che è andata avanti fino alla seconda metà del 2020. L’offensiva è poi ripresa a fine gennaio 2021. Gli Houthi sono riusciti abbastanza agevolmente a prendere gli altipiani a ovest della città, ma nel momento in cui sono entrati in campo aperto si sono esposti al fuoco nemico e agli attacchi aerei della coalizione saudita. Al momento il fronte si trova a circa 30 km a ovest della città. Appare improbabile che gli Houthi riescano a prendere la città, ma il rischio di un’escalation ulteriore è sempre presente.
FC: Perché la città è così importante?
AC: Ma’rib è una città che prima della guerra era marginale. La provincia è sì sede di pozzi petroliferi e giacimenti di gas però all’epoca era politicamente secondaria. Dopo il 2015, come dicevo, è cresciuta in modo esponenziale dal punto di vista demografico ed ha acquisito un’importanza politica perché è diventata la capitale di fatto del governo Hadi, dato che questo non poteva mettere piede ad Aden e, ovviamente, a Sana’a. Se gli Houthi dovessero prendere la città infliggerebbero una sconfitta quasi mortale al governo internazionalmente riconosciuto perché ciò significherebbe che il territorio controllato dal governo si ridurrebbe sensibilmente, oltre a perdere controllo sulle risorse energetiche della regione. A quel punto, gli Houthi potrebbero decidere di sedersi al tavolo delle trattative da un punto di forza enorme, oppure addirittura di proseguire l’avanzata.
FC: Quanto ha inciso sul corso di questi eventi la linea della nuova amministrazione statunitense verso lo Yemen?
AC: L’amministrazione Trump aveva cercato negli ultimi mesi di isolare ulteriormente l’Iran dichiarando gli Houthi un gruppo terrorista. Questo avrebbe avuto ripercussioni importanti soprattutto per molte aziende che non si sarebbero prese il rischio di avere rapporti commerciali con imprese con sede nel nord del paese. Il che avrebbe avuto conseguenze economiche ed umanitarie molto importanti. Una delle prime misure adottate dalla nuova amministrazione Biden è stata quella di sospendere questa designazione e di nominare un inviato per lo Yemen che ha riattivato i canali di comunicazione con gli Houthi. La lettura che viene data di questa apertura americana è che fondamentalmente gli USA stanno cercando da una parte di aprire una via negoziale con gli Houthi. Dall’altro è stato anche un segnale di apertura nei confronti dell’Iran, in vista di possibili negoziati sul nucleare. Gli Houthi avrebbero quindi sfruttato questo nuovo approccio dell’amministrazione americana per rinnovare l’offensiva su Ma’rib iniziata lo scorso anno e dunque rafforzare la propria posizione negoziale.
FC: Cosa bisogna aspettarsi, invece, dall’Arabia Saudita?
AC: È da tempo che i sauditi cercano una via d’uscita onorevole dallo Yemen perché è una guerra che ha avuto costi politici ed economici molto onerosi. Allo stesso tempo, non possono ammettere di aver perso. Il problema è che la via d’uscita è difficile perché significa abbandonare i propri alleati in Yemen e, soprattutto, accettare che la presenza degli Houthi – che, almeno nella loro percezione, prenderebbero ordini dall’Iran – al proprio confine meridionale.
Finché non si risolve questo nodo, per i sauditi è difficile prendere un’iniziativa forte che porti a conclusione almeno la parte internazionale del conflitto. Sottolineo internazionale. Perché, anche quando il presidente statunitense Biden ha detto di voler terminare il conflitto in Yemen, intendeva la sua dimensione internazionale. La dimensione locale della guerra è una questione che non si può risolvere dall’oggi al domani e che difficilmente si risolverà con le attuali istituzioni, cioè con uno stato yemenita unito.